lunedì 23 marzo 2015

CAMPAGNA PER IL REDDITO MINIMO DI CITTADINANZA: ADERISCI!




 (Aderisco personalmente a questa campagna lanciata da Libera e lo divulgo).

"La povertà è la peggiore delle malattie in senso sociale, economico, ambientale e sanitario, che colpiscono il paese. E' necessario rimettere lotta alle povertà e welfare al centro dell'agenda politica per costruire una risposta a problemi che riguardano la dignità e la libertà delle persone, di fronte alle diseguaglianze che aumentano, a una povertà fuori controllo, con milioni di cittadini coinvolti, una crisi economica che vede il rafforzamento dell'economia criminale e del potere delle mafie. Essendo già alcuni disegni di legge in discussione al Senato, chiediamo che in 100 giorni venga calendarizzata , discussa e approvata in aula l'istituzione del Reddito minimo o di cittadinanza". Libera con la partecipazione del BIN-Basic Encome Network eEAPN- European Antipoverty Network, Italia promuove la campagna "100 giorni per un reddito di dignità", contro la povertà e le mafie per chiedere al Parlamento di prendere una decisione importante, una misura prevista già da tutti i paesi europei, con l'esclusione di Italia, Grecia e Bulgaria. Dal 16 ottobre 2010 che il Parlamento Europeo ci chiede di varare una legge che introduca un "reddito minimo, nella lotta contro la povertà e nella promozione di una società inclusiva". 

Sono passati cinque anni e nulla è successo. Una grande mobilitazione, una firma www.campagnareddito.eu per chiedere al Parlamento di fare presto: entro 100 giorni una buona legge sul reddito di dignità arrivi in aula al Senato per essere discussa e approvata. Non è impossibile, non è una proposta irrealistica: ci sono diverse proposte di legge già presentate a Palazzo Madama.I numeri sono drammatici: dal 2008 al 2014 la crisi in Italia secondo i dati Istat, ha raddoppiato e quasi triplicato i numeri della povertà relativa ed assoluta. Sono infatti 10 milioni quelli in povertà relativa, il 16,6% della popolazione complessiva, ed oltre 6 milioni, il 9,9% della popolazione, in povertà assoluta. Ma oltre i dati relativi alla condizione specifica della povertà, dobbiamo comprendere nel computo finale tutte quelle fasce sociali a rischio povertà: dai working poor (oltre 3,2 milioni di lavoratori e lavoratrici) ai precari, dagli over 50 senza alcun lavoro alle donne, dai migranti ai giovani, dagli anziani a coloro che hanno difficoltà abitative il numero dei soggetti a rischio potrebbe aumentare in maniera esponenziale.
Il Reddito Minimo o di Cittadinanza- si legge nell'appello della campagna di Libera-è un supporto al reddito che garantisce una rete di sicurezza per coloro che non possono lavorare o accedere ad un lavoro in grado di garantire un reddito dignitoso o non possono accedere ai sistemi di sicurezza sociale (ammortizzatori socio-economici) perché li hanno esauriti (esodati, mobilità) o non ne hanno titolo o vi accedono in misura tale da non superare la soglia di rischio di povertà. Il Reddito Minimo o di Cittadinanza, garantisce uno standard minimo di vita per gli individui e per i nuclei familiare di cui fanno parte che non hanno adeguati strumenti di supporto economico.

 Il Reddito Minimo o di Cittadinanza, è anche uno strumento fondamentale di contrasto alle mafie in una fase di grave crisi e di aumento della povertà e delle diseguaglianze sociali,perché toglie ossigeno a chi sfrutta il bisogno di lavoro trasformandolo in ricatto economico, per alimentare circuiti criminali che approfittano della povertà o per fare dei posti di lavoro merce per il voto di scambio. E impone al contrario un diritto che rende le persone meno deboli anche di fronte a chi ne vuole sfruttare i bisogni e le fragilità.La misura- prosegue Libera- è rivolta a coloro che già sono in una condizione di povertà economica, a coloro che in un dato momento della loro vita si trovano nella condizione di non poter lavorare o che hanno un reddito che non permette loro di vivere una vita dignitosa, o che hanno perso i benefici degli ammortizzatori sociali o che sono in ogni modo al di sotto di una certa soglia economica. Non c'è bisogno di misure assistenziali né possiamo immaginare che il reddito di cittadinanza, o reddito minimo garantito, sia la soluzione del problema. E', però, una misura indispensabile nel breve periodo per contrastare la povertà assoluta, l'esclusione sociale e il ricatto delle mafie.

Fonte: http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/11173

MANIFESTAZIONE NAZIONALE A BOLOGNA CONTRO LE MAFIE. 21 MARZO 2015










Paolo Cugini
"La verità illumina la giustizia", questo lo slogan scelto per XX Giornata delle memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Libera per la XX edizione ha scelto l'Emilia Romagna, ha scelto Bologna. Ho partecipato a questa manifestazione perché credo nella possibilità di cambiare la mentalità mafiosa presente sul nostro territorio con un impegno effettivo, mettendoci la faccia.

La Giornata della Memoria e dell'Impegno ricorda tutte le vittime innocenti delle mafie. Sul palco della manifestazione che ha visto confluire più di duecento mila persone sono stati letti i nomi di circa 900 nomi di vittime innocenti delle mafie, semplici cittadini, magistrati, giornalisti, appartenenti alle forze dell' ordine, sacerdoti, imprenditori, sindacalisti, esponenti politici e amministratori locali morti per mano delle mafie solo perché, con rigore e coerenza, hanno compiuto il loro dovere.
Di manifestare contro le mafie ce n’è bisogno eccome. La scelta di Bologna come sede della manifestazione non è casuale. Come ha ricordato il sindaco di Bologna Virginio Merola “I dati del rapporto sulle Mafie in Emilia Romagna dicono che nella nostra regione il volume d’affari delle organizzazioni criminali vale circa 20 miliardi di euro”. È necessario, dunque continuare a combattere e, soprattutto promuovere la cultura della legalità. Come ha, infatti, recentemente ricordato Papa Francesco, la Mafia va a braccetto con la corruzione politica. Diviene allora necessario e sempre più urgente contrastare la cultura mafiosa con la cultura della legalità e con l’informazione. Lo ha sostenuto il Procuratore di Bologna Roberto Alfonso, in uno dei seminari tenutisi nel pomeriggio sul tema: Le mafie in Emilia Romagna. 

Il Procuratore Alfonso ha fondato la propria relazione parlando dello specifico della presenza mafiosa in Emilia Romagna utilizzando due termini: delocalizzazione e radicamento che sono “due facce della stessa medaglia.  Delocalizzazione significa esportazione dalla Calabria all'Emilia Romagna delle modalità mafiose per raggiungere il risultato.  Radicamento è qualcosa di più che un’infiltrazione. La mafia è stanziale dal giugno del 1982 in Emilia. Si sono installati in Emilia per operare in termini stabili e definitivi. Stiamo parlando dei calabresi. É un fenomeno che utilizza nel territorio modalità calabresi. Tutto ciò è appurato attraverso l’indagine”. Non si tratta di una presenza sporadica, ma di un vero e proprio insediamento per controllare il territorio. Durante il seminario in varie occasioni si è ricordato la stranezza della presenza mafioso su di un territorio che, per storia e tradizione, si pensava immune. E invece si deve parlare di mafia come  “valore aggiunto: è un termine economico che applichiamo all'organizzazione criminale dell’andrangheta. È una multinazionale, infatti è de localizzata. L’imprenditoria locale accetta perché è un vantaggio. L’omertà è dettata per lo più dalla paura di vedere il bos. Qui è un silenzio dettato dall'economia, delle agevolazioni che può ottenere. “C’è una relazione di complicità – ha sostenuto Alfonso - che diventa sempre più profonda e quando decide di sganciarsi non ce la fa. Quando gli imprenditori rimangono incastrati in questi meccanismi accumulano dei debiti e per questo falliscono”.
Le nuove generazioni, presente massicciamente alla manifestazione di Bologna sono la presenza, non solo per il futuro, ma anche nel presente, della possibilità di un cambiamento di mentalità, per passare dalla cultura dell’omertà e dei favori ad personam, alla cultura della legalità e della giustizia. Che bella gioventù!



martedì 17 marzo 2015

DON LORENZO MILANI E L'ESPERIENZA DI BARBIANA MESSO IN SCENA DAI BAMBINI DI REGINA PACIS





Paolo Cugini

Sono alcuni anni che i vescovi italiani insistono per una catechesi più esperienziale, meno legata al modello scolastico e più coinvolgente. Oltre a ciò è nota anche l’insistenza per un maggior coinvolgimento delle famiglie nel processo dell’iniziazione cristiana dei bambini. Come riuscire a dire il Vangelo di Gesù in modo tale da interessare i bambini, da coinvolgerli attivamente? Sembrano domande importanti che a volte lasciamo cadere nel vuoto, sopraffatti da una rotina catechetica che non lascia spazio alla creatività, al desiderio di tentare percorsi nuovi. A volte, però è importante provarci perlomeno per capire se la proposta del Vangelo è ancora attuale e cioè se ha qualcosa da dire alle nuove generazioni.

In virtù di queste esigenze nella parrocchia di Regina Pacis si è pensato di tentare un percorso sperimentale coinvolgendo i bambini delle classi quinte, l’anno cioè che non è legato a nessun sacramento e, quindi più libero. Abbiamo pensato di proporre una figura cristiana significativa sia per i bambini che per i genitori, una figura che fosse significativa anche per i contenuti, per il messaggio proposto valido per la nostra società. La nostra attenzione si è spostata sulla figura di don Lorenzo Milani e la sua esperienza pastorale di Barbiana. Dire don Milani significa un certo modo d’intendere la chiesa e l’oratorio, un’attenzione preferenziale per i poveri, il bisogno di giustizia e, soprattutto, un certo modo d’intendere l’educazione, sia scolastica che religiosa. Quella di don Milani è senza dubbio un’esperienza di quelle che fanno riflettere e che non lasciano spazio all’ambiguità. Sfogliando le lettere che don Milani scirveva ai ragazzi ci si rende conto della grande sensibilità che questo prete aveva, del significato di guidare un cammino di fede che sappia incarnarsi nella vita e, soprattutto, del rispetto della libertà personale nelle scelte importanti della vita.  Abbiamo poi cercato qualcuno che ci potesse aiutare. Non basta, infatti conoscere qualcosa quando si tratta di trasmissione di contenuti ai bambini, occorre anche la capacità di saperlo trasmettere. Per la competenza assunta in questi anni e anche per la conoscenza dell’esperienza di don Milani abbiamo chiesto a frate Antonello Ferretti di accompagnarci in questo percorso. Detto e fatto.

Vedere coinvolti nel cammino d’iniziazione cristiana non solo i catechisti e i bambini, ma anche i loro genitori assieme ad alcuni educatori è stata l’idea che ci ha spinto ad osare qualcosa di nuovo. Abbiamo sentito l’esigenza di prendere sul serio le indicazioni dei vescovi, che ci consigliano di avere il coraggio di uscire dallo schema di una catechesi scolastica per proporre qualcosa di coinvolgente e, allo stesso tempo interessante. Troppo spesso, infatti, nel percorso di catechesi, ci si preoccupa più dei contenuti che del modo di comunicarli e trasmetterli, esattamente come accade a scuola. Abbiamo iniziato con una frequenza mensile, anche perché la richiesta non era quella di trascorrere assieme la classica ora di catechismo, ma il pomeriggio intero. Oltre a ciò, abbiamo pensato di finalizzare il percorso con qualcosa di concreto, qualcosa di visibile e di presentabile alla comunità, una specie di messaggio finale del percorso svolto da poter condividere. Fr. Antonello ci ha raccontato alcune storie della vicenda di Barbiana vissuta da don Milani e dai suoi ragazzi. Storie che lentamente hanno preso corpo nella fantasia dei bambini della catechesi, che hanno ricostruito le storie assieme a genitori e catechisti, pensando insieme alle musiche, alle scene, ai testi. Cogliere il vangelo non come una dottrina, ma come un’esperienza di vita, uno stile, un modo di vivere alternativo che s’inserisce nel cammino vitale quotidiano, nell'impegno scolastico, che per un bambino è di fondamentale importanza, nelle scelte della vita quotidiana che un genitori deve poter fare: è questo il senso della proposta. Nel percorso di catechesi diviene importante potersi confrontare con esperienze che hanno segnato le persone coinvolte, ne hanno condizionato le scelte, indicato un cammino. Significativo, allora, è iniziare e continuare a lavorare assieme  - genitori, bambini, catechisti, educatori – allo stesso progetto, scambiando idee, punti di vista, toccando con mano un’esperienza di vangelo vissuto e, allo stesso tempo, temi di grande attualità come l’educazione, la diseguaglianza sociale, i poveri, l’importanza della scuola e della formazione nella vita di una persona. Parola che si fa carne, pensiero che diventa azione, che si realizza in scelte concrete, modo di essere che illumina e orienta.

Il progetto iniziato in punta di piedi ha avuta una ricaduta quasi immediata anche sulla comunità. Si è avvertita, infatti, l’esigenza di aiutare gli adulti, assieme ai catechisti e agli educatori dei gruppi delle superiori di approfondire l’esperienza di Barbiana con una serie d'incontri. Significativo, in questa prospettiva,  è stato il reading di alcune lettere di don Milani, commentate da fr. Antonello. Oltre a ciò, si è pensato di estendere la figura del priore di Barbiana anche in altri percorsi formativi. Il campeggio invernale delle medie dell’unità pastorale ha avuto come tema dominante proprio l’esperienza di Barbiana, percorso che intendiamo continuare anche nella proposta del medio-grest estivo.

Sabato 18 aprile nella sala polivalente del nuovo oratorio di Regina Pacis vi invitiamo, allora, ad assistere a: BARBIANA: DOVE I SOGNI DIVENTANO REALTÀ. Molto più di uno spettacolo, potremmo dire una storia intessuta di tante storie. Senza dubbio c’è la storia dei bambini che partecipavano quotidianamente alla scuola di Barbiana con don Lorenzo Milani. Ci sono anche le storie dei bambini della quinta elementare della parrocchia di Regina Pacis, con le loro catechiste e i loro genitori. È stato bello vedere i genitori non solo a portare e scaricare i loro figli per la catechesi, ma a rimanere con loro, a costruire assieme a loro IL PONTE DI LUCIANO, interessarsi delle musiche, delle sceneggiature, a scrivere insieme i testi. Piccole cose, che però possono diventare significative per il fatto che, facendole si sono appassionati, hanno desiderato incontrarsi, hanno vissuto in prima persona quel percorso che solitamente vivono da spettatori. 




lunedì 16 marzo 2015

CORSO DI LETTURA POPOLARE DELLA BIBBIA A REGGIO EMILIA



Paolo Cugini
   Tra aprile e maggio verrà realizzato nei locali dell’Oratorio cittadino un Corso di Lettura popolare della Bibbia. Si tratta di un metodo messo in atto in America Latina nella realtà delle comunità di base, vale a dire in quel modo di essere chiesa dove le parrocchie sono costituite da tante piccole comunità, che si trovano settimanalmente a leggere la Parola di Dio e a celebrare nel giorno del Signore. Il metodo è stato messo a punto durante gli anni della dittatura militare, vale a dire tra gli anni sessanta e ottanta del secolo scorso; certamente uno dei periodi più negativi dell’America Latina. Nelle Comunità di base si comincia a leggere la Bibbia per cercare risposte alla situazione. Il grido del popolo d’Israele schiavo in Egitto diviene il modello di questo percorso di liberazione. Si tratta, dunque, di una lettura contestualizzata in cui la comunità ascolta la Parola di Dio per cercare luce e forza per affrontare la situazione di oppressione che vive. È la comunità riunita la chiave interpretazione del testo ascoltato e meditato. È in questa prospettiva che il legame fede e vita, amore al Signore e vita vissuta s’intrecciano sempre di più. Legame poi, che divieni visibile nelle celebrazioni domenicali sempre vissute con molta partecipazione.

La lettura Latino-americana della Bibbia nasce dalla speranza di milioni di contadini e contadine che resistevano all'avanzata del sistema del latifondo, nei sindacati e nelle associazioni delle periferie delle favelas, nei quartieri poveri ammucchiati dal grande fenomeno dell’esodo rurale che mandava via i contadini dal campo, ed è quindi figlia delle pastorali sociali e delle comunità ecclesiali di base. L’esperienza dell’ascolto della Parola in un simile contesto crea entusiasmo, perché le persone che vi partecipano iniziano a percepire la presenza del Signore, suscitando il desiderio di uscire dalle situazioni di oppressione. Il momento settimanale di ascolto della Parola non diviene fine a se stesso, in una ricerca di conoscenza vuota, ma stimolo per comprendere meglio il proprio vissuto e alimentare la speranza di un mondo migliore.
La lettura popolare della Bibbia è anche una lettura critica della realtà perché cerca di promuovere dei cambiamenti effettivi nel contesto in cui viene realizzato l’ascolto della Parola. Senza dubbio, un simile percorso può sembrare strano, contrario al nostro modo di accostarci al testo sacro. Soprattutto, può sembrare un metodo che forza il testo sacro per ottenere risposte concrete. Ogni critica è positiva perché aiuta a migliorare il modo di vedere la realtà. È questo che ci sta insegnando la chiesa e cioè che non esiste un unico modo di leggere la Parola, un unico punto di vista da cui guardare. Del resto, se i vangeli sono quattro deve pur significare qualcosa, vale a dire l’impossibilità di cogliere il mistero di Dio da un’unica prospettiva, da uno stesso punto di vista. Per cogliere la bellezza e, allo stesso tempo, la ricchezza del metodo di Lettura popolare della Bibbia occorre fare lo sforzo di spostarsi dal proprio punto di vista, di mettersi da parte per portarsi verso il punto di vista dell’altro, il punto di vista dei milioni di poveri e di oppressi che hanno trovato nella Parola di Dio una lampada per il proprio cammino di salvezza.
Questo tipo di lettura biblica è molto bene illustrata da una storia raccontata da Frà Carlos Mesters, uno dei pionieri della Lettura Popolare della Bibbia in Brasile: “In una piccola comunità di agricoltori molto poveri, è stato letto un testo che proibisce la possibilità di mangiare carne di maiale ( Lv11,7-8;Dt 14,8). La gente presente alla riunione ha domandato:- Che cosa Dio ci vuole dire oggi attraverso questo testo?-La gente ha discusso sull’argomento e alla fine ha concluso:-attraverso questo testo Dio vuole dirci oggi che dobbiamo mangiare carne di porco!- L’argomento usato era il seguente:-Dio si preoccupa soprattutto con la vita e la salute del suo popolo. La carne di maiale, quando non è tenuta bene, può provocare malattia e morte. Per questo, nel tempo della Bibbia, Dio proibiva alla gente di mangiare carne di maiale. Oggi però noi sappiamo come fare con la carne di maiale affinché non provochi malattie, essa non fa più male alla nostra salute. Oltre a ciò, la carne di maiale è l’unica carne che abbiamo qui da mangiare. Se non mangiassimo questa carne non faremmo bene alla nostra salute né alla salute dei nostri figli. Per questo oggi Dio ci comanda di mangiare carne di maiale. Dobbiamo essere fedeli alla parola di Dio!”

Si comprende molto bene che è un modo di leggere la Scrittura che ha i poveri come interpreti. Il testo è incorporato alla loro vita e la loro vita al testo, che è percepito come frutto di una comunità che lotta per la vita e crede nel Dio della Vita. Per i poveri la Parola di Dio non sta nella lettera delle Scritture, ma nella lettura della Scrittura che attualizza l’azione salvifica, protettrice e liberatrice di Dio con i poveri.


Il corso che gli amici della Lettura Popolare della Bibbia hanno promosso si avvale della presenza di Maria Soave Buscemi, italiana che vive da più di vent'anni in Brasile e da molto tempo accompagna diversi gruppi di lettura popolare della Bibbia. Soave, per la competenza acquisita in tanti anni di studio e di pratica é invitata in varie parti del mondo dalle chiese evangeliche per presentare questo metodo. Assieme a Soave ci sarà anche don felice Tenero, della diocesi di Verona, Fidei Donum in Brasile per molti anni. Entrambi da alcuni anni sono stati invitati dalla CEI a coordinare il percorso formativo al CUM di Verona per tutti i missionari in partenza per l’America Latina. Arrivederci , allora, a sabato 18 aprile all'Oratorio cittadino alle 9 per iniziare questo percorso biblico insieme che sarà senza dubbio ricco di spunti per i nostri cammini di fede e, speriamo anche per il cammino delle nostre comunità. 

venerdì 13 marzo 2015

LE UNITÀ PASTORALI VISTE DALL'AMERICA LATINA: UNO SGUARDO DIVERSO





Paolo Cugini

 Guardare il cammino della chiesa italiana da quell'angolo di mondo che ha visto il fermento delle Comunità Ecclesiali di Base (Cebs) può senza dubbio aiutare a cogliere sfumature che difficilmente si percepiscono quando si osserva un fenomeno troppo da vicino e, soprattutto, da un unico punto di vista. Del resto, una delle tante caratteristiche dello Spirito Santo che inventa e guida la Chiesa affinché divenga sempre segno visibile della presenza del Signore risorto, è quella dell’imprevedibilità, della creatività. Ciò significa che non solo non bisogna fissarsi troppo sui modelli ecclesiali sorti storicamente, ma anche e soprattutto, che bisogna essere attenti ai segni dei tempi e ai cambiamenti che questi segni esigono. La libertà dei figli di Dio, che lo Spirito Santo suscita, dovrebbe poter manifestarsi nella capacità di staccarci dalle forme religiose storiche, per essere pronti ad abbracciare quello che lo Spirito Santo suscita nella chiesa. Se c'è qualcosa che è chiaro e sorprendente leggendo i racconti delle prime comunità cristiane, è quello di essere sempre all'avanguardia nei tempi, anzi spesso e volentieri di essere qualche metro più avanti. Quelli allora che ci appaiono come problemi insormontabili, che non ci fanno dormire alla notte, alla luce della presenza misteriosa dello Spirito Santo, che soffia dove vuole e come vuole, dovrebbero sempre di più apparire come possibilità nuove, come cammini nuovi che il Signore ci sta presentando ai nostri occhi.

Se le caratteristiche delle comunità di base latinoamericane sono la partecipazione attiva dei laici e la centralità della Parola di Dio, quelle delle parrocchie italiane sono il sacerdote e l’Eucarestia. La parrocchia italiana nasce con la presenza del sacerdote residente. Su questo rapporto stretto tra parroco e parrocchia nasce e si sviluppa anche una specifica spiritualità, che vede nella comunità parrocchiale la sposa del parroco. Per questo, una volta entrato in parrocchia il parroco non si spostava più: era inamovibile. Non può, infatti, lo sposo abbandonare la sposa e per questo le rimane fedele fino alla morte. Questa identificazione stretta tra parroco e comunità parrocchiale è ben visibile anche nelle sagrestie parrocchiali nelle quali spesso viene riportato la lista di parroci che l’hanno servita. Se la comunità esiste quando c’è un parroco, è chiaro che non si è mai fatto nulla per mettere in grado i laici di guidare una comunità, di celebrare la Parola. Forse sarebbe meglio dire che non solo non si è fatto nulla, ma non è mai venuto in mente. Del resto, l’abbondanza impressionante di sacerdoti durante i secoli, non ha fatto mai sospettare la possibilità di un cambiamento tanto radicale come quello avvenuto negli ultimi decenni. Se la parrocchia è sempre stata pensata a partire dal parroco, è veramente molto difficile cambiare l’impostazione, anche perché nei secoli i fedeli si sono abituati a pensare la comunità in funzione di figure stabili, che risiedevano nella comunità per decenni e, spesso e volentieri, risolvendo tutte le problematiche legate alla vita di comunità. Che bisogno c’era, infatti, d’interessarsi della catechesi o della liturgia se in una parrocchia di 300 abitanti c’era il parroco residente? Nel tempo, la spiritualità della gente di una comunità ha sempre dipeso dalla spiritualità del parroco.

Le unità pastorali nascono esattamente in questa prospettiva, tentando, cioè, di rispondere a questo problema: in che modo le parrocchie possono essere servite dal sacerdote nell'epoca della crisi di vocazioni? Se la parrocchia dipende dalla presenza del sacerdote è chiaro che la comunità non esiste senza questa presenza. Nelle comunità di base latinoamericane il centro non è il parroco, ma il popolo di Dio, anche perché la comunità non s’identifica con una persona, ma con l’assemblea riunita attorno alla Parola. E' per questo motivo che il grande lavoro svolto nel cammino di Chiesa latinoamericano è avvenuto sulla formazione dei laici, per metterli in grado di celebrare la Parola, di svolgere le funzioni religiose della comunità, compresi i funerali e i matrimoni. Chiaramente, non si tratta di contrapporre dei modelli ecclesiologici, o di dire qual’è il migliore. Si stratta solo di guardare un problema da un altro punto di vista e provare ad ascoltare l’effetto che fa. Senza dubbio, guardare il problema pastorale, così come si sta configurando nella realtà italiana, dalla prospettiva latinoamericana fa un certo effetto. Infatti, dove in Italia si pone l’accento sulla crisi (di vocazioni) e dove tutte le problematiche pastorali sono viste in funzione o alla luce della suddetta, guardando questa crisi di vocazioni con il cannocchiale latinoamericano sembra si tratti, in realtà, di un’abbondanza.

La storia delle parrocchie italiane è antichissima. Ci sono parrocchie anche piccole che risalgono al secolo 12º o anche prima. Si percepisce molta sofferenza da parte delle persone di una piccola parrocchia che in poco tempo e quasi per decisione d’ufficio, viene accorpata ad altre, perdendo la sua identità e, per certi aspetti la sua storia. Bisognerebbe avere la pazienza di accompagnare le comunità parrocchiali verso il nuovo modello di comunità che si vuole mettere in atto. Non si può spazzare via una tradizione secolare solamente per rispondere a quelle che vengono percepite come esigenze impellenti. Guardare il problema da un altro punto di vista, può aiutare a percepire il fenomeno in questione, non tanto come un problema, ma come un segno dei tempi, che ha bisogno di essere letto e interpretato. Si tratterebbe, allora, non semplicemente di creare queste strutture ecclesiali impersonali, chiamate unità pastorali – impersonali perché non hanno un’identità ecclesiale specifica, non hanno storia: sembrano proprio nate a tavolino – per rispondere sempre al solito problema della presenza del sacerdote nelle parrocchie in questo nuovo contesto pastorale. Alla luce dell’esperienza latinoamericana si potrebbe leggere la situazione come un’occasione – un segno dei tempi? – che il Signore sta presentando alla sua chiesa per investire maggiormente sulla formazione dei laici. Questo non significa che sino ad ora non si è fatto nulla in questa prospettiva. Anzi, molto si è fatto anche in Italia, soprattutto dopo le indicazioni del Concilio Vaticano II. L’impressione, però, è che l’alto livello della formazione offerta, non corrisponda poi al coinvolgimento dei laici nelle comunità. Meno presenza dei sacerdoti nelle singole comunità, potrebbe significare la possibilità una presenza più qualificata, più ministeriale dei laici nelle suddette. Perché allora, laici debitamente preparati, non potrebbero celebrare la Liturgia della Parola domenicale, con la distribuzione dell’Eucarestia per opera dei ministri straordinari? E perché non potrebbero celebrare i funerali o organizzare in modo diverso e più comunitario le benedizioni alle famiglie? L’attuazione ministeriale effettiva nelle comunità parrocchiali, renderebbe più significativo il cammino di formazione proposto ai laici. Oltre a ciò, diverrebbe anche più visibile e, allo stesso tempo necessaria, una corresponsabilità sempre maggiore dei laici nella vita della comunità.


Mettersi dal punto di vista dell’altro aiuta a vedere meglio il proprio punto di vista. Non si tratta di copiare modelli pastorali per trasportarli da un posto all'altro, ma semplicemente di guardare assieme lo stesso fenomeno con occhiali diversi e cogliere così sfumature diverse. Il tanto agognato scambio di chiese, può divenire efficace quando apprendiamo a fidarci, a confrontarci serenamente, ad uscire dall’auto-referenzialità. Probabilmente, solo così potremmo scoprire che, quello che da un punto di vista appare come un problema che ci toglie il sonno, dall'altro sembra essere un’ottima occasione per crescere. 

giovedì 12 marzo 2015

LETTERA AI SEMINARISTI

ARCHIVIO BRASILE







Pintadas-Ba, 18 giugno 2011

Carissimi amici del seminario di Reggio Emilia,
Giacomo mi ha sollecitato di scrivere due righe per riprendere le riflessioni-provocazioni scambiate nel nostro incontro lo scorso anno. Lo faccio volentieri, anche perché mi permette di condividere un cammino con coloro che faranno parte della stessa famiglia sacerdotale. Mi aveva dato come scadenza l’11 giugno: purtroppo non ce l’ho fatta. Chiedo scusa.

1. La prima forte provocazione che ho ricevuto dal contesto che ero chiamato a servire é stata la povertà. Chi arriva a Salvador – capitale della Bahia – rimane ben impressionato per i palazzi sul lungo mare: sembra una città occidentale. Spostandosi di poche centinaia di metri verso l’interno ecco apparire le favelas, montagne di case, chiamiamole così, in cui si percepisce la presenza di un’umanità che lotta tutti i giorni per la sopravvivenza. Arrivato nel gennaio del 1999, dopo tre anni emmezzo di sacerdozio (sono diventato prete in giugno del 1995), avevo cominciato a girare i quartieri poveri per cercare di capire come viveva questa gente. Mi colpiva il niente che incontravo. Annotavo sul mio quaderno tutto quello che stavo incontrando, un mondo totalmente nuovo al quale non avevo mai pensato e nemmeno immaginato. Soprattutto non capivo come riuscissero a vivere queste persone, senza un lavoro, senza un conto in banca: come facevano a mantenere tanti figli?  Domande ingenue tipiche di colui che analizza una realtà con gli occhi del mondo di provenienza, senza aspettare di ascoltare la realtà per come è. Mi chiedevo anche come era possibile risolvere tutti i problemi che incontravo.

Questo impatto con tanta povertà provocò in me tantissime domande sul senso della vita, del mondo, sulla misericordia di Dio, l’ingiustizia umana, la disuguaglianza sociale. Non riusciva a farmi una ragione del perché di tanta differenza, tanta disuguaglianza. E allora decisi di incentivare quel percorso sul quale stavo lavorando sin dai tempi del seminario: la preghiera personale. Siccome ero ancora nella fase di conoscenza della lingua e della cultura, dopo cena, cioè alle 18, potevo organizzarmi come volevo. Decisi cosi, di dedicare due ore dopocena alla lettura di romanzi brasiliani, che mi permettessero di comprendere meglio la cultura locale e di andare a dormire presto – verso le 21 – per alzarmi presto. La bellezza della preghiera mattutina é stata una delle più belle scoperte della mia vita spirituale. Dedicare prima di aprire la porta di casa due o tre ore al Signore, dà una forza interiore incomparabile. È stato in questo primo anno di missione che mi sono innamorato della mistica ortodossa. Cercavo, infatti, dei libri che mi aiutassero a vivere la contemplazione, mi aiutassero a capire la vita nello Spirito. In un contesto di grande povertà, frutto di una disuguaglianza sociale fuori di misura, mi è successo di avvicinarmi ancora di più al Signore, di cercarlo con tutte le mie forze.

2. La seconda provocazione che ho ricevuto nella diocesi di Ruy Barbosa è stata lo stile di Chiesa e, di conseguenza, il modo di essere sacerdote. Como vi ho raccontato, le parrocchie dalle nostre parti sono costituite da comunità, chiamate comunità di base. Pintadas, per esempio, che è la parrocchia nella quale vivo ora, é composta di cinque comunità nella città e 32 nella zona rurale. La vita del sacerdote consiste accompagnatore la vita delle comunità, sia celebrando l’Eucaristia e i sacramenti, che dedicando tempo per la formazione dei liders di comunità. Passavo da una situazione ecclesiale – Reggio Emilia – in cui in parrocchia c´’e una messa, o quasi, tutti i giorni, ad un contesto, per esempio Ipirá che è una parrocchia formata da quasi 100 comunità,  nelle quali si celebra l’Eucaristia ogni due o tre mesi. Potete capire lo sconvolgimento mentale e spirituale che ho vissuto i primi mesi.  Da uno stile di parrocchia fatto di piccoli movimenti – canonica, oratorio, piazza, chiesa – ad uno stile di parrocchia fatto di distanze enormi; da uno stile di parrocchia fatto di rapporti personali con persone che vedi quasi tutti i giorni, ad uno stile di parrocchia dove incontri le persone 4 o 5 volte durante l’anno. Vacci a capire qualcosa! Confesso che i primi mesi ho fatto molta fatica. Era come se tutto quello che avevo appreso e vissuto non servisse assolutamente a nulla: non è una bella sensazione. Il primo anno di Brasile é stato come morire, seppellire quello che ero per fare il posto a qualcosa d’altro, Passare da una parrocchia concentrata in poco spazio, il cui lavoro pastorale consiste nell'attendere le persone che arrivano negli spazi pastorali, ad uno stile di chiesa decentrato in territori spesso vastissimi (la nostra diocesi è grande come l’Emilia Romagna e siamo 18 sacerdoti: ok?!). Per me si é trattato di una vera e propria conversione pastorale: deporre il modello di Chiesa e di sacerdote che avevo assimilato e vissuto sino a quel tempo, per assumerne uno totalmente nuovo, che non conoscevo e del quale nemmeno avevo sentito parlare.

Altro dato significativo del nuovo stile di Chiesa incontrato é la presenza dei laici. Nelle comunità chi svolge un ruolo effettivo di guida sono i laici. Chi celebra la Parola alla domenica, chi dirige il consiglio pastorale della comunità, chi risolve i problemi nella comunità sono i laici, che esercitano una funzione effettiva dentro la comunità. L’incontro con questo stile di chiesa ministeriale e laicale dal volto femminile ( la maggior parte dei liders delle comunità sono donne) mi ha aperto gli occhi sullo stile di prete che avevo dentro e cioè autoritario e autoreferenziale. Nei nostri consigli pastorali occidentali l’ultima parola spetta sempre al prete. In tutte le cose che avvengono in una parrocchia é il prete che decide. Nelle nostre parrocchie brasiliane o, meglio baiane, questo sistema non funzionerebbe. Il decentramento della parrocchia nelle comunità di base, ha come conseguenza immediata la necessità di valorizzare il laicato locale e, per questo, concentrare gli sforzi sulla loro formazione permanente. A Pintadas, per esempio, c’è un incontro mensile di formazione cristiana aperto a tutti, un corso di formazione mensile per ministri della parola, ministri dell’Eucaristia, catechisti, in giorni diversi. Oltre a ciò tutti i lunedì alla sera ci troviamo per leggere la Bibbia assieme. Nelle comunità incontro persone e famiglie semplici, per lo più contadini che lavorano nel piccolo pezzo di terra che possiedono o, spesso e volentieri, lavorano nelle fazendas per guadagnare qualche soldo. Tutto questo per dire che nelle comunità di base non incontriamo dottori, avvocati, banchieri, professori. Sottolineo questo perché, per me, é uno dei grandi paradossi della vita ecclesiale. Assumono, infatti, molto più responsabilità i poveri che incontriamo nelle nostre comunità, persone che spesso sono analfabete o quasi, che i professionisti delle parrocchie di Reggio Emilia. Chi ci capisce qualcosa è bravo. Aiutare i laici, che per la maggior parte dei casi dalle nostre parti sono donne, a svolgere bene il loro servizio nelle comunità di appartenenza, é la nostra grande sfida. Apprendere a deporre lo scettro per concederlo a coloro che vivono nella comunità é un esercizio spirituale che fa molto bene al ministero. Un ministero sacerdotale più di servizio, più attento a stimolare i carismi delle persone incontrate e meno concentrato su di sé, sulle proprie capacità, sul “potere” ricevuto: fa molto bene alla Chiesa e al mondo . Per me non si tratta di esportare un modello di Chiesa, ma di scambio di doni. Un dono bellissimo che la Chiesa Latinoamericana ha da offrire alla Chiesa Cattolica é questo modo di vivere la comunità, di valorizzare le persone e d’intendere il ministero sacerdotale. Una Chiesa piú democratica e meno autoritaria guadagna in umanità e perde in arroganza. E poi fa molto bene a noi preti, che ci sentiamo investiti di chissà quali poteri e, in virtù di questi trattiamo i laici spesso e volentieri come delle marionette.

Anche con i giovani il lavoro pastorale é diverso. Non possiamo organizzare campeggi, settimane bianche o gialle, ritiri spirituali di tre giorni da qualche parte, viaggio a Madrid con il Papa, per il semplice fatto che le famiglie non hanno condizioni economiche per sostenere simili esperienze. Inventare qualcosa di valido e formativo con i mezzi che ci sono a disposizione: é questa la grande sfida della pastorale giovanile dalle nostre parti. Oltre a ciò, la difficoltà maggiore del lavoro pastorale con i giovani è il fenomeno migratorio. Nelle nostre città del Nordes baiano non c’è nulla. E allora i giovani verso i 16/17 anni, terminate le scuole superiori – che in Brasile durano solo tre anni – se ne vanno nelle grandi città (San Paulo, Rio de Janeiro, Brasilia, Salvador, ecc.) in cerca di opportunità migliori di vita. Ciò significa che tutti gli anni il lavoro di pastorale giovanile deve ripartire da zero, o quasi. Facciamo fatica ad organizzare un cammino vero di accompagnamento spirituale con i giovani. Quasi non esiste la confessione ( il perché ve lo spiego un’altra volta), la direzione spirituale non si sa cosa sia (ho provata a metterla in piedi nella prima parrocchia che ho accompagnato, ma ho capito che chi ha a che fare con problemi di immediato interesse, non ha molto tempo da dedicare alla vita spirituale). Come strumenti formativi ho messo in pedi  alcuni progetti tra i quali segnalo uno studio biblico per giovani che sto realizzando nelle comunità. Altro dato importante. Quando parliamo di giovani dalle nostre parti ci riferiamo soprattutto agli adolescenti di 13-17 anni. Dopo questa data è difficile seguirli. Molti si sposano presto (più che altro si mettono insieme, anche perché lo sposarsi presuppone un progetto di vita che le scarse condizioni economiche non permette di elaborare), altri, come ho già detto vanno via e, chi rimane, si deve arrangiare per riuscire a fare qualcosa. Se la pastorale vocazionale ha fatto fatica a decollare nelle parrocchie della nostra giovane diocesi (52 anni!), è anche dovuto alla difficoltà di un lavoro pastorale formativo a lunga distanza con i giovani.

3. La solitudine. Ci sono delle giornate che non passano mai, sembrano infinite, lunghissime. In un contesto poi che non offre nulla, la situazione diventa ancora piú pesa. Ho scoperto sulla mia pelle che non è vero, come dicono alcuni saggi, che la preghiera risolve tutto. Ci sono, infatti giorni, che neanche la preghiera sembra bastare. Ho passato giorni che avrei avuto voglia di scambiare chiacchiere umane con persone normali. Ho passato serate che mi sarebbe piaciuto giocare a briscola in compagnia di amici. Il problema è che in contesti di povertà, come sono i nostri, è difficile instaurare rapporti alla pari, disinteressati di amicizia. Chi ci cerca é sempre per qualcosa di materiale e, alla distanza, pesa, soprattutto svuota. Per questo, dopo tanti anni di missione le persone amiche le conto sulle dita di una mano. Ci sono delle situazioni nella missione che ho scoperto solamente sul posto: una di questa é la solitudine. Ho impostato la missione in modo tale da essere sempre in mezzo alla gente. Ma ció non significa nulla, o quasi. Anche tra noi preti in missione è difficile incontrarci: le distanze sono enormi. Quando ci troviamo é sempre un momento molto bello e piacevole. Anche in questo caso per sopperire alla difficoltà di rapporti umani autentici ho incentivato il rapporto con il Signore, dedicando settimane di deserto in alcuni monasteri della regione. Come ho già scritto sopra non sempre la preghiera riesce a sopperire alla mancanza di rapporti umani veri. Per questo coltivo i pochi rapporti che sono riuscito ad intessere qui e i pochi che si sono mantenuti con l’Italia. Quando ero in Italia e sentivo la notizia di qualche prete che si sposava rimanevo profondamente scandalizzato. Ora, vivendo qui, in una realtà spesso disumana, fatta di rapporti interessati, non mi scandalizzo più. Come diceva Totó: siamo uomini e non caporali! Su questo punto, tanto delicato, avrei voglia di scrivere altre cosette, ma le lascio per una prossima occasione.

Dai sacerdoti baiani ho imparato a rilassarmi, a prendermi i miei tempi (anche se rimango strutturalmente una persona tesa). Nei primi cinque anni di missione non mi sono praticamente schiodato dalla parrocchia, vittima della spiritualità del sacrificio, o meglio del massacro ereditata a Reggio Emilia. Poi mi sono svegliato. Qui dalle nostre parti nel mese di gennaio (che corrisponde al mesi di agosto italiano)  si chiude la baracca. Le suore vanno nelle case madri delle congregazioni e i preti vanno in ferie a trovare amici e parenti. Questi preti sono venuti su in un modo e in un mondo differente, valorizzando i momenti umani della vita. Non c’è bisogno di spiegare ai preti che incontriamo nelle parrocchie baiane che sono uomini: lo sanno benissimo. Mi ricordo l’impressione sconvolgente che ho avuto partecipando di una festa di lettorato e accolitato in seminario a Feira de Santana. Dopo la cerimonia solenne svolta con tutta la pompa necessaria al caso, è iniziata la festa nel cortile del seminario. E qui la festa bisogna intenderla nel senso letterale della parola. Sono rimasto impietrito vedendo sacerdoti, seminaristi, suore parenti e amici ballare sorridenti! Qualcuno aveva avuto il coraggio d’invitarmi e io, un pó indignato, ho declinato l’invito. Il vescovo André e l’Arcivescovo di Feira Santana erano presenti, non ballavano, ma chiaramente approvavano. È la cultura. Contesti differenti in culture differenti dalle quali c’è sempre da apprendere qualcosa. Un ministero un pò più umano non significa meno santo.  Questa è stata una delle scoperte più belle della missione, che senza dubbio voi sapete già. E così, come dicevo, mi prendo i miei tempi, come fanno i sacerdoti baiani. Nel mese di gennaio - che é il mese nel quale le mie parrocchie lavorano di più a causa dei progetti che in questi anni ho messo in piedi – ne approfitto per un pò di preghiera e per aggiornarmi. Il mese di gennaio é anche il periodo dei Forum Sociali ( ho già partecipato a due Forum Sociali Mondiali, uno regionale e uno continentale), che si sono rivelati esperienze stupende, sia per le nuove conoscenze che si riescono ad intessere, sia per i dibattiti che avvengono. Sempre in gennaio, poi avvengono gli incontri dei preti Fidei Donum presenti in America Latina o in Brasile, tutte occasioni utili per scambiare esperienze e respirare aria nuova. Non so se, tornando in Italia, riuscirei a prendermi i miei tempi. Da un lato, c’è la spiritualità del sacrificio che ci frega, dall'altra ci sono i laici che non ti lasciano respirare. Quando la scorsa domenica ho annunciato che nel mese di luglio sarei andato a visitare mia sorella, che vive a Toronto, varie persone si sono avvicinate dicendomi: “Padre, ci porti con lei nella valigia!”. Se fossi stato in Italia probabilmente mi avrebbero detto: “Sei sempre in giro”. In una parrocchia nella quale i laici assumono i servizi pastorali come funerali, battesimi, matrimoni, celebrazioni, il prete può anche permettersi il lusso di visitare i parenti e, ogni tanto ritirarsi per aggiornarsi un pó. Meditate gente, meditate.

4. Mi ricordo che nell’incotro che avevamo avuto qualcuno mi aveva chiesto perché ho chiesto di andare in missione. In realtà non ho mai desiderato di andare in missione, anche perché ho sempre avuto dinnanzi, sin da piccolo, il modello di prete diocesano, che mi bastava e avanzava. Quando negli anni settanta e ottanta passavano in seminario nel mese di ottobre i missionari, quel modo di essere sacerdote, che loro presentavano, non mi attraeva più di tanto. Anche durante gli studi di teologia il mio ardore missionario non era molto elevato. Tutto è cominciato quando, durante la preparazione al diaconato, ho deciso di dare la disponibilità anche per le missioni diocesane, più per un entusiasmo del momento, che per una vera convinzione missionaria. Dopo due anni di sacerdozio, nella quaresima del 1997, mi aveva colpito un articolo apparso sulla Libertà di don Luciano Pirondini, che a quel tempo era direttore del Centro Missionario, in cui si lamentava del fatto che pochissimi sacerdoti avevano dato la loro disponibilità per le missioni diocesane. Il giorno dopo andai direttamente al Centro Missionario per parlare con don Luciano e lui mi invitò di rinnovare la mia disponibilità alle missioni con il vescovo. Detto e fatto. Fu così che l’anno successivo, era il febbraio del 1998, il vescovo Paolo mi chiese se ero disponibile ad andare in Brasile a sostituire don Antonio Davoli, che aveva chiesto di rientrare dopo 17 anni di missione. Ricordo la sensazione di freddo polare che entrò dentro di me, sensazione di qualcosa che avrebbe cambiato radicalmente la mia vita. Il Signore si serve proprio delle briciole che gli offriamo per realizzare il so progetto.

Vi saluto, augurandovi di passare gli esami (in bocca al lupo) e di trascorrere sane vacanze. Aquele abraço
Pe Paolo Cugini



martedì 10 marzo 2015

COMUNIONE E CORRESPONSABILITÀ

ARCHIVIO BRASILE




Incontro com i centri missionari della regione Emilia Romagna – Bologna 19/10/2010

Paolo Cugini

L’esperienza missionaria in America Latina é stata un vero e proprio dono del Signore, dono che in ogni momento sento la necessità di condividere con i fratelli e le sorelle che il Signore mi pone dinnanzi nella vita di ogni giorno. Esperienza vissuta alla guida di parrocchie composte da molte comunità ha provocato in me un cammino di conversione a differenti livelli.

1.     Decentralizzazione. Il contatto con parrocchie costituite da tante comunità provoca come conseguenza immediata, alla necessità di modificare il proprio ruolo, solitamente accentratore della figura del sacerdote. Il servizio pastorale svolto nelle parrocchie italiane e totalmente accentrato nelle mani del sacerdote: tutto deve passare al vaglio del parroco di turno. In che modo il modello di pastorale delle parrocchie come comunione di comunità può influenzare il modello italiano di parrocchia? Credo che lo stimolo che ci proviene dalla chiesa brasiliana sia quello d’incentivare la lettura e la condivisione della Parola di Dio in piccoli gruppi di famiglie. Decentrare la lettura del vangele nelle case della gente sarebbe già un grandissimo passo verso la scoperta di carismi nuovi dentro la comunità. È il contatto con la Parola in un contesto di vita nuovo e, allo stesso tempo, semplice e quotidiano, che può provocare un interesse, un desiderio di impegno in un particolare settore della comunità. Questo stile pone anche il problema del laicato e del suo impegno nella comunità in un’ottica nuova. Infatti, il laico no n viene convocato per svolgere un compito, ma é l’ascolto della parola, condiviso in famiglia e assieme ad altre persone del quartiere che stimola un interesse e il desiderio di mettersi a disposizione. C´’e un testo del Vangelo che rafforza questo stile di realizzare la pastorale, ed è il famoso testo della moltiplicazione dei pani. Gesú dopo aver trascorso la giornata annunciando la Parola alle folle sente compassione e interroga i discepoli sulla possibilità di sfamare le folle sino al punto di coinvolgerli direttamente: “date voi stessi da mangiare”. Gesù sente il problema, ma non lo risolve da solo: coinvolge i discepoli e li pone in condizione di esporsi in prima persona assumendosi le loro responsabilità. Una parrocchia decentrata nel territorio in piccole comunità di famiglie che settimanalmente meditano il Vangelo e apprendono ad affrontare i problemi della vita alla luce della Parola, permette anche alla stessa parrocchia di non puntare per svolgere il proprio servizio pastorale nelle strutture. Oltre a ció, la distribuzione sul territorio di piccole comunità più informali che il formalismo della parrocchia, permette senza dubbio più facilmente un Aggancio con i cosiddetti lontani, con coloro che non sono abituati a frequentare gli spazi parrocchiali ma che, non per questo sono bisognosi di un’attenzione spirituale.

2.      De-potenziamento. La parrocchia decentrate nelle piccole comunità che aiuta a scoprire i carismi e a valorizzare meglio il laicato, provoca conseguenze immediate sul modo di vivere il ministero. Accompagnare i responsabili delle comunità, curare la loro formazione, condividere con loro la responsabilità delle comunità significa depotenziare il ruolo assoluto e centrale del parroco. Questo processo, che richiede un vero e proprio cammino di conversione che, senza dubbio, non è indolore, perché passa a scontrarsi con mentalità che si sono costruite nei secoli, aiuta il sacerdote a vivere il ministero nella sua dimensione autentica di servizio, a recuperare una dimensione piú umana del prorprio ruolo dentro la comunità, permettendo di attivare relazioni più umane con i laici della parrocchia. Quando il sacerdote vive il ministero in una parrocchia sentendosi il garante assoluto della verità – ed è proprio questo purtroppo quello che si vede – diventa difficile costruire relazioni autentiche, che esigono il mettersi allo stesso livello dell’interlocutore. Il de-potenziamento del ruolo del sacerdote che distribuisce la responsabilità tra laici della comunità debitamente preparati e accompagnati dovrebbe condurre anche, come conseguenza di questo cammino di conversione, ad abbandonare i segni esterni del potere sacerdotale. Mi riferisco a tutti quegli apparati burocratici o a quei titoli quali: monsignore, eccellenza, eminenza, che pongono una distanza, mettono sul piedistallo. Se un tempo questi accessori facevano parte di tutto un modo di fare chiesa che poteva essere anche giustificabile, nella prospettiva che sto presentando mi sembra chiaro che dovrebbero essere abbandonati. Era questo, d’altronde, il grido che alcuni vescovi – tra i quali possiamo ricordare il cardinal Lercaro di Bologna e il brasiliano dom Helder Camara – lanciavano durante il Concilio Vaticano IIº, invitando i vescovi ad abbandonare le case lussuose per scegliere di vivere in piccole case umili, vicino ai poveri. Oltre a ció, un servizio ministeriale più umile e depotenziato, permetterebbe allo stesso ministro ad avere più tempo per sé, per curare la propria formazione spirituale e culturale. Spesso e volentieri nelle nostre parrocchie incontriamo parroci che non si concedono un giorno di riposo o di ferie a causa dell’eccessiva autoreferenzialità del modo d'intepretare il proprio ruolo. Vivere il ministero al servizio delle comunità coinvolgendo il più possibile il laicato locale affinché assuma con sempre maggiori responsabilità spazi importanti della pastorale aiuta il ministro ordinato a sentirsi dentro la comunità non come garante indispensabile delle verità dogmatiche della chiesa, ma come servo umile bisognoso lui stesso di misericordia del Signore, in un continuo cammino di conversione, di cambiamento, di spogliazione dei toni arroganti e autoreferenziali per vestire sempre più i panni semplici del servo.

3.     Democratizzazione. La chiesa decentrata nelle piccole comunità provocando il processo di de-potenziamento della figura del sacerdote aiuta alla stessa chiesa ad essere più democratica. È il cammino del coinvolgimento effettivo dei laici nella vita dell chiesa anche sul piano delle decisioni importanti. Troppo spesso noi parroci ricordiamo ai nostri fedeli, spesso con tono sprezzante segno di un autoritarismo di ritorno, che i consigli parrocchiali sono consultivi, lasciando implicitamente ad intendere che in fin dei conti chi decide alla fine siamo noi. La vita della chiesa decentrata nelle piccole comunità animata dal laicato che, spesso e volentieri é femminile, dovrebbe sempre più avere una parola significativo nel cammino della parrocchia. Democrazia significa apprendere a camminare assieme per decidere assieme. Questo stile di chiesa che nasce dall’ascolto della Parola nelle piccole comunità dovrebbe provocare anche relazioni nuove, più autentiche; relazioni che poi si ripercuotono nello stile e nel modo di celebrare la liturgia nella comunità.

Per quello che ho potuto vedere in questi anni d missione, credo che solamente dal basso, dall’ascolto attento della Parola di Dio nelle piccole comunità di persone povere la chiesa può convertirsi, diventando così più fedele al suo Signore che, da ricco che era si fece povere e servo dell’umanità. La chiesa che si pone in umile ascolto della parola di Dio é tenta di rispondere a questo annuncio senza dubbio produce uno stile di vita più umano di quello frenetico del mondo nel quale viviamo. Vivere meglio: é questo che il Signore ci chiede. Aiutare le persone che incontriamo a a vivere meglio, cercando stili di vita piú evangelici e meno legati alla logica del denaro e del consumo.


CHE BELLA CHIESA!

 ARCHIVIO BRASILE



Paolo Cugini


Dal 17 al 20 novembre si è svolta a Ruy Barbosa lannuale Assemblea diocesana. Presenti oltre al vescovo e i preti della diocesi, le suore e tanti laici. Nella prima giornata dellassemblea è stata presentata una sintesi del lavoro svolto nelle parrocchie, soprattutto si è cercato di verificare se le priorità diocesane, indicate lo scorso anno, sono state messe in pratica. Il secondo giorno è iniziato con lanalisi della situazione della Chiesa seguita da un dibattito tra i partecipanti dellAssemblea. Nei lavori di gruppo del sabato, si è discusso sul cammino della nostra diocesi e indicato le nuove priorità, che poi sono state presentate all'Assemblea riunita. Durante i tre giorni dellAssemblea diocesana, trascorsi tra incontri, lavori di gruppo, liturgie e pasti, la sensazione era quella di partecipare ad una Chiesa di persone uguali. Può sembrare un pò forte e strana quest affermazione, per questo provo a spiegarmi meglio. In nessun momento durante questi giorni ho avvertito la sensazione che, come prete, ero più importante dei laici o delle suore presenti, e che la mia parola valesse più della loro. Mi sono sentito un figlio di Dio assieme ad altri figli e figlie di Dio, che discutevano assieme e in modo egualitario sul cammino dellunica Chiesa alla quale apparteniamo. Siccome tutti apparteniamo a questa Chiesa, tutti, sia uomini che donne, sia laici che religiosi e sacerdoti, sono coinvolti a discutere con gli stessi diritti e doveri. Tutti, durante questi tre giorni ci siamo sentiti coinvolti a pensare assieme le sorti e il cammino della nostra Chiesa. È in circostanze come questa che avverto il significato e, allo stesso tempo, limportanza della Chiesa, popolo di Dio in cammino e che la Chiesa non é di qualcuno, ma nostra, perché Cristo è morto per tutti e non per qualcuno. Durante i pasti era bello vedere le persone presenti all’'Assemblea discutere sugli argomenti emersi, segno di una effettiva valorizzazione di tutti, perché lopinione di tutti è presa in considerazione.

Ciò che fa riflettere, soprattutto ad un prete come me che è stato formato in Italia, è il modo democratico di procedere, il modo del Vescovo di essere pastore, di condurre un
Assemblea. Quando si parla di democrazia nella Chiesa molta gente storce il naso. Abituati a vedere e vivere la Chiesa come unistituzione gerarchica, dove qualcuno decide e gli altri obbediscono, si pensa che sia questo il modo di viverla. Leggendo il Vangelo in questi anni di missione assieme alle comunità delle campagne e ai poveri dei quartieri delle periferie delle città in cui sono stato parroco, mi sono accorto che non è così. Gesù aveva un modo molto democratico di procedere. Ciò è ben visibile nelle parabole che raccontava, dove faceva di tutto per coinvolgere gli interlocutori. Lo stile democratico di Gesù è visibile nel dialogo con i suoi discepoli, continuamente coinvolti nell’'annuncio del Regno di Dio. Lo stile comunitario di Gesù era chiarissimo nel modo di vivere, atteggiarsi, parlare. La sua comunità non era fatta solamente di uomini, ma anche di donne. Lo ricorda il Vangelo di Luca (8,1-3). Qui da noi la maggior parte dei liders di comunità sono donne e, mi viene da dire: che donne! Oltre ad amministrare, spesso e volentieri da sole,  la casa piena di figli, queste donne guidano la celebrazione domenicale nella comunità. È logico, allora, che esigano e trovino spazio per esprimersi nella Chiesa che servono con tanto amore.
 
Nell'Assemblea diocesana di Ruy Barbosa le sedie sono disposte in circolo, in questo modo diviene evidente che nessuno partecipante arriva all’'Assemblea solamente per ascoltare, ma per intervenire attivamente e anche che nessuno arriva all’'Assemblea solamente per parlare ed esigere di essere ascoltato. Durante lAssemblea le linee della diocesi sono discusse assieme e le priorità sono messe a votazione. In nessun momento dellAssemblea il Vescovo ha imposto la sua opinione, ma é intervenuto in diverse circostanze a motivare e spiegare il senso degli emendamenti proposti.  Nelle varie votazioni realizzate, Dom André de Witte  è questo il nome del vescovo di Ruy Barbosa ha sempre accettato lesito delle votazioni, anche quando il risultato era contrario a quello che lui votava. Qualcuno potrebbe obiettare che nella Chiesa spetta al Vescovo indicare il cammino. Anch'io la pensavo così quando sono arrivato in Brasile. In questi anni di missione il Signore mi ha mostrato un modo differente di essere Chiesa, un modo diverso più evangelico? di condurre il gregge. Interessante sono stati i momenti di dibattito per discutere sulle varie proposte emerse nei lavori di gruppo. Molti prendevano la parola - laici, preti, suore, vescovo - per difendere e sostenere la propria opinione.
 
Anche il coordinatore della pastorale diocesano per i prossimi quattro anni é stato scelto dallAssemblea e non direttamente dal Vescovo come succede normalmente. Candidati erano tutti coloro che erano presenti: ciò significa che anche una suora o un laico o una laica potevano essere eletti. Alcuni anni fa era stata eletta una suora, Teresina, come coordinatrice della pastorale diocesana. Le votazioni si sono svolte con scrutino segreto in due momenti. È stato eletto padre Luis Miguel, un sacerdote spagnolo di 37 anni, già coordinatore della pastorale diocesana negli ultimi quattro anni. La rielezione avvenuta con la stragrande maggioranza dei voti, é dovuta al suo lavoro, molto apprezzato in diocesi. Anche l elezione del coordinatore della pastorale diocesana si è svolto in un clima democratico, senza imposizioni o forzature, nel rispetto di tutti i presenti. È partecipando a momenti come questi che mi sembra di capire il significato delle idee emerse nel Concilio Vaticano II, della Chiesa como Popolo di Dio o come comunione. Interessante è che, nel nostro cammino ecclesiale, le cariche non sono eterne. Siccome si tratta di servire la Chiesa, i criteri richiesti non sono speciali titoli, ma soprattutto amore e fede. Per questo motivo, periodicamente gli incarichi diocesani vengono rinnovati per permettere ad altri di mettersi a servizio della Chiesa.
 
Quando partecipo di assemblee in cui la discussione e i momenti di votazione sono democratici, dove nessuno impone la propria opinione, ma si cerca di arrivare ad un consenso comune, lasciando lo spazio per esprimere il proprio parere a coloro che lo desiderano, mi sembra di vivere nella Chiesa voluta da Gesù. Spesso e volentieri partecipando di incontri ecclesiali in Italia esco con la sensazione che gli assunti della chiesa sono cose per specialisti, per gente che ha studiato,mentre le persone comuni, non solo non sono invitate, ma debbono solo eseguire e obbedire. Al contrario, dopo lAssemblea diocesana a Ruy Barbosa, dove chiunque poteva intervenire liberamente e, soprattutto dove lopinione di tutti veniva ascoltata, son tornato a casa con la sensazione di aver partecipato ad un momento ecclesiale, in cui tutti sono protagonisti e responsabili. Mi è sembrato di capire che la diversità di ministero nella Chiesa non è nell'ordine dellimportanza, di una speciale qualità che il sacramento dellordine dovrebbe imprimere, ma nella disponibilità a servire sempre di più, a mettersi sempre più in basso e non in alto. Mentre partecipavo all’'assemblea diocesana di Ruy Barbosa mi venivano in mente le parole del Vangelo di Giovanni 13, della famosa scena della lavanda dei piedi. Gesù si è messo a lavare i piedi dei discepoli dopo che il testo del Vangelo ricordava che Gesù sapeva che il Padre aveva messo tutto nelle sue mani. Con il potere che il Padre mise nelle sue mani, Gesù si inginocchia per lavare i piedi ai suoi discepoli.

C´é un modo umano dintendere il potere e un modo evangelico, che dovrebbe essere visibile nella Chiesa, corpo di Cristo. Il potere del Padre presente nella Chiesa di Cristo dovrebbe essere visibile non nei segni del potere mondano vestiti, palazzi, distanza tra i membri -, ma nel modo di porsi a servizio gli uni degli altri. Questo modo, questo stile semplice e significativo era ben visibile durante lAsseblea diocesana di Ruy Barbosa. Nessuno era vestito con i simboli di un presuppposto potere mondano e nessuno si atteggiava come se fosse diverso dagli altri, esigendo attenzioni e privilegi particolari. Durante lAssemblea in nessun momento il vescovo, o il vicario generale né tanto meno il coordinatore diocesano di pastorale, hanno preteso una visibilità speciale. Al contrario, ho visto Don André, nei momenti di intervallo, dialogare con pazienza con coloro che durante lAssemblea si mostravano intransigenti in una particolare posizione. Ho visto il mio vescovo a servizio della Verità non con i segni del potere mondano vestiti, atteggiamenti, posizione, - ma con il marchio invisibile del servo obbediente, che si fa carico delle sofferenze degli altri e le porte senza nessuna recriminazione, così come Gesù ha fatto con noi.
 
Quando penso che sono stato inviato in missione per uno scambio di chiese, credo che ciò che il Signore mi chiede di restituire é questo stile di Chiesa. Quando tornerò in Italia e tutto indica che sarà nel breve periodo desidero mettermi a disposizione per lavorare nell’'edificazione di una Chiesa più umana, più egualitaria e democratica. Assim seja!