venerdì 30 novembre 2018
mercoledì 28 novembre 2018
DOVE VA LA MISSIONE? INCONTRO ORGANIZZATO DAL CMD DI REGGIO EMILIA
FOGLIANO – REGGIO EMILIA 27 Novembre 2018
Tavola
rotonda con: suor Paola Torelli, Pe Mario Menin,
direttore di Missione Oggi; Suor Teresina Caffi (saveriana), don Paolo Cugini,
don Pietro Adani
Sintesi:
Paolo Cugini
Domanda: nel tuo libro metti la missione quale realtà
complessa, mutevole. Ci ricordi la difficoltà della missione. Con questo libro
che messaggio vuoi dare?
Mario Menin: ho lavorato in una favela che si chiama Eliopolis.
Abbiamo fatto un cammino di Comunità Ecclesiali di Base con Mons Evaristo Arns.
Ho scritto questo libro perché ho risposto ad una domanda che mi è stata
rivolta. Quando uno dice missione che cosa intende? La missione è cambiata.
Siamo passati da una missione senza l’altro ad una missione con l’altro. Una
missione a senso unico, come operazione del mondo Occidentale cristiano, alla
riscoperta della missione come movimento di Dio verso di noi. Un viaggio di Dio
che gli è costato molto per venire in mezzo a noi. La missione è un’azione di Dio,
prima che una nostra azione. Ho scritto il libro per dire che la missione a
partire dal Concilio Vaticano II è la Chiesa. Se volgiamo riformare la Chiesa dobbiamo
ripartire dalla missione. La missione è di tutti i discepoli, è di tutti i
battezzati. Importante è che ci siano delle persone che vadano in missione,
però non possiamo dispensarci dall’essere missionari: tutti siamo chiamati ad
essere missionari. Siamo passati da una missione contro gli altri, ad una missione
con le altre religioni. La missione è con la gente, con gli altri. La missione
è una cosa semplice, ma complessa allo stesso tempo. È annuncio, testimonianza,
profezia, comunione. Pensiamo ai monaci uccisi, a Charles de Foucauld,
Domanda:
che cosa significa essere donna consacrata, missionaria oggi?
Suor Teresina:
La missione sono andata imparandola facendola. Avevo il desiderio di andare in
Africa. Ero andata in missione motivata. Quando sono arrivata in Congo e
vedendo come vivevano le mie sorelle ci sono rimasto di colpo. Un giorno sono
uscita e sono andata a trovare una anziana che vedendomi fece una festa. Ho
capito che la vita non si regge dallo sforzo di essere giusti, ma sulla
misericordia. Quando ho visto per la prima volta un uomo ucciso a causa dalla
guerra per il solo fatto che era uscito per andare a prendere la sua capra, ho
capito che la missione doveva prendere un’altra piega. Non ci dev’essere nessun
altro interesse. Dal dolore del popolo congolese ho capito che il popolo va
amato e basta. Ho sentito questo popolo congolese dentro di me. Ho capito che
dovevo interessarmi di tutto, della politica, dell’economia: tutto era
pertinente alla mia missione. Quando i problemi si fanno forti devi avere la
passione delle radici. Ho imparato la passione per le cause strutturali della
povertà, per interessarmi della giustizia.
Papa
Francesco va ringraziato per quello che dice. Il vero ateismo per cui
preoccuparsi è la fine dell’interesse per il popolo, per l’umano. Dove c’è un po'
di compassione, lì c’è Dio.
Domanda:
In che modo l’unità pastorale Può essere missione sul territorio?
Menin: Se l’UP
è creata perché mancano i preti è solo una pezza per rimediare alla scarsità
del numero dei sacerdoti. Le UP sono una risposta missionaria o sono una
semplice riorganizzazione per rendere più funzionale il lavoro pastorale? L’aspetto
buono della UP è la sinodalità perché i preti devono confrontarsi. Entrare in
un cammino di sinodalità: è questa la grande sfida delle UP. Se scommettessimo
sulla soggettività missionaria di tutti i battezzati e scommettessimo sulle
piccole comunità dove si celebra, è possibile immaginare che una parrocchia
diventi una comunione di comunità, che abitano in maniera responsabile sul
territorio? Le comunità cristiane dovrebbero essere antenne sulle povertà di un
territorio. Ci sono resistenze forti sulle UP da parte del clero. Nessuna
Chiesa è autosufficiente. L’esperienza delle UP provoca sulla ministerialità.
sabato 24 novembre 2018
DOVE VA L'AFRICA?
MILANO-24 NOVEMBRE 2018
QUADRO GEO-POLITICO E SFIDE DELLA COOPERAZIONE
Relatore:
Mario Raffaelli (presidente AMREF-African
Medical and Research Foundation)
Sintesi:
Paolo Cugini
Di Africa si parla poco e quando se ne parla se ne parla
male, in modo superficiale e schematico.
Questa
superficialità c’è anche sulla storia dell’Africa. L’Africa ha sofferto una
storia sempre interrotta. Un’interruzione significativa è stato l’incontro con
il mondo europeo. La presenza dei paesi europei ha segnato un punto d’arresto
del suo sviluppo naturale.
Il
dramma dell’Africa si riassume nel fatto che non ha mai
avuto la possibilità di sviluppare il proprio sistema economico e politico in
modo graduale.
Possiamo
parlare di afriche in termini di visione all’interno dell’Africa, frutto anche
di conflitti interni e della guerra globale al terrorismo.
Immigrazione
e integrazione. L’immigrazione è un problema
strutturale. È un Continente in cui i tassi di sviluppo demografico sono in
forte crescita. C’è stata una diminuzione drastica della mortalità infantile,
che non è stata accompagnata dalla crescita economica. C’è un grande numero di
poveri assoluti. C’è stata un’evoluzione in termini sociali. Negli ultimi anno
è cresciuta molto la scolarità. Comincia a crescere un capitale umano che prima
non c’era.
Si
è cominciato a creare un embrione di mercato interno africano. Si pone
il problema di come poter fare il grande salto. Nel 2011 c’è stato un rallentamento
rispetto alla crescita economica media che era del 5%, trainata dai paesi che
sono ricchi di materie prime. Questo sviluppo forte, ha conosciuto la crisi
all’epoca della crisi del prezzo delle materie prime. Nei prossimi anni si
prevede una crescita del 3,5%. Ci vorrebbe una dinamica di crescita più
robusta. In questo periodo, chi sta crescendo di più e meglio sono quei paesi
africani che non godono delle risorse di materie prime.
Sono
paesi che hanno dato spazio alla crescita dell’agricoltura. Conta anche il
fatto che c’è una nuova dinamica dello sviluppo tecnologico. Il telefonino in
Africa è stato un fattore di crescita estremamente significativo. Oggi con il
telefonino in Africa si fanno molti pagamenti.
Un
altro settore è quello dell’energia. Il 75% della
popolazione non è raggiunto dall’energia. Sta avendo un grande sviluppo
l’energia alternativa, in modo particolare quella solare. Il Ruanda ha
costruito la sua crescita sull’energia alternativa e sullo sviluppo
tecnologico.
Tutto
questo si riflette sui singoli paesi. Il vero salto che l’Africa potrebbe fare
sarebbe sullo sviluppo di un mercato interno. La mancanza di un mercato
Continentale e regionale è ciò che impedisce la crescita. L’Unione Africana ha
deciso d’investire sulla costruzione di un mercato interno. Solo così l’Africa
può crescere. È necessaria, in questa prospettiva, è la possibilità di partire
a livello regionale. Su questo ci sono situazione diversa. L’Africa Australe e
l‘ECOAS hanno già espresso dinamiche in questo senso più forti che in altre
aree.
C’è
un ammontare di risorse che sono necessarie per rendere credibile un processo
di questo tipo, vale a dire strade, porti, ecc. per sviluppare un mercato
dinamico.
In
Africa c’è una classe media di 300 milioni di persone, che è una forza trainante,
ma che ha bisogno di interventi significativi a livello infrastrutturale.
Chi
può aiutare? L’Europa e la Cina. Gli USA non sono
interessati. La Cina è molto presente in Africa. La Cina ogni due anni fa un
grande meeting con i presidenti africani e con i rappresentanti dell’economia
cinese. La Cina è una presenza forte sia negli accordi che nella presenza delle
persone. C’è una migrazione verso l’Africa di cinesi, che vanno ad aprire il
piccolo commercio. Ora la Cina fa interventi grandi, complessi: ad esempio la
ferrovia che collega molte città. I cinesi hanno iniziato ad essere presenti
anche dal punto di vista militare. Quale tipo di cooperazione bisogna mettere
in campo e chi?
Connessione tra sviluppo, sostenibilità e pace. È inutile
parlare di sviluppo dove non c’è pace e stabilità.
DEMOGRAFIA E SANITA’
Relatore:
Giovanni Putoto (Responsabile ricerca del CUAM. (Medici con
l'Africa Cuamm è tra le maggiori organizzazioni non governative sanitarie italiane per la promozione e la tutela della salute delle
popolazioni africane. Realizza progetti a lungo termine in un'ottica di sviluppo.
A tale scopo si impegna nella formazione in Italia e in Africa delle risorse
umane dedicate, nella ricerca e divulgazione scientifica e nell'affermazione
del diritto umano fondamentale della salute per tutti- FONTE: wikipedia)
Sintesi:
Paolo Cugini
La
crescita demografica interessa in maniera esclusiva il Continente africano. Nel
2100 l’Africa avrà il 40 % della popolazione mondiale. Dietro a questa spinta
c’è il fenomeno della transizione demografica. In una
popolazione ci sono varie fasi. Nella prima, c’è un alto tasso di natalità e
mortalità. Nella seconda fase, la mortalità diminuisce. La terza fase è il declino
della natalità.
Dal
1960 al 2018 che cosa è successo? Osserviamo che
progressivamente c’è una diminuzione del numero della fertilità. Al di sotto
dei tre figli per donna diminuiscono, eccetto a quella africana, anche se ha
iniziato un processo di convergenza con gli altri paesi. Dal 1960 aveva 7 figli
per donna ai 4,5 di oggi.
Prima variazione: i paesi che hanno
più fertilità nel mondo sono i paesi fragili.
Ci sono paesi che sono arrivati ad avere 3 figli (Kenya). C’è
una grande diversità tra coloro che vivono in città (2 figli) a quelli nelle
zone rurali (5 figli). Quanto tempo impiegherà l’Africa per diminuire la propria
natalità? Questo è il problema. C’è una condizione di caos che esiste in alcuni
paesi e non permettono un’analisi della crescita demografica.
L’Università di Padova ha indagato
la mortalità infantile nel Veneto
attraverso l’analisi dei registri parrocchiali. La mortalità infantile era di
molte superiore ad altre realtà europee. Oggi la media della mortalità
infantile dell’Africa sub sahariana è identica a quella dell’Italia degli anni
’50. Nell’arco di 20 anni la mortalità infantile veneta si è allineata alle
altre regioni. Il veneto è stata la regione con il più alto flusso migratorio. È
intervenuta un’attenzione maggiore ai bambini. È migliorata la cura verso i
bambini piccoli, neonati.
Perché
una famiglia decide di avere figli? Ci sono dei meccanismi comuni a tutte le
popolazioni. L’allattamento è un meccanismo
Secondo
motivo: esperienziale. È la ferita della donna quando perde un figlio: è
considerato un fatto innaturale. Il meccanismo è di rimpiazzare una vita
perduta.
Figli
in situazioni di grande crisi c’è una scelta razionale di avere un numero più
elevate.
Le
cose cambiano quando i genitori decidono
d’investire sul futuro dei figli: ha un ritorno.
Un’altra sfida sono i sistemi sanitari.
In Africa la gente si paga i servizi. Non c’è nessuna forma di condivisione del
rischio. L’Africa deve sviluppare un sistema di Welfare. Investire in
salute materna infantile conviene. È una questione politica di cooperazione.
C’è la sfida degli stati fragili. Sta
cambiando la geografia delle povertà. La migrazione africana interna è il vero
dato fondamentale perché assorbe l’85% del processo migratorio. C’è una
migrazione che avviene per natura economica o per motivi di studio. C’è una
migrazione importante che avviene per gli stati fragili, che sono capaci di
alterare gli equilibri positivi raggiunti.
Gli stati fragili
dell’Africa concentrano l’80% dei poveri del mondo. Sierra
Leone è uno di questi. Anche l’Etiopia e l’Uganda. Lo stato di violenza è uno
dei fattori fondamentali. C’è un uso strumentale della violenza a scopo
politico. C’è anche una fragilità climatica, oltre che politica.
Esempio positivo dell’Uganda. Come
mai gli ugandesi non ci sono? In Italia ce ne sono 500. Eppure hanno una spinta
demografica tra le più alte del mondo. C’è stato un miglioramento relativo dal
punto di vista politico ed economico in paese che era stato contrassegnato dai
problemi interni. C’è stato uno sviluppo umano con la diminuzione della
mortalità infantile. Oltre a ciò c’è da considerare la presenza dei missionari
che hanno costruito in ogni villaggio delle scuole e degli ospedali.
sabato 17 novembre 2018
AVERCELI DEI VESCOVI COSI'. ALLE ORIGINI DELLO STILE DI PAPA FRANCESCO
Paolo Cugini
La
proposta ecclesiale di Francesco non nasce da un lavoro di studio, ma dalla sua
pratica pastorale, in una costante relazione circolare tra i due momenti. La novità
di quello che Papa Francesco dice e fa, novità nel suo modo di vivere il
papato, d’interpretarlo, suscita la curiosità sulle sue fonti. Il suo stile
popolare e immediato è in continuità, così come ce lo hanno dimostrato le
biografie, le omelie e i discorsi del periodo in cui è stato arcivescovo a
Buenos Aires e le testimonianze fatte su di lui, con il gesuita prima, e poi il
vescovo e il Cardinale Jorge Mario Bergoglio.
Dopo alcuni anni del suo
pontificato, ci si rende conto che la proposta ecclesiale di Papa Francesco non
è improvvisata, ma viene da molto lontano, si radica nel suo particolare
percorso spirituale e culturale, s’intreccia con le scelte fatte nel tempo, che
hanno plasmato un particolare modo di essere pastore, attento ai poveri, aperto
al dialogo, capace di parlare al cuore della gente. Francesco sta riproponendo
con i gesti e le parole la grande intuizione del Concilio Vaticano II della
Chiesa come popolo di Dio. Il capitolo II della Lumen Gentium, Chiesa popolo di Dio, che precede il capitolo sulla
struttura gerarchica della Chiesa, lo ha spiegato al mondo non con un trattato
di ecclesiologia, ma dichiarandosi, appena eletto papa, come vescovo di Roma e
chiedendo la benedizione del popolo fedele accorso in piazza san Pietro per
l’evento, prima di impartirla lui stesso. Lo stesso si può dire per la proposta
di una Chiesa dei poveri, vagheggiata durante il Concilio Vaticano II espressa,
in parte, nel numero 8 della Lumen
Gentium ma, soprattutto, nel patto delle Catacombe.
L’attenzione del Papa
per i poveri, visibile non solo nell’incontro personale con loro, ma anche
nelle sue scelte personali di mantenere un profilo sobrio e semplice,
rinunciando ai privilegi che la sua posizione richiederebbe, la troviamo come
stile costante sia come gesuita che come arcivescovo di Buenos Aires. Austen
Ivereigh racconta, nella sua biografia sulla vita di Jorge Mario Bergoglio, il
costume che aveva nei fine settimana di visitare i quartieri poveri di Buenos
Aires, al punto che era molto più conosciuto dalle persone povere di questi
quartieri che dalle persone dell’alta borghesia che viveva nei quartieri
ricchi. Gesti che dicono di scelte maturate nelle lunghe ore di preghiera
mattutina, di frequenza costante del Vangelo, assimilando lo stile di Gesù, il suo
pensiero il suo modo id essere[1].
Con Francesco, i gesti
sono la chiave ermeneutica dei testi: si trasmette ciò che si vive, e si vive
ciò che si è assimilato nel silenzio della preghiera, nel rapporto personale
con il Signore. Questa stessa modalità ermeneutica la troviamo in tantissime
pagine della vita di Bergoglio. Nel periodo in cui era rettore della Facoltà di
teologia e filosofia di san Miguel (1976), inizia un lavoro di riforma
integrale del programma di formazione degli studenti gesuiti, strumento
fondamentale della strategia di rifondazione della provincia di cui era
superiore (1973-1979). Oltre alla revisione del programma di studi, Bergoglio
propose un impegno pastorale specifico tra la popolazione locale. Essere a
servizio dei poveri durante i fine settimana avrebbe permesso agli studenti
gesuiti di conoscere la realtà, di entrare in contatto con il popolo di Dio.
«Nella nostra testa noi siamo re e grandi
signori – diceva Bergoglio in un discorso di quel periodo – e chiunque si
dedichi esclusivamente a coltivare la propria fantasia non riuscirà mai a
sentire l’urgenza del “qui e ora”. Il lavoro pastorale nelle nostre parrocchie,
invece, è l’opposto». Bergoglio trasmise agli studenti
gesuiti quell’importanza di frequentare i poveri che lui stesso viveva ogni
giorno. Sfogliando le pagine delle biografie, dei discorsi e delle omelie di
Bergoglio, si rimane profondamente colpiti dalla radicalità delle scelte di un
uomo immerso nel Vangelo, desideroso di seguire le orme del Signore per
assimilare il suo stesso modo di vedere il mondo. Non a caso, uno dei
ritornelli che papa Francesco ripete soprattutto quando s’incontra con dei
sacerdoti e che ripeteva ai gesuiti e ai sacerdoti di Buenos Aires è lo sforzo
di fuggire dalla mondanità Spirituale.
Bergoglio rimase profondamente colpito
dalla lettura della Meditazione sulla
Chiesa del teologo francese Henri de Lubac, il quale riteneva che la
mondanità spirituale è qualcosa d’infinitamente più disastroso di qualsiasi
mondanità di ordine puramente morale, «Una forma di antropocentrismo religioso che utilizza la Chiesa a fini
temporali – per guadagni politici o personali – trasformandola così in uno
strumento per le macchinazioni umane e oscurando il volto di Cristo, la cui
rivelazione è la stessa raison d’etre
della Chiesa». La vicinanza ai poveri significa per Bergoglio
attenzione alla realtà, che permette di smantellare dal di dentro le
costruzioni ideologiche di tipo politico, sociale e religioso.
È stata la
frequenza costante dei quartieri poveri di Buenos Aires che ha permesso a
Bergoglio di comprendere i malefici di un sistema economico che non solo
allarga sempre di più la forbice tra i pochi ricchi e una moltitudine immensa
di poveri, ma incentiva il sistema di corruzione a tutti i livelli. È toccando
la carne reale dei poveri che Bergoglio comprende la falsità del discorso
politico-economico sul mercato finanziario che si autoregola e, aumentando la
ricchezza, la distribuisce a chi non ne ha. Quello che lui incontrava e vedeva
nei quartieri poveri assieme ai giovani seminaristi gesuiti a metà degli anni
’70 prima e con un gruppo di sacerdoti negli anni ’90 come vescovo ausiliare
prima e poi come arcivescovo di Buenos Aires, era ben altro. Soprattutto dopo
la spaventosa crisi economica del 2001 che mise l’economia argentina in
ginocchio, mentre lo Stato si contraeva e si chiudeva sempre di più in sé
stesso, la Chiesa di Buenos Aires espandeva enormemente le proprie attività.
Bergoglio aumentò da otto a ventisei il numero di preti delle baraccopoli, e
lui stesso passava almeno un pomeriggio alla settimana in una di queste. Era
questo a fare la differenza. Bergoglio era un vescovo che non si limitava a
impartire degli ordini, ma quello che chiedeva veniva da un’esperienza
condivisa. Ecco perché, mentre i potenti non lo vedevano di buon occhio per
questo suo stile che gli permetteva anche critiche puntuali sul sistema
politico corrotto, era estremamente amato sia dai preti giovani che dalle
persone povere del popolo delle baraccopoli.
L’arcivescovo Bergoglio si
permetteva di richiamare lo Stato a ascoltare la gente comune, perché lui lo
stesso lo faceva per primo.
[1]
Austen Ivereigh riporta nella
sua biografia su Bergoglio, la positiva sorpresa che suscitò tra i partecipanti
della messa di domenica19 marzo, la prima come Papa. «Il Cardinal Christoph Schonborn, di Vienna, era in lacrime durante
l’omelia e sussurrò al Cardinal Timothy Dolan, di New York: “Tim, parla come
Gesù”. “Chris, credo sia proprio il suo mestiere” rispose Dolan», in: a.
Ivereigh, Tempo di misericordia. Vita di
Jorge Mario Bergoglio, cit. p. 421.
martedì 6 novembre 2018
DOVE VA LA MISSIONE?
Quando
si dice missione s’intende una realtà complessa e mutevole. Dalla Rivoluzione
francese alla Seconda guerra mondiale, le forme più correnti di missione si
fondano su un modello di conquista e di propaganda della fede. All’inizio del
Novecento si fa largo, con Charles de Foucauld, una nuova rappresentazione
della missione: presenza e testimonianza di vita tra i mussulmani, movimento in
cui entrare piuttosto che attività di fare, secondo il paradigma
dell’incarnazione di Dio. Dall’altra parte, il Concilio Vaticano II registra al
suo interno due missiologie: una più tradizionale – le missioni al plurale –
come attività ad extra; l’altra teologica – la missione al singolare – come
dimensione costitutiva della Chiesa. Papa Francesco riporta la missione nel cuore
della Chiesa, come pilastro fondamentale della sua conversione pastorale:
“sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa”.
Quando si dice missione s’intende una
realtà dinamica, mutevole. E allora vogliamo chiederci: “dove va oggi la missione?”.
Ne parleremo in diocesi martedì 27
novembre, alle ore 21 presso la Sala Teatro della parrocchia di Fogliano
(RE), a partire dal libro Missione, Cittadella Editrice,
scritto da P. Mario Menin,
missionario saveriano e direttore di Missione
Oggi. Per l’occasione, sarà presente l’autore e suor Teresina Caffi, missionaria saveriana, in dialogo con don Paolo Cugini, fidei donum in Brasile. Vi aspettiamo!
lunedì 5 novembre 2018
INDOTTRINATI, OVVERO: DELLA DISTRUZIONE DELLE GIOVANI ANIME
Paolo
Cugini
È
proprio questo che ci è successo senza accorgercene, anzi spacciando i
contenuti appresi come verità, come la realtà. Era così chiaro da sembrare
vero. Narcotizzati sin dalla culla. Indottrinati sin dal primo batter di
ciglio. Accecati sin dai primi vagiti. E appena inizi a muoverti sei immerso in
una realtà uguale, così globale, maggioritaria, da non riuscire a mettere in
dubbio nulla, da non pensare nessun sospetto. C’era così tanta gente attorno a
noi a pensarla allo stesso modo, da identificare la maggioranza con il vero, la
quantità con la qualità, l’apparenza con il reale. Eravamo così innocenti da
non dubitare di nulla. Era proprio questa la loro forza: la nostra innocenza. E
così hanno potuto prendersi tutto il tempo necessario, tutti i vantaggi per
lasciarci nell’inganno, per avvolgerci nelle loro sottili mistificazioni, per
depredarci della nostra forza giovanile, delle nostre intuizioni, per
disinnescarne la forza esplosiva. Ci hanno riempito la testa di dottrine,
d’insegnamenti, di precetti al punto da confonderci così tanto da non saper più
distinguere la realtà dalla fantasia. Siamo stati così tanto indottrinati, da
rimanere avvolti dai fili sottili di quella dottrina al punto da fare fatica a
liberarcene. Ci hanno storditi, questi disgraziati! Perché è questo il
problema: la dottrina è entrata dentro di noi, è nella nostra mente, ha avvolto
la nostra anima, l’ha sporcata e confusa. E così ci sembra che la realtà sia esattamente
conforme a quello che ci è stato insegnato; sembra proprio che quello che la
dottrina ci spiega coincida con la realtà.
Appena
ci alziamo alla mattina quello che guardiamo, ciò che vediamo, è esattamente
conforme a ciò che ci hanno insegnato, anche perché la domanda non ce la
poniamo nemmeno: è così e basta. Le domande sulla realtà, su ciò che è davvero
reale, se ciò che ci hanno insegnato che le cose siano, corrispondono davvero
alla realtà, non si può risvegliare sino a quando non incontriamo qualcuno che
vede la stessa realtà in un modo diverso, e la racconta con sfumature diverse,
cogliendo aspetti che non avevamo mai visti, mai considerato. Questa mancanza
di prospettiva diversa, è dovuta anche al fatto che, solitamente, chi si occupa
della dottrina, dei percorsi d’indottrinamento, non si sofferma ai contenuti, ma
lavora giorno e notte per fare in modo che, chi riceve l’indottrinamento, stia
costantemente vicino a persone che ricevono o hanno ricevuto lo stesso tipo d’indottrinamento,
che hanno imparato a guardare la realtà allo stesso modo, dalla stessa finestra,
con gli stessi occhiali. Ecco perché non si pongono domande e rimangono
allibiti quando incontrano per caso qualcuno che osa mettere in discussione la
veridicità di ciò che loro vedono e il modo in cui lo vedono. Non se ci avete
fatto caso, ma i costruttori dei percorsi dottrinali fanno di tutto affinché gli
indottrinati incontrino coloro che provengono da mondi diversi, il più tardi
possibile. Lo stesso vale per tutti coloro che credono così tanto nella
dottrina elaborata o ricevuta, che fanno di tutto per mettere in piedi percorsi
formativi da somministrare a dose massicce ai poveri piccoli che, sin dalla
tenera età, saranno costretti – a loro insaputa (che cose da barbari!) – ad assimilare
un unico modo di vedere la realtà, dalla scuola materna sino al termine delle scuole
superiori, vale a dire, dai tre anni di età sino ai diciannove. Si pensa, così,
che prima si riesce a prenderli, per somministrare ad un individuo il siero
della dottrina unidirezionale, più probabilità ci saranno per addormentare l’individuo,
per sedarlo, per spegnere le su capacità creative, il suo desiderio di
conoscere cose nuove, in altre parole, il suo desiderio di essere sé stesso.
Non ho mai capito perché un genitore desideri una cosa simile per suo figlio,
per sua figlia. Forse per stare in pace, per stare tranquillo, perché, in fin
dei conti, è sempre meglio avere un figlio, una figlia tranquilla che non si
pone domande e non ne faccia, che cammini sui sentieri tracciati, piuttosto che
uno scalmanato in casa che non lascia nulla al suo posto, che contesta tutto e
tutti, che non lascia in pace nessuno.
Verrebbe
da dire che questo inganno dottrinale, questa grandissima porcata dottrinale, questa
pazzesca mistificazione del sapere, sia un processo senza ritorno, contro cui
ora è impossibile fare qualcosa. E invece no: qualcosa possiamo ancora fare,
per tornare ad essere noi stessi. A differenza, infatti, di quello che i propugnatori
delle dottrine pensano, c’è sempre qualcuno che cresce in modo diverso, che un
giorno si alza e comincia a pensare in modo autonomo, comincia a vedere le cose
non come gliele hanno insegnate. C’è sempre qualcuno che si alza una mattina e
guarda alla finestra della vita e vede le cose così come sono e non come gli
hanno insegnato a vederle e scopre che sono buone. E così, comincia a capire
che tutte quelle dottrine che minacciano castighi per coloro che vedono le cose
in un modo diverso rispetto a ciò che si è appreso, hanno qualcosa che non va,
qualcosa di strano, qualcosa di sbagliato. Arrivare a comprendere che non è la
realtà che è sbagliata, ma la sua interpretazione dottrinale, è il massimo
della conoscenza.
Porsi delle domande, porsi degli interrogativi:
è l’inizio della possibilità di una nuova vita. Ed è proprio questo il dato di fatto
importante, vale a dire la scoperta delle domande, della loro potenza devastante,
costruttiva, rivelativa: l’importanza delle domande per la salvezza della vita.
Dovrebbe essere questo il principale obiettivo di coloro che hanno una funzione
educativa: aiutare un figlio, una figlia, uno studente, un’amica a porsi delle
domande, ad interrogarsi, a porsi dei perché, senza poi voler mettere allo
stesso tempo in bocca delle risposte, perché queste devono apprendere a trovarle
da soli. Se sei un bravo padre, se sei una madre con un po' di sensibilità, se
sei un insegnata amante della vita fai di tutto affinché chi hai di fronte, si
ponga le domande importanti della vita, e poi mettiti da parte, lascia che chi
si pone delle domande faccia la fatica di trovarsi le risposte.
A
cosa serve la dottrina e a chi serve? La dottrina è un’elaborazione di
contenuti che hanno l’obiettivo di offrire idee chiare, attraverso argomenti
fruibili da tutti. Il desiderio di chi elabora una dottrina è che sia seguita
dal maggior numero di persone. C’è una dottrina economica, politica, religiosa,
filosofica e altro. Una delle caratteristiche fondamentali della dottrina è che
non può essere messa in discussione: può solo essere assimilata. La forza di
una dottrina consiste nel venire condivisa da un grande numero di persone.
Quando ciò avviene, la dottrina è identificata con la verità e, per questo, è
indiscutibile e colui o coloro che la mettono in discussione, rischiano la vita,
perché divengono pericolosi per il sistema. Chi elabora dottrine ha interessi
da proteggere e la dottrina è direttamente proporzionale agli interessi che si vogliono
a tutti i costi proteggere. La dottrina è costruita apposta per fare in modo
che la gente, non solo pensi tutta allo stesso modo, ma che non giunga a cogliere
la realtà delle cose. Questa è già un’importante indicazione di metodo: per
uscire dallo schema della dottrina e per smascherare la sua falsità: occorre
fare di tutto per mettere le persone a contatto con la realtà. Solo la realtà,
infatti, salverà il mondo, perché solo la realtà ci può consegnare i criteri
della verità. È la realtà che ci può svelare se la dottrina appresa è buona,
rispettosa del reale, attenta cioè alla vita. Solo l’aderenza alla realtà ci aiuta
a liberarci delle catene dottrinali, dai carceri nei quali siamo finiti durante
la vita, per poter finalmente vivere in modo libero, per poter essere
finalmente noi stessi.
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