Paolo Cugini
C’è un nome che troviamo in tutte le
letture di oggi: Davide. Lo troviamo nella profezia della prima lettura, dove
il profeta Natan profetizza al re Davide la volontà di Dio di costruire sulla
sua discendenza un’eredità eterna. E poi ci viene detto che Giuseppe, il padre
di Gesù, è della dinastia di Davide. Tra le due narrazioni passano mille anni.
E’ chiaramente il tema della fedeltà della Parola di Dio, che si mantiene
fedele e la fedeltà, come sappiamo, è un tema cara alla riflessione biblica. Il
problema è capire di che fedeltà si tratta, e cioè che cosa intende la Bibbia
quando accenna a ciò.
C’è sotteso, però, nelle letture di oggi, anche
un altro tema e cioè quello del progetto di Dio. Che la nascita di Gesù
corrisponda esattamente a quello che i profeti avevano annunciato mille anni
prima vuole pure significare qualcosa. Una delle caratteristiche di Dio, oltre
all’amore e alla misericordia, è il pensiero, è il fatto che Dio pensa, progetta.
Un pensiero la cui forza non sta nel violare gli eventi storici per indirizzarli
al suo volere, ma al contrario, nel saper recuperare, ricucire, rigenerare dal
di dentro. Questa è la forza della Parola di Dio, che è una semente di
eternità, che è capace di far fiorire il deserto, di trasformare armi di guerra
in strumenti di lavoro e di pace, di risanare ciò che sembra irrimediabilmente
perduto. E’ il pensiero di Dio che c’insegna a non avere fretta, ad attendere i
tempi del Signore, a lasciare che le cose maturino, a non disperarci, quindi,
se il presente non è carico di ciò che noi aspettiamo. Non a caso il Vangelo di
Giovanni chiamerà Gesù il Logos, il pensiero, il Verbo, la Parola. Il pensiero che
si esprime con la Parola e che si manifesta nella storia e parla con noi a tu
per tu. Pensiero, Parola, significano che la vita non s’improvvisa, che non
possiamo permetterci il rischio di lasciare ai sentimenti, alle passioni il
diritto di guidarci. Accogliere il Pensiero che viene da Dio e che si manifesta
nella sua Parola significa apprendere a lasciar plasmare le nostre passioni, le
nostre tensioni dentro un disegno più grande, che va al di là dell’immediato.
L’altro tema presente nelle letture
di oggi è quello della fedeltà. Il problema
sorge quando applichiamo alla Bibbia i nostri schemi di riferimento tipici
della cultura Occidentale, che provengono da un percorso culturale molto
differente da quello semitico. Per noi fedeltà s’identifica con un percorso
progressivo e lineare, come la realizzazione di ciò che è stato progettato all’inizio.
Fedele, nella prospettiva della nostra cultura, è colui o colei che vive fino
in fondo ciò che ha scelto, senza incrinature. Fedeltà, in questa prospettiva,
è sinonimo di durezza, capacità di rinuncia, fermezza. Tutto sembra essere
determinato dalle capacità del singolo, dalla sua forza e chiarezza di
obiettivi. Senza dubbio per essere fedeli a dei principi, a dei valori occorre
anche questo, ma non solo.
Il problema è che guardando
attentamente la Scrittura la fedeltà non appare mai come qualcosa di lineare,
di progressivo. Sfogliando, infatti, la Bibbia, poche pagine dopo questa
bellissima profezia, troviamo il re Davide coinvolto in un adulterio e in un omicidio.
Andando ancora più avanti suo figlio Salomone, stimato da tutti per la sua
grande saggezza, finisce gli anni della sua vita immerso nell’idolatria. Lo
stesso Geroboamo, figlio di Salomone, non fa meglio del padre, anzi. In pochi
anni riesce a fare ciò che nessun altro era riuscito e cioè a dividere il regno
in due. Il percorso storico d’Israele è contrassegnato da una costante tendenza
alla caduta, all’infedeltà, alla facilità di seduzione per i cammini diversi da
quelli proposti dal Signore. La storia d’Israele è maestra di vita perché rivela
il cuore dell’uomo e della donna, un cuore che ha difficoltà a rimanere fermo
su ciò che gli viene proposto da Dio. C’è allora una debolezza nella struttura
umana che la Bibbia conosce e che ci mostra senza pudori anche perché è a
partire da questa presa di coscienza che è possibile cogliere la presenza di Dio
nella storia e come si manifesta. Un autentico cammino spirituale illuminato
dalla Parola di Dio, non ci rende duri, severi, giudici implacabili, ma
misericordiosi, teneri, ricolmi da quella compassione che proviene dalla coscienza
della nostra debolezza e, dall’altra, dall’esperienza della misericordia di
Dio. Dio è amore, perdono e misericordia
perché è solo così che può essere risanata l’umanità ferita nel profondo dell’anima.
Non esiste, allora, possibilità di fedeltà, come relazione autentica d’amore,
se non dentro a questo mistero di misericordia di Dio. La spiritualità tipica
dell’avvento c’introduce in questo cammino di passività spirituale che esige
una grande forza d’animo: fare spazio, abbassare le pretese, affidarsi meno
alle nostre forze e più alla misericordia del Signore.
Vivere l’avvento in questa
prospettiva significa essere meno attenti e preoccupati all’effimero e più
pronti a fare spazio al Signore che viene, per accoglierlo così com’è e non
come vorremmo che fosse.
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