Paolo
Cugini
Come
spiegare il fatto che Cortez, con poche centinaia di uomini sia riuscito a
prendere il regno di Montezuma che disponeva di centinaia di migliaia di
uomini? Il problema è: perché gli indios hanno posto così poca resistenza? È questa
la domanda che sta alla base dell’opera del filosofo e pensatore bulgaro,
naturalizzato francese Tzvetan Todorov: La conquista dell’America. Il problema
dell’altro, Torino, Einaudi 20142.
Sappiamo che, dai testi dell’epoca, gli indios
dedicano grande parte del loro tempo all’interpretazione dei messaggi che, gli
eventi del tempo presente, manifestano. Il problema per loro consiste nel
comprendere come un evento si sia già presentato nel passato, perché non
avviene nulla di nuovo che non sia già accaduto. Si tratta, dunque, di capire, meglio
ancora, di scoprire quando sia avvenuto e in che forma quell’evento specifico,
che sta avvenendo ora e così comprendere come gli antichi hanno risolto il
problema. Il futuro dell’individuo è
determinato dal passato collettivo. L’individuo non costruisce il suo futuro,
questi si rivela. Gli indios di
Montezuma rimangono interdetti con le novità, perché tutto dev’essere accaduto
nel passato, perché tutto ritorna.
Gli
spagnoli sono stati una vera sorpresa per i messicani, ecco perché Montezuma
non voleva ricevere Cortez: prendeva tempo per capire se c’era già stato nel
passato una situazione simile. Gli aztechi non scrivevano, ma facevano delle
pitture. C’era un libro delle pitture antiche che rivelavano ai saggi gli
eventi passati. Dinanzi ad ogni nuova situazione si cercavano risposte nel
passato: il futuro non esisteva, perché tutto era già avvenuto. L’identità
degli spagnoli è così differente e nuova da sconvolgere ogni mezzo di
comunicazione e gli Aztechi non riescono più a collettare informazioni: non ci
sono nel passato. Invece de percepire il fatto come un incontro puramente umano,
anche se inedito – l’arrivo di uomini avidi di oro –, gli indios li integrano
in una rete di relazioni naturali, sociali e soprannaturali, dove l’avvenimento
perde la sua singolarità.
L’assenza
dello scritto è un elemento importante della situazione. Gli aztechi registrano
situazioni con i disegni e non con il linguaggio scritto. La sottomissione del presente al passato
continua ad essere una caratteristica significativa delle società indigene
dell’epoca. Ciò riguarda anche l’educazione dei figli, che dovevano apprendere
gli insegnamenti del passato per poter interpretare i segni del presente. La profezia, in questa prospettiva è memoria.
Passato e futuro appartengono allo stesso libro.
Si
vede bene in Montezuma il non voler ammettere che, un fatto totalmente nuovo,
possa accadere. La vittoria dei conquistatori è vista anche in chiave
religiosa, come la superiorità della concezione del tempo del cristianesimo,
che progredisce verso la novità che, in questo caso, corrisponde alla vittoria
sopra gli indigeni. Gli indigeni non riescono ad improvvisare, perché per loro
l’evento presente non è mai una novità, ma ha sempre un correspettivo nel
passato. In questa prospettiva, il problema diventa interpretare i presagi, i
segni del presente per capire di che evento passato si tratta.
Quella
che possiamo definire con termini presi dall’attualità, la sindrome di
Montezuma, ci riguarda molto da vicino. Soprattutto con il passare degli anni,
la tendenza a rifugiarsi nel passato, rifiutando la novità del presente che ci trova
impreparati, diviene una caratteristica del nostro modo di agire e d’interagire
con il mondo circostante. Il grande problema, ad un certo punto della vita,
diviene la novità che l’evento presente può portare. È capace di relazionarsi
con la novità, colui e colei che durante la vita ha appreso a lasciarsi mettere
in discussione e, in questo modo, cogliere ogni situazione della vita come una
possibilità di crescita e di rinnovarsi. Questo è l’atteggiamento della persona
aperta, disposta, attenta, amante della vita per come si manifesta e non per
come la si vorrebbe mantenere.
Chi,
al contrario, si lascia travolgere dalla sindrome di Montezuma, spesso arriva
da un cammino fatto costantemente in difesa, alla ricerca costante di una
sicurezza materiale, esistenziale, in cui l’importante consiste non fare
fatica, non sporcarsi le mani, rimanere protetto. Chi trascorre la vita nella
corsia d’emergenza diventa alla fine un vecchio brontolone, che ha paura di tutto,
perché, in fin dei conti, ha avuto paura di vivere.
Guarire
dalla sindrome di Montezuma, che si forma sin dalle scelte che facciamo da
piccoli, è un grande obiettivo di ogni padre, madre, educatore ed educatrice.
Ci salviamo da questa sindrome mortale, vivendo a pieni polmoni il nostro
presente, non fuggendo le novità, ma abbracciandole a piene mani, perché
lentamente impariamo a riconoscere nelle novità il mistero della vita che viene
al nostro incontro, per farci assaporare l’ebrezza di tutto ciò che una vita
piena comporta.
Ma come fai a star dietro a tutto! Un fenomeno.....
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