sabato 29 aprile 2017

IL DOLORE NELLA CULTURA OCCIDENTALE (appunti)




(Intervento nel seminario sul tema del dolore- Studio Teologico Inter diocesano- Aprile 2017)


Paolo Cugini
C’è dolore e dolore. C’è un dolore naturale, quel dolore che affrontiamo nelle vicissitudini umane, come la malattia, la sofferenza interiore o come il dolore dovuto alle cause naturale. E c’è anche un dolore causato, un dolore che potrebbe non esserci, ma che invece appare a causa di un determinato modo di pensare, di rapportarsi con le cose, d’interpretare il mondo. C’è, allora un dolore che è causato da una cultura, da un modo di pensare: è di questo tipo di dolore che vorrei parlare. C’è il dolore dei poveri, causato dall’ingiustizia sociale prodotta dal modo d’intendere l’economia.
Alcune situazioni di dolore prodotto della cultura Occidentale:

1.      Il dolore degli eretici. Il dolore di coloro che esprimono un pensiero diverso rispetto al pensiero dominante, sia esso politico, sociale che teologico. Il dolore di coloro che sono stati uccisi a causa di un’idea teologica differente (675 giustiziati per eresia, senza contare quelli torturati, imprigionati, le streghe). Il dolore di coloro che sono perseguitati a causa di un pensiero differente. I casi Leonardo Boff e John Sobrino.

2.      Il dolore delle popolazioni Indigene americane. (1500 c’erano 5 milioni di Indios e dopo 50 anni erano stati decimati a cinquecento mila. Dibattito sullo statuto antropologico degli indios. Il papa intervenne con una bolla per definire che gli indios avevano un’anima. La distruzione dei popoli e delle culture indigene da parte degli spagnoli.


3.      Il dolore dei poveri. L’economia che uccide. Il dolore di coloro che vivono in condizione disumane e che sanno sin dalla nascita che non avranno mai alcuna possibilità di avere il minimo per vivere e che quindi si abituano sin da subito ad arrangiarsi. C’è un segno su di loro che è come un marchio: la rassegnazione negativa, che deriva dall’esperienza che contro i potenti non si può nulla. Raccontare l’umiliazione dei poveri in alcune situazioni vissute in Brasile.

4.      Il dolore di coloro che la pensano diversamente dalla politica dominante. Il caso attuale della Turchia dove circa 40 mila persone dell’opposizione sono astate incarcerate. Oppure durante le dittature militari in America Latina negli anni ’60-80 del secolo scorso, in cui migliaia di persone dell’opposizione sono state barbaramente torturate, assassinate. Citare frei Betto, Diario del Faro,  (dice di un’incapacità di abitare la differenza. Problema: da dove deriva questa incapacità?).


5.      Il dolore delle donne. La cultura patriarcale e maschilista che ha modellato la cultura Occidentale, cultura sorta dall’evoluzione progressiva incentrata sull’idea della forza. Le tante violenze che ancora oggi le donne subiscono sono anche il frutto di una cultura maschilista, una cultura della forza che sfocia nella violenza. Cultura che ha influenzato anche la religione e, nel nostro caso, la chiesa cattolica. Sino a quando le donne saranno lasciate fuori dalla possibilità di esercitare un sacerdozio ministeriale come gli uomini, la chiesa non potrà dire molto al mondo sul tema dell’eguaglianza. La realtà contraddice la cultura. Esperienza delle CEBs in America Latina condotte per la grande maggioranza da donne dice di un cammino che è già avviato e che può contaminare anche la chiesa Occidentale. La mancanza di aderenza alla realtà genera l’idea impazzita.

6.      Il dolore delle persone africane in Occidente. La sofferenza di non essere accettati a causa della diversità della pelle, di essere messi ai margini della società per il semplice fatto di avere la pelle nera. Anche nelle nostre parrocchie – ce lo hanno raccontato gli studenti africani che abitano nelle nostre parrocchie – spesso durante la messa chi ha la pelle nera si trova la mano tesa per lo scambio della pace senza una risposta. Il pregiudizio è duro a morire.


7.      Il dolore delle persone LGBT. Sto accompagnando il percorso spirituale di un gruppo di persone lesbiche e gay. Quanta sofferenza per una diversità non accettata. Quanti pregiudizi che escono da quell’istituzione alla quale Gesù ha insegnato di non condannare, ma di accogliere. C’è ancora un lungo cammino da compiere, il cammino della conoscenza dell’altro, del rispetto per le differenze.

8.      Il dolore del popolo ebraico sterminato nella seconda guerra mondiale. Il diario di Etty Hillesum lo abbiamo commentato durante il percorso con gli studenti universitari. Quanta dignità che abbiamo trovato in Etty che, nonostante le situazioni disumane nelle quali si è venuta a trovare, non ha mai smesso di pregare, di ringraziare Dio, di dire a tutti che la vita era bella.

La causa
Tutte queste sofferenze, questo dolore hanno un comune denominatore, a mio avviso, vale a dire sono l’espressione di un modo particolare di pensare l’essere, un modo speciale di pensare il rapporto dell’uomo con il mondo. Si può pensare come causa dei mali dell’Occidente il processo d’irrigidimento dell’essere e, di conseguenza, i suoi sviluppi nell’irrigidimento dell’idea. La causa dei mali dell’Occidente stanno esattamente a monte della sua impostazione filosofica, ovvero, nella metafisica. È il modo di concepire l’essere come rigido, unico, immobile, perfetto, che produce violenza nei confronti di ciò che è percepito come differente, come realtà che non si adegua all’idea. Tutto ciò che non è conforme all’idea viene percepito come negativo e genera il processo di volontà di annichilamento. La distruzione dell’altro come possibilità di mantenimento dell’ordine sociale e politico. L’idea non accetta la differenza.

Per capire questa affermazione bisognerebbe ripercorrere a ritroso il percorso che la metafisica ha realizzato sin dai primordi. Bisognerebbe riprendere una storia dell’essere così come si è sviluppata nella metafisica Occidentale, a partire da Parmenide, anche se, giustamente, Giovanni Reale, nei suoi saggi sulla storia della filosofia antica, fa notare come in realtà la metafisica e, di conseguenza, la riflessione sull’essere, nasce solamente quando Platone inventa il mondo sovrasensibile. In ogni modo è importante ritornare a Parmenide perché ritroviamo nel suo pensiero quelle qualità dell’essere che Platone applicherà alle idee ed Aristotele alla sostanza. L’essere di Parmenide è Uno, immobile, eterno, ingenerato, immortale, indivisibile.

Non a caso Heidegger in Essere e Tempo parla della storia della metafisica Occidentale come un processo d’indebolimento dell’essere, perché in realtà la metafisica classica confonde l’essere con l’ente. Il problema della metafisica classica, che ha sempre presentato l’essere come qualcosa di fisso, di rigido. In questa prospettiva la verità non sarebbe nient’altro che una proiezione soggettiva che produce una fissazione del vero a partire dalla precomprensione dell’essere. Questo è a mio avviso, il problema. Ci siamo abituati a pensare il vero identificandolo con un’idea astratta, una precomprensione concettuale, che anticipa la realtà interpretandola. qualcosa di rigido. Ci siamo abituati a chiamare vero un’idea indipendentemente dalla realtà. Ci siamo fidati delle nostre intuizioni e su queste abbiamo interpretato la realtà. Il pensiero Occidentale ha sempre interpretato la realtà a partire da idee pre- costituite o, per dirla con Péguy, da idee bell’e fatte. La storia del pensiero Occidentale è la storia dell’interpretazione della realtà a partire da un’idea.

Gianni Vattimo sostiene che esiste una serie di eventi avvenuti negli ultimi decenni che comprovano la dissoluzione della metafisica classica, l’indebolimento di un essere rappresentato come fondamento unico e oggettivo della realtà. La caduta del muro di Berlino, la crisi sistematica del modello economico neoliberale, la crisi ecologica, la fine del mito del progresso: sono tutti sintomi di un indebolimento della metafisica forte, che sfocia nel nichilismo. Per la metafisica classica che Vattimo critica, la verità non è niente di più che il frutto di una proiezione soggettiva, idealista: un’idea fissa. È proprio a questo tipo di verità che il mondo postmoderno sta dicendo addio.

C’è anche una certa teologia, un certo modo di pensare Dio che è rigido, poco duttile, un po' violento, perché fa violenza alla verità stessa di Dio. È quella teologia che poi sfocia nel rubricismo e nel formalismo: vale più il contorno che l’essenza, l’osservanza delle norme che la persona.

È possibile uscire dalla durezza della metafisica Occidentale per andare verso un mondo dove gli opposti non si respingono, ma convivono? E’ possibile uscire dalla teologia della forza – pensiamo ai concetti di Onnipotenza, monoteismo, ecc. della tradizione Occidentale – verso una teologia più rispettosa di Dio? Ci sono alcune risposte che vanno in questa direzione:

1.      Jean Luc Marion sostiene che il termine essere è incompatibile con il lessico teologica e che il termine essere non è teologico. La rivelazione dice qualcosa dell’ente e non dell’essere. Per questo c’è grande differenza tra il Dio dell’ontologia e quello della rivelazione. “Un Dio che ha bisogno che la propria esistenza sia provata è un Dio ben poco divino e la prova dell’esistenza di Dio è una grande bestemmia”. Secondo Heidegger la teologia non riguarda Dio, ma la fede nel crocefisso. La teologia riguarda la fede nell’evento del crocifisso.
Problema:
·         come dire il Dio della rivelazione che non è di questo mondo?
·         La metafisica ci ha abituati a pensare Dio a partire dall’essere e invece Dio viene a noi attraverso l’evento: la rivelazione
·         Come dev’essere scritto il Dio di una teologia cristiana manifestata dalla croce di Cristo?
·         La rivelazione biblica ignora la differenza ontologica (Gen 1,24); Rom 4,17; 1 Cor 1,28; Lc 15, 12-32;
·         Dio sceglie il non ente per annullare l’ente
·         Per Dio quello che non è come se fosse
·         Per Dio quello che è può essere come se non fosse
·         Il fatto di essere un ente non garantisce nulla
·         1 Cor 1,28: la sapienza che viene da Dio provoca la confusione della sapienza degli uomini
·         Occorre pensare la possibilità di dire l’ente senza ricorrere all’essere

2. Il pensiero biblico ci può offrire qualche spunto. Ci sono, infatti nella Bibbia, alcune visoni che dicono di una possibilità della convivenza delle differenze.

1.       L’alleanza che Dio stabilisce con Noè è l’arcobaleno. E' un dato che è stato spesso dimenticato. Dio non ha scelto un colore, ma l'arcobaleno: è l'elogio della pluralità. Viviamo l'alleanza con Dio quando abitiamo la pluralità

2.      Il profetismo. Isaia 11. Convivenza dei contrari: la vacca e l’orsa pascoleranno insieme; il lupo e l’agnello dormiranno insieme.

3.      I nomi di Dio. È significativo che nella Bibbia, non esiste un solo concetto, una solo parola per definire il nome di Dio, ma diverse: YHWH, Eloim, El, Io Sono, ecc. La pluralità dei nomi dice di un’impossibilità di dire Dio con un solo concetto. Dio rimane sempre al di là della nostra capacità di accoglierlo. Dio è più grande dell’idea, la trascende.

4.      I Vangeli per narrare la vita del figlio di Dio sono 4 e non uno. Non si può pensare di cogliere la vita di Gesù, il figlio di Dio, da un unico punto di vista. Il cristiano è colui che si allena alla pluralità di vedute, alla compresenza di visioni diverse, a percorre cammini interpretativo diversi, a volte opposti. Il cristianesimo non è un cammino monotematico.

5.      La Trinità. È l’elaborazione della prima comunità che intuisce che Dio non può essere concepito e intrappolato da una prospettiva unica. La Trinità dice di un’unità che non s’identifica con uniformità e dove la pluralità è matrice di unità.

Per aiutarci a non essere causa di dolore, a non provocare dolore nel mondo con giudizi affrettati e rigidi, ingabbiati nei pregiudizi culturali è necessario mantenerci in ascolto della realtà, a contatto con la realtà, a formulare idee che procedono dalla realtà e non il contrario.
La realtà, per suo verso, è plurale, molteplice, viva, in movimento. La realtà dice della compresenza dei diversi ed è solo il contatto con la realtà che ci può salvare dalla tirannia dell’idea. È dalla realtà che procede l’idea e non viceversa.


sabato 15 aprile 2017

ALLA SCUOLA DELLA DIVERSITA'




IN CAMMINO VERSO LA SINODALITA’

Paolo Cugini
Non è facile pensare e decidere insieme. Non è facile perché, prima di tutto, non ci siamo abituati. Non possiamo, poi pretendere che un’istituzione come la chiesa si metta a sinodalizzare (passatemi il neologismo) dopo secoli di monologo. Che lo metta tra i suoi obiettivi è bello e simpatico, ma che lo faccia realmente è un altro capitolo della storia. Gli piacerebbe, ma non ci riesce fino in fondo. Sinodalità richiama, infatti, ad un concetto fondamentale della chiesa di Gesù Cristo, vale a dire il principio di uguaglianza, che considera tutte le persone della comunità come fratelli e sorelle. La chiesa è sinodale quando non solo ascolta tutti, ma non giudica nessuno inferiore, non mette nessuno nell’impossibilità di poter esprimere il proprio parere.  Già da queste prime battute si comprende come tra il dire e il fare, il desiderio e la realtà, ci sia molto mare in mezzo. Peter Neuner nel suo recente studio: Per una teologia del Popolo di Dio (Queriniana, Brescia 2016), mostra come già alla fine del primo secolo il termine fratello e sorella, utilizzato nelle prime comunità tra i membri delle stesse, sparisce dal linguaggio. Cipriano, infatti, nella sua prima lettera datata all’incirca nel 96 del I secolo, attribuisce il termine fratello solamente i suoi colleghi vescovi.

Per sedersi attorno allo stesso tavolo per prendere delle decisioni insieme – è questo il senso della sinodalità – occorre che nessuno si consideri superiore dell’altro. Questo è il problema. C’è una relazione tra i membri della chiesa che è venuta lentamente e progressivamente sgretolandosi e distanziandosi e ancora oggi porta il peso di questa distanza. Del resto, se uno degli interlocutori detiene il diritto di dire sempre l’ultima parola, si capisce bene come il dialogo diventi complicato. A questo proposito, sempre Neuner dimostra che la contrapposizione laici/clero non faceva parte delle origini. Infatti, il termine laos viene usato per indicare tutti i cristiani e non per indicare i laici contrapposti ai sacerdoti. “Visto in questo modo, laos e il nostro termine laico, che da esso deriva, sono per la terminologia biblica i termini onorifici più alti che possono essere dati a un cristiano”. Tutti coloro che appartengono al popolo sono laici e lo sono anche sia i ministri ordinati che color che sono dotati di un carisma particolare. In realtà, accompagnando gli sviluppi del Nuovo Testamento, la differenza a cui rimanda la parola Laos, è quella tra i credenti e i non credenti e quindi non una differenza riguardante classi diverse all’interno della chiesa. Dal punto di vista prettamente storico, il concetto di laico si è imposto in ambito ecclesiale nel III secolo. Sarà poi con la svolta costantiniana del IV secolo che la contrapposizione laici/clero non solo si confermerà, ma si radicalizzerà, anche perché i rappresentanti della chiesa riceveranno una posizione sociale onorifica. Contrapposizione che ha passato i secoli e che è giunta sino ai nostri giorni con tutto il suo peso storico che fa fatica ad attenuarsi.

 È umanamente difficile vivere la novità che Gesù è venuto a portare al mondo. Per chiamare le persone di una comunità fratelli e sorelle, per considerarli uguali, occorre compiere un cammino di conversione radicale, un cambiamento di mentalità, un passaggio da un modo di concepire la realtà ad un altro. Il Vangelo è, infatti, prima di tutto uno stile, un modo di stare al mondo, un modo di rapportarsi con gli altri. Gesù continuamente sollecita i suoi discepoli e le sue discepole ad essere differenti, a non utilizzare le stesse logiche del mondo: “tra di voi non sia così, ma chi vuole essere il primo sia l’ultimo”. Se nella vita quotidiana siamo continuamente immersi e sollecitati da logiche di potere, da relazioni di arroganza in cui ci viene sempre ricordato in modo implicito od esplicito che siamo inferiori rispetto a qualcuno che ha più potere di noi, con Gesù tutto questo non accadeva. Infatti, Il Signore metteva a proprio agio chiunque, lo faceva sentire bene, un fratello, una sorella. Molti poveri lo seguivano non solo perché faceva miracoli, ma per le parole che uscivano dalla sua bocca, per il modo inclusivo ed accogliente di manifestarsi al mondo. In Gesù nessuno si sentiva giudicato o condannato. Lo diceva continuamente lui stesso: non giudicate, non condannate, siate misericordiosi. Anche nella relazione con i peccatori Gesù ha sempre mostrato molta delicatezza. Non li ha mai accolti, infatti, buttandogli addosso il peso delle loro colpe, ma si dirigeva loro con amore e misericordia e, solo alla fine della relazione, ricordava loro di non tornare a peccare.

 Non sono dettagli da poco e non è una questione di virgole e di punteggiatura. Si tratta di capire che cos’è più importante per noi, se salvare una persona o la difesa dei valori non negoziabili. Lo diceva lo tesso Papa Francesco in questi giorni che, dinanzi ad un figlio, non ci sono valori non negoziabili da difendere. Dinanzi ad un figlio, ad una figlia non si può rimanere chiusi in un atteggiamento di durezza. Gesù è venuto al mondo e ci ha presi così come siamo, non ci ha fatto la morale, è morto per noi e ci ha indicato una via: la sua vita. Ha considerato ogni persona nella sua dignità, l’ha valorizzata per quello che era: ha dato a ciascuno di noi la possibilità di rialzarsi e riprendere il cammino. Non ha creato delle differenze di grado, non si è mai fatto servire, ma lui steso si è abbassato per servire i suoi discepoli e le sue discepole sino al punto da lavargli i piedi. Il problema viene da coloro che pensano di stare in piedi da soli, pensano di non essere mai caduti, credono di non avere bisogno di nessuno e, per questo, disprezzano la fragilità altrui, le cadute, non tollerano che si possa cadere. Contro questi perfetti ha sbattuto il muso anche Gesù. Chi nasce e cresce nella bambagia, protetto all’estremo dalle temperie del modo, non conoscendo le difficoltà reali della vita, ritiene inconcepibile la possibilità di sbagliare. Chi è stato formato dalle classi alte, quando sarà adulto riprodurrà lo stesso schema di società diviso in due: chi comanda e chi obbedisce. È brutto vedere anche questo schema nella chiesa. È poco evangelico vedere coloro che si fanno chiamare pastori, amare la distanza dal popolo, amare di essere considerati superiori, difendere a denti stretti il diritto di dire sempre l’ultima parola.

La sinodalità dice di uno stile di relazione che considera tutte le persone uguali, che non fa distinzione tra uomini e donne, bianche e neri, ricchi e poveri. Fino a quando la gerarchia della chiesa è solo maschile sarà impossibile una forma sinodale, che si regge sul principio di uguaglianza tra uomini e donne. Gesù ha dimostrato con l’esempio che è possibile costruire un cammino di sinodalità abbassandosi, mettendosi a livello dell’interlocutore, camminando con loro, condividendo le gioie e le sofferenze. Molto spesso nei dialoghi con gli scribi e i farisei Gesù raccontava delle parabole per coinvolgere i loro interlocutori affinché fossero loro stessi a trarre le conseguenze delle loro scelte. Una chiesa sinodale è possibile quando assomiglia allo stile di Gesù, che si è abbassato, si è fatto uno di noi, non aveva titoli o paramenti che lo differenziavano. Una chiesa è sinodale quando, sull’esempio di Gesù, non si mette in cattedra, ma con umiltà si mette in cammino con le persone, coinvolgendole nei processi formativi.  Sembrano dettagli da poco, invece sono importanti, perché dicono di una differenza e indicano un cammino.

In questo percorso i poveri, gli esclusi, coloro che vivono ai margini della società sono i nostri maestri, sono coloro che ci possono annunciare il Vangelo della sinodalità, sono gli unici che ci possono salvare dall’idolatria del potere, che snatura le relazioni e produce l’arroganza di chi pretende di dominare sugli altri. Ascoltare ed accogliere con tenerezza coloro che portano i segni del disprezzo sociale, può insegnarci molto. In questa prospettiva le persone omosessuali, che possiamo considerare i nuovi lebbrosi della nostra società Occidentale, hanno molto da insegnarci. Come dev’essere pesante per un cristiano LGBT pregare il Dio di una chiesa che lo tratta come malato da guarire. Eppure si riuniscono per meditare la Parola, per alimentare la speranza, per trovare conforto nel Signore della misericordia infinita, nonostante il disprezzo che ricevono anche da membri o da gruppi della chiesa. Metterci alla scuola di Gesù che scendeva dalla cattedra di Mosè, per mettersi a livello della gente, ascoltarli, accoglierli, valorizzarli e, soprattutto, per condividerne le sofferenze: è questo il percorso da compiere. La chiesa sinodale è quella che sa mettersi in ascolto del grido dei disperati, dei maltrattati dalla storia, che sa considerare ogni persona LGBT come fratello e sorella.

Oppure come dev’essere difficile per gli africani dalla pelle nera abitare in un paese di bianchi. Come dev’essere difficile per gli africani sopportare tutti i giorni l’arroganza di coloro che si sentono superiori per il fatto di avere la pelle bianca. Come dev’essere pesante per un giovane africano venire a cercare fortuna nella terra di coloro che da secoli stanno devastando i loro paesi, sfruttando vergognosamente le loro risorse, ammazzando i loro bambini, stuprando le loro donne. Come dev’essere gravoso guardare negli occhi gli uomini bianchi che per il fatto di essere nati con la pelle bianca si sentono in diritto di guardare tutti dall’alto in basso, animati da un complesso di superiorità che non lascia spazio alle differenze di manifestarsi alla pari.  Ascoltare queste sofferenze, che provengono dal profondo dell’anima, ascoltare il male che da secoli subiscono per il semplice fatto che sono nati così, ci può aiutare ad uscire dalla schiavitù del complesso di superiorità e capire finalmente, che siamo tutti fratelli e sorelle e che la dignità più grande che abbiamo è quella di essere figli e figlie di Dio, amati da un unico Padre.
Sinodalità significa abitare la pluralità e questo è possibile solamente se accettiamo la differenza come elemento costitutivo del progetto di Dio. È lui, infatti, il colpevole! È Lui che ci ha fatti diversi e ci ha chiamati all’unità. Nella comunità cristiana, specchio della Trinità, l’unità non s’identifica con l’uniformità, ma esige la diversità. Il Vangelo, in questa prospettiva, è il miglior collirio che cura le nostre rigidità, che lenisce le nostre durezze, che ci porta ad accogliere l’altro per quello che è, liberandoci dalle nostre precomprensioni culturali. Evangelizzare le culture significa fare in modo che la novità del Vangelo contamini positivamente ogni aspetto della realtà che ci circonda e la trasformi in amore. Lasciarci contaminare dall’amore di Dio che si è manifestato nella persona di Gesù Cristo significa seguire il suo cammino di abbassamento, di svuotamento per fare spazio a tutti.


mercoledì 12 aprile 2017

TEOLOGIA DEL POPOLO DI DIO



P. Neuner, Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana, Brescia 2016

Sintesi: Paolo Cugini

La proposta di questo libro nasce da alcune considerazioni che Papa Francesco ha espresso nell’Evangeli Gaudium, riguardo alla necessità dei laici di annunciare il Vangelo e di considerarli come soggetto dell’Evangelizzazione. Da queste sollecitazioni Neuner prende lo spunto per una ricostruzione storica non solo del concetto di laico, ma anche dell’ecclesiologia del Popolo di Dio sottesa all’impostazione pastorale di Papa Francesco.

L’opera è suddivisa in quattro parti. Nella prima l’autore cerca di mostrare, attraverso un percorso storico, come si sia sviluppata la concezione del laico nella chiesa, dalle affermazioni bibliche sul popolo di Dio alla differenziazione tra clero e laici. In questa analisi Neuner mostra come questa differenziazione diviene sempre più crescente con il passare del tempo, anche se nella chiesa delle origini non esisteva. Ciò diviene comprensibile dalla presa di coscienza che il termine laos viene usato per indicare tutti i cristiani e non per indicare i laici contrapposti ai sacerdoti. “Visto in questo modo, laos e il nostro termine laico, che da esso deriva, sono per la terminologia biblica i termini onorifici più alti che possono essere dati a un cristiano” (p.25).
Tutti coloro che appartengono al popolo sono laici e lo sono anche sia i ministri ordinati che color che sono dotati di un carisma particolare. In realtà, accompagnando gli sviluppi del Nuovo Testamento, la differenza a cui rimanda la parola Laos, è quella tra i credenti e i non credenti e quindi non una differenza riguardante classi diverse all’interno della chiesa. Dal punto di vista prettamente storico, il concetto di laico si è imposto in ambito ecclesiale nel III secolo. Infatti, il termine fratello usato dai cristiani per denominarsi a vicenda, passa sempre più in secondo piano. È Cipriano che inizia ad utilizzare il termine fratello per indicare i vescovi e i chierici. La seconda evoluzione del termine lo si deve alle comunità monastiche nelle quali i membri sono denominati fratelli. Nella ricostruzione storica di Neuner, si giunge a scoprire che è stato Origene nel III secolo il primo autore ad utilizzare il termine laico contrapponendolo al clero. Dopo di lui altri autori, come ad esempio Tertulliano, utilizzano il termine laico per indicare coloro che non detengono un ufficio, vale a dire i non-sacerdoti. Sarà poi con la svolta costantiniana del IV secolo che la contrapposizione laici - clero non solo si confermerà, ma si radicalizzerà, anche perché i rappresentanti della chiesa riceveranno una posizione sociale onorifica.
 Un altro sviluppo significativo nella stessa direzione che Neuner evidenzia riguarda il ruolo del Vescovo. Il consolidamento della classe dei chierici provocò come conseguenza, il recupero del termine sacerdote per indicare i ministri ordinati della chiesa. “Il termine sacerdote – sostiene Neuner – diventò familiare nel cristianesimo innanzitutto mediante un’interpretazione allegorica dell’Antico Testamento […] Come nell’Antica Alleanza c’era il sommo sacerdote, così in modo simile anche nella comunità cristiana c’è ora il sacerdote, il sacerdos, vale a dire il vescovo” (p. 37). Lo sviluppo dell’idea di vescovo deve molto alle tensioni con gli eretici dei primi secoli. È di fatti, in questo clima polemico che la figura del vescovo diviene sempre più segno visibile dell’unità della comunità, perché il vescovo rappresenta Cristo nella e per la comunità. Solo al vescovo appartiene la competenza di guidare la liturgia, di celebrare l’Eucarestia, di amministrare i sacramenti. Ignazio di Antiochia ed Ireneo di Lione, confrontandosi con le tendenze gnostiche dell’epoca, condussero la riflessione ecclesiale a dare sempre più risalto all’ufficio del vescovo. Ecco perché diviene fondamentale ad un certo punto la comunione con il vescovo, perché è solo in lui che diviene visibile la comunità.
Nello sviluppo della contrapposizione laici/clero, Neuner prende come riferimento nell’epoca medievale i papi Gregorio VII e Bonifacio VII: Il primo con il Dictatus papae rivendicò il primato di giurisdizione del vescovo di Roma su tutta la chiesa e il potere di deporre i re e di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà. Quella di Gregorio fu senza dubbio un atto di forza nei confronti di una situazione per molti aspetti ambigua, che non aveva ancora risolto il rapporto tra impero e chiesa. La presa di posizione di Gregorio VII trovò anche il consenso non solo del clero, ma anche dei laici, che da tempo si opponevo all’influsso dei nobili nella chiesa. La teoria delle due spade di Bonifacio VIII era sulla stessa linea. Secondo questa teoria, il papa ha ricevuto direttamente da Cristo sia il potere spirituale che quello secolare. Affermazione chiara e categorica che condusse Bonifacio a dichiarare che: “L’essere sottomessi al romano pontefice è, per ogni umana creatura, necessario per la salvezza” (p.53). Le affermazioni perentorie dei due papi vennero messe in discussione nei secoli successivi dai movimenti pauperistici e dagli ordini mendicanti. Il dibattito viene concentrato sul significato dell’apostolicità. Solo colui che vive come gli apostoli e non chi è ordinato legittimamente, può essere considerato detentore di apostolicità e, quindi, può avere il diritto d’insegnare ciò che vive. Nasce in questo contesto la disputa sulla predicazione dei laici, che si concluderà con la soppressione, non solo verbale, di tutti i movimenti che avanzavano pretese al riguardo. Il caso più eclatante fu la presa di posizione nei confronti dei Valdesi. Fu proprio in questo contesto che si cominciò ad intervenire anche contro la lettura della Bibbia nelle lingue volgari sino al punto da interdire la lettura della Bibbia da parte dei laici. Il clima venutosi a creare si accentuò sempre di più in tutto il XIV e XV secolo al punto che: “clero e laici stavano ora uno di fronte all’altro in un atteggiamento di fondamentale ostilità, come chi domina e chi è dominato, chi opprime e chi lotta per la libertà” (p. 65). Queste tensioni si accentuarono nel periodo della Riforma protestante, che condussero Lutero da una parte a porre l’accento sull’eguaglianza e sull’unità della chiesa e, dall’altra, ad incentivare la lettura della Bibbia da parte dei laici. La disputa, come sappiamo, arrivava anche a toccare il problema del fondamento del sacerdozio e del battesimo. Secondo Lutero il battesimo, oltre ad essere alla base dell’appartenenza alla chiesa, fonda il sacerdozio comune di tutti i fedeli. Ecco perché, secondo Lutero, il ministero ordinato non è cristiano in misura maggiore rispetto a qualsiasi altro battezzato. Conosciamo molto bene la reazione alle affermazioni di Lutero da parte della chiesa che nel Concilio di Trento affermò che il sacramento dell’ordinazione sacerdotale conferisce un carattere indelebile che eleva il sacerdote al di sopra del laico. In questa prospettiva instauratisi in un clima fortemente polemico, i laici venivano sempre più relegati in secondo piano, come oggetti del diritto e non come soggetti di diritti. Nel capitolo conclusivo della prima parte Neuner accenna alla nuova riflessione che sul laicato si produsse nel XIX secolo. Come sostiene lo storico della chiesa Merkle, citato da Neuner: “il XIX secolo può essere indicato come l’epoca classica dei teologi-laici, poiché dove il clero aveva fallito erano ora i laici a salire sulla breccia” (p. 75). Fu il Sillabo di Pio IX ad aprire in un certo senso la porta al protagonismo dei laici. Il dibattito sull’attività dei laici nella vita della chiesa giunse al punto mettere in crisi le stesse posizioni del Sillabo. Il teologo John Henry Newman sostenne, infatti, che i laici avevano tutto il diritto di essere consultati anche nelle decisioni dogmatiche. Newman, per sostenere questa tesi, dimostrò come all’epoca del Concilio di Nicea, la retta fede apostolica fu salvata mediante il sensus fidelium. Fu a partire da simili prese di posizione che in varie parti d’Europa sorsero federazioni e associazioni cattoliche, nelle quali erano i laici ad organizzarsi per attivarsi soprattutto nelle questioni sociali. La risposta dei papi all’attivismo dei laici non si fece attendere. Pio X richiese l’inserimento di tutte le associazioni cattoliche nell’ordinamento gerarchico. Tutte le associazioni di cattolici furono obbligate a sottostare all’autorità dei vescovi. Fu in questo clima che Pio XI fondò l’Azione Cattolica. “La possibilità di permeare lo Stato, la cultura, l’economia e la società richiedeva necessariamente secondo il Papa la collaborazione dei laici. Questa doveva realizzarsi mediante l’Azione Cattolica. La sua caratteristica più profonda doveva essere costituita dalla stretta sottomissione alla gerarchia” (90).

Nella seconda parte dell’opera, Neuner analizza in poche battute, l’idea di laico nella concezione teologica del Concili Vaticano II. Dopo la presa di coscienza che i testi preparatori erano tutti condizionati dalla concezione ecclesiologica degli ultimi secoli, l’autore passa ad analizzare i principali documenti conciliari. Sfogliando le pagine dei documenti del Concilio Vaticano II si percepisce come la chiesa non è più pensata solamente nelle istituzioni e ni ministri ordinati e che il popolo è più ampio di loro. La riflessione sul laicato raccoglie la ricchezza della ricerca biblico-patristica dei decenni precedenti al Concilio. “Ogni laico in virtù dei doni che gli sono stati fati, è testimonio e insieme vivo strumento della stessa missione della chiesa” (LG 33). Già da passi come questo si percepisce l’intenzione dei padri conciliari di andare al di là delle contrapposizioni, per camminare verso una visione di chiesa come popolo di Dio. In questa prospettiva Neuner sottolinea l’importanza storica del decreto sull’apostolato dei laici nel quale si afferma che i laici sono deputati dal Signore all’apostolato. Nei più diversi ambiti tipici della complessità del tempo presente, spesso la missione della chiesa può essere esercitata solo dai laici. Questa presenza significativa dei laici nella comunità viene ribadita nella Sacrosanctum Concilium, dove viene sottolineata la partecipazione attiva di tutti i fedeli alla celebrazione eucaristica. Le ultime pagine della seconda parte sono dedicate dall’autore al problema della giusta interpretazione dei testi conciliari. Neuner parla senza mezzi termini di rottura delle affermazioni conciliari sul laicato rispetto all’insegnamento ufficiale precedente. “La valorizzazione dei laici nella chiesa è uno dei punti nei quali il concilio ha superato se stesso” (p.110). Neuner riconosce comunque che il Concilio Vaticano II ha avuto nei confronti della sua minoranza conservatrice un tratto estremamente premuroso. Integrare le minoranze fu un desiderio dei padri conciliari e soprattutto di Paolo VI. In ogni modo “nelle affermazioni del Concilio sui laici si vede allora una nuova e fondamentale presa di coscienza che è in discontinuità con una lunga tradizione di segno opposto” (111).

Nella terza parte Neuner analizza gli sviluppi conciliari, vale a dire, l’annoso problema della ricezione degli insegnamenti del Concilio. Il limite di questa parte sta nel fatto che l’autore tende ad accompagnare soprattutto il cammino della chiesa tedesca. In ogni modo non mancano numerosi spunti per la riflessione. C’è la presa di coscienza che dopo il Concilio i laici hanno assunto di fatto in maniera intensa diversi compiti e doveri che prima erano svolti dai preti. In Germania una tappa fondamentale del cammino sperimentale dei primi anni del dopo Concilio fu il sinodo di Wurzburg (1971-1975). Durante il sinodo ci si interroga sulla responsabilità comune di tutti i fedeli, soprattutto in quelle comunità che non possono più beneficiare della presenza permanente del presbitero. Si giunge così a percepire che esiste un’unica missione della chiesa che viene svolta dai molteplici servizi che vanno esercitati in dipendenza l’uno dall’altro. È il principio della comunione nella diversità, che esige dal canto suo la valorizzazione degli organismi che permettano il funzionamento della comunità come, ad esempio, il consiglio pastorale. Queste aperture vengono ridimensionate dal documento dal documento del 1977: “Principi per l’ordinamento dei servizi pastorali” elaborato dalla Conferenza Episcopale Tedesca. La preoccupazione del documento è quella di non confondere il ministero del presbitero con quella di altri ministri. Il nuovo Codice di diritto Canonico del 1983 sembra superare le ristrettezze del documento della CET quado nel numero 208 afferma che: “Fra tutti i fedeli, in forza della loro rigenerazione in Cristo, sussiste una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, e per tale uguaglianza tutti cooperano all’edificazione del corpo di Cristo”. Questa uguaglianza che si fonda sul battesimo, include tutte le differenze di uffici e funzioni. Neuner a questo punto della ricerca, focalizza l’attenzione su quello che considera a ragione un testo chiave sia per la recezione degli spunti ecclesiologici del Vaticano II, sia per gli sviluppi futuri sul tema del laicato nella chiesa, vale a dire il sinodo dei vescovi sui laici del 1987 e l’esortazione apostolica post-sinodale Christifideles Laici del 1989. All’autore non sfugge il poco conosciuto, ma di fondamentale importanza per l’ecclesiologia, il sinodo straordinario dei vescovi del novembre-dicembre 1985, per commemorare i 20 anni della conclusione del Concilio. Fu in questo sinodo che venne deciso che il tema della comunione della chiesa doveva essere considerato il concetto centrale del concilio. Veniva così scalzato il messaggio del concilio sul popolo di Dio per fare posto ad una concezione di chiesa che in un certo modo riportava all’interno del dibattito ecclesiale il rapporto tra gerarchia e laicato. Come sottolinea infatti Neuner, il termine comunione presta il fianco ad un’ambiguità, perché può significare sia il rapporto di reciprocità esistente tra tutti i membri della chiesa, sia la conformazione dei fedeli alle decisioni della gerarchia. Era proprio questo secondo aspetto ad essere introdotto nel dibattito sinodale e sarà alla luce di questo significato del tema della comunione che si svolgeranno i lavori del sinodo dei vescovi sui laici del 1987. L’esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici resta sino ad ora il documento magisteriale più completo sui laici nella chiesa. La riflessione viene svolta nell’ecclesiologia di comunione, che comprende in sé unità, diversità e complementarietà delle vocazioni, dei ministeri, dei carismi e delle responsabilità (cfr. n.20). Viene sottolineata più volte la diversità del ministero dei pastori rispetto agli altri ministeri e uffici nella chiesa, diversità fondata sulla diversità tra il sacerdozio comune dei battezzati e il sacerdozio ministeriale. Anche i carismi che hanno dato vita negli ultimi decenni a numerosi movimenti, devono sottostare al giudizio dei pastori della chiesa. Si percepisce da questi passaggi come il tema della comunione con la gerarchia abbia preso il sopravvento rispetto alle sottolineature della parità di dignità dei fedeli che il concetto di popolo di Dio portava con sé. Anche il servizio che i laici compiono nel mondo deve avvenire nell’obbedienza verso i pastori. Neuner non lascia di annotare come: “l’autonomia delle realtà terrene, di cui aveva parlato il concilio, è stata così messa evidentemente in secondo piano rispetto alla richiesta di obbedienza” (p. 142). Secondo Neuner il documento sui laici voleva rendere attraente il ministero presbiterale. Per questo motivo Giovanni Paolo II per evitare una clericalizzazione dei laici e una laicizzazione del clero, ha lasciato il ministero secolare ai laici riservando il ministero della salvezza al clero. Come si prevedeva, il documento post-sinodale non risolveva i problemi concreti che le comunità stavano affrontando, dovuti soprattutto alla diminuzione significativa dei presbiteri e la conseguente difficoltà di accompagnare le comunità. Per rispondere a queste esigenze il testo più significativo risale al 1994, frutto di un simposio tenutosi a Roma sulla: Collaborazione dei laici al ministero pastorale dei presbiteri. Significativo fu il duro intervento del Papa che, a partire dal chiarimento del carattere sacerdotale compreso ontologicamente, definiva che, mentre i ministri ordinati hanno nella chiesa degli uffici, i laici hanno solo ministeri. Affermazioni forti che rilevano un disagio nella percezione della difficoltà di trovare un cammino adeguato alla crisi in atto. Nonostante i tanti pronunciamenti ufficiali a favore del sacramento dell’ordine, le vocazioni sacerdotali continuavano a diminuire rendendo difficile la soluzione della guida delle parrocchie. Neuner a questo punto sottolinea due prese di posizioni chiare che, però non furono ascoltate. La prima fu quella del Vescovo Walter Kasper che propose di ordinare presbiteri coloro che di fatto guidavano già le comunità parrocchiali e che stavano dando una buona prova di sé. L’altro intervento lasciato cadere fu quello del vescovo Kamphaus che sosteneva che non si possono trattare i laici come tappabuchi in un periodo di carenza di preti. “La chiesa esiste solo come popolo di Dio, nel quale preti e laici camminano insieme, il compito a cui siamo chiamati in questo momento non è quello di tracciare linee di separazione, ma di interagire”. Voci profetiche che però non vennero ascoltate. Neuner a questo punto mostra alcuni esempi di come alcune diocesi hanno reagito alla mancanza di presbiteri. Il primo esempio è la diocesi francese di Poitiers. Qui il sistema tradizionale delle parrocchie è stato abbandonato a favore di comunità locali. Per esse il vescovo nomina ogni tre anni un team di incaricati ai quali sono affidati diversi ministeri, tra i quali ci sono anche i preti. L’altro esempio è quello della chiesa latinoamericana dove le parrocchie sono costituite da comunità di base, guidate da dei laici. In questi contesti il prete coordina la formazione dei laici che svolgono il ministero nelle comunità, oltre a celebrare periodicamente nelle singole comunità di base.

Nella quarta ed ultima parte Neuner propone delle riflessioni sistematiche su tre temi specifici: la discussione sull’Azione Cattolica; la ricezione del Vaticano II nella discussione teologica; tentativi di definire il laico e i limiti di una tale definizione. Neuner, nella riflessione da lui proposta sull’Azione Cattolica, propone gli studi di due teologi di spicco quali Yves Congar e Gérard Philips. Congar in un testo del 1952, che diverrà punto di riferimento per tutti gli studi successivi sul laicato – Per una teologia del laicato – sosteneva che clero e laicato sono unitamente orientati al medesimo fine. Congar mostra come in ciascuno dei tre uffici – regale, sacerdotale e profetico-, che sono stati trasmessi da Cristo alla sua chiesa, i laici abbiano dei diritti che a loro appartengono in forma immediata. Per sostenere ciò Congar fa riferimento alla dottrina del sacerdozio comune ritenendo che non è necessario concedere degli uffici ai laici, in quanto già membri attivi per la costruzione dell’unica chiesa. Per questi motivi Congar distingue l’azione dei cattolici dall’Azione Cattolica. “È sempre esistito ed esiste un apostolato dei laici anteriore e, sotto certi aspetti, più ampio di quello dell’Azione Cattolica, Apostolato che si basava sui doni sacramentali ed extra-sacramentali che costituiscono il cristiano”. (183). Dovere del laico, dunque, è conoscere e far comprendere agli altri che le cause seconde sono aperte verso Dio, che è la causa Prima. Pochi anni dopo le riflessioni di Congar, che anticipavano il dibattito conciliare, Gérard Philips, nel suo: I laici nella chiesa del 1954, esprimeva la sua visione positiva sulla svolta operata negli ultimi decenni di una nuova presa di coscienza dei laici. Philips non era convinto della spartizione dei campi d’interesse che relegava i laici alla sfera secolare, mentre i presbiteri come custodi del sacro. Il rischio di questa impostazione era quello di chiudere la chiesa nella sagrestia e di offrire argomenti per un laicismo anticlericale. Rispetto a Congar, Philips attribuisce un ruolo maggiore al laico nell’ambito inter ecclesiale, facendo riferimento alla famiglia come la più piccola cellula della chiesa. Inoltre, Philips faceva notare sia la partecipazione dei laici al sacerdozio comune, sia il loro coinvolgimento nel movimento liturgico di quegli anni. Centrale nella riflessione di Philips è l’idea d’incarnazione perché, a suo dire, aiuta a superare le contrapposizioni classiche tra spirito e materia, secolare e profano. Per questo Philips evitò di separare in modo netto laicato e clero. Neuner nl cammino di ricerca di una spiritualità laicale non tralascia di citare i contributi di altri importanti teologi del tempo quali Friedrich Von Hugel, Franz Xavier Arnold, Alfonso Auer e Hans Urs Von Balthasar i cui contributi, come quelli dei precedenti già citati, contribuiranno significativamente nell’elaborazione della teologia del laicato sviluppatasi nel dibattito conciliare.

Neuner dedica la seconda riflessione sistematica alla ricezione del Vaticano II nella discussione teologica. Non poteva non partire per questa analisi dal teologo Karl Rahner che nel suo L’Apostolato dei laici del 1966 difese la necessità ecclesiale di un’autonomia del laicato. Riprendendo la riflessine dei primi secoli del cristianesimo, Rahner sostiene che chierico è chiunque sia in possesso di un ufficio ecclesiale e quindi non riguarda solo il prete o il diacono che hanno ricevuto l’ordinazione. “In questo senso strettamente teologico – sostiene Rahner – una donna può appartenere al clero” (p. 199). Per Rahner la chiesa no si fonda nei sui uffici, ma all’opera di Gesù e nella predicazione del Regno di Dio. È nel mondo che il laico dà forma alla sua vita cristiana e al suo apostolato. C’è un’insistenza di Rahner su questo tema perché ritiene che i laici non hanno bisogno di uffici per esercitare il loro apostolato. Infatti, i laici, sulla base del battesimo e della cresima sono membri della chiesa e vivono il loro cristianesimo e operano come apostoli mediante questa vita senza la necessità di ricevere un incarico ufficiale. Anche Edward Schillebeeckx sulla linea di Rahner, ma andando oltre, sottolinea sia l’autonomia del laico nella chiesa, sia la necessità di collocare la riflessione del laicato nel cammino della chiesa. Il carattere secolare del laico sta ad indicare un compito ecclesiologico. I laici non sono persone profane, ma membri del popolo di Dio nel mondo secolare. In questa prospettiva preti e laici hanno solo servizi diversi, hanno “doni diversi dalla cui coesione viene edificato il corpo ecclesiale come comunità di fede” (p. 205). A questo proposito Edward Schillebeeckx sviluppa il modello della chiesa futura che, riprendendo dalla chiesa antica, chiesa che è una fraternità di fratelli e sorelle nella quale le strutture di potere vigenti nel mondo vengono a poco a poco eliminate. Anche se ci sono diversità di funzioni, nella fraternità tutti hanno il diritto di parola.
L’ultima riflessione sistematica è dedicata da Neuner al tentativo di definire il laico. Sono brevi analisi su tematiche già dibattute durante il percorso di ricerca. Si passa così dai brevi accenni del laico come non-chierico, alla discussione sul carattere secolare, ai differenti modi di partecipare al triplice ufficio e all’affermazione sulla differenza essenziale tra sacerdozio comune e ministeriale. Secondo Neuner si deve prendere sul serio il concetto di laos, considerandolo di nuovo nel senso che aveva nella scrittura, quindi come termine che designa il popolo di Dio, la chiesa nel suo insieme. La tesi di Neuner è che: “se avessimo una teologia del popolo di Dio corretta, non avremmo più bisogno di una teologia del laicato. Se la realtà del popolo di Dio si realizzasse nelle forme nelle forme di organizzazione della chiesa, non dovremmo scervellarci sulla partecipazione attiva dei laici” (p. 228). Ecco perché secondo il nostro autore, la riflessione sui laici dovrebbe diventare una riflessione sul popolo di Dio, sulla sua forma e sulle strutture che gli sono adeguate. Questa difficoltà nello sviluppare una riflessione sul laicato tenendo come riferimento la riflessione del Concilio sulla chiesa come popolo di Dio, nasce secondo Neuner soprattutto dalla presa di coscienza che il processo di cambiamento di mentalità avviato dallo stesso concilio, non ha ancora lasciato grandi segni. Prova di ciò è il fatto che ancora oggi, come in passato, tutte le grandi decisioni non sono prese dal popolo di Dio, ma da pochi membri della gerarchia. Ciò significa che l’elemento sinodale così importante nel Concilio, è stato delimitato piuttosto che rafforzato nel corso degli anni. Neuner sottolinea che i ministri ordinati stanno nella chiesa e non sopra di essa. Per questo non è nella logica del concilio squalificare coloro che non ricoprono alcun ufficio nella chiesa. “L’ordinazione degli uni, non deve significare la subordinazione degli altri”. Recuperare il discorso del Concilio della chiesa come popolo di Dio significa ritornare alla volontà salvifica di Dio, all’evento della croce e risurrezione di Cristo e all’invio dello Spirito Santo che ne garantisce la presenza.




sabato 8 aprile 2017

IN CAMMINO CON LA LETTURA POPOLARE DELLA BIBBIA




Reggio Emilia – maggio/giugno 2017

Paolo Cugini


Anche quest’anno gli amici della Lettura Popolare della Bibbia propongono alcuni momenti di riflessione con Maria Soave Buscemi e Felice Tenero, che possiamo considerare ormai persone di casa qui a Reggio Emilia. Abbiamo pensato a due momenti specifici. Nel primo, affronteremo alcuni temi legati alla proposta pastorale di papa Francesco, mentre nel secondo momento vogliamo proporre un servizio a tutti coloro che desiderano divenire facilitatori di gruppi biblici seguendo il metodo della Lettura Popolare della Bibbia. Papa Francesco ci sta riportando nella chiesa del Concilio, vale a dire la chiesa Popolo di Dio, quello stile di chiesa che riprende lo stile delle origini, fatto di uguaglianza, fratellanza, sororità (è un termine caro a Soave per esprime la fratellanza al femminile). All’interno della chiesa Popolo di Dio la sinodalità diviene la modalità costante per il discernimento dei cammini pastorali da mettere in atto nella comunità. Sinodalità che si fonda sia sull’uguaglianza dei membri della comunità, che sull’ascolto di ogni persona, affinché le scelte fatte siano il frutto di un discernimento condiviso, più che di un’imposizione di qualcuno. La sinodalità come metodo di discernimento, chiama in causa, poi, la ministerialità dei laici nella vita della chiesa. È senza dubbio, quello della ministerialità, uno dei temi più sentiti e dibattuti nell’attuale contesto ecclesiale, anche perché fa riferimento al tema della partecipazione dei laici nella chiesa. Con Soave Buscemi e Felice Tenero parleremo di questi temi facendoci aiutare dal metodo della Lettura Popolare della Bibbia, metodo già presentato negli incontri degli anni passati. Vale la pena, comunque, proprio per introdurre questa nuova tappa del nostro cammino, soffermarci un po' su questo metodo, scoprirne l’origine e la struttura di fondo.

Il metodo di Lettura Popolare della Bibbia, nasce negli anni ’70 del secolo scorso in America Latina e più precisamente in Brasile. Il biblista brasiliano Carlos Mesters fu colui che, lavorando pastoralmente con famiglie dei quartieri poveri, iniziò a elaborare un metodo di lettura della Bibbia che aiutasse le persone a comprender non solo il senso del loro cammino di fede, ma anche quello della comunità e del mondo circostante. Il popolo, allora, stimolato dai problemi della realtà (pre-testo), cerca una luce nella Bibbia (testo), che è letta e approfondita nella comunità (con-testo). Il pre-testo e il con-testo determinano il “luogo” da dove si legge e interpreta il testo. Questi tre elementi – pre-teto, testo e con-testo- sono i cardini centrali del metodo della lettura popolare della Bibbia. Quando la Bibbia, la comunità e la realtà sono interconnesse, la Parola di Dio diviene un rinforzo, un motivo di speranza, di coraggio e aiuta a vincere pian piano la paura.
 Mentre gli esegeti interpretano il senso che il testo biblico ha in sé, per cercare di salvare l’ortodossia, l’obiettivo dell’interpretazione biblica realizzata dai poveri consiste nel percepire il significato del testo per la loro vita e che cosa Dio dice per mezzo di questi testi. Di conseguenza la preoccupazione dei poveri non è con l’ortodossia, ma con l’ortoprassi. Il metodo utilizzato dal popolo non mette al primo posto la coerenza interna e neanche il raziocinio, ma si avvicina di più al metodo delle libere associazioni delle idee. La gente parla liberamente associando idee, testi, fatti e situazioni conforme sorgono nel pensiero, senza che si veda necessariamente un nesso logico. Per non essere errata, l’interpretazione della Bibbia deve integrare tre dimensioni: la vita del popolo, la scienza esegetica, la fede della chiesa. Il testo non viene più letto fine a sé stesso, ma come strumento dell’azione trasformatrice della comunità. Il testo è la parola scritta nella Bibbia, il con-testo è la vita di fede della comunità, che legge e interpreta il testo, e il pre-testo è la realtà formata dalle situazioni, sociale, politica ed economica, nella quale la comunità è inserita e dentro della quale legge il testo biblico. Ognuno di questi criteri ha una sua funzione nella pratica dell’interpretazione biblica e sono articolati fra di loro in modo dinamico. Il processo d’interpretazione può iniziare da ognuno dei tre aspetti, dipende solo dalla situazione, dalla storia, dalla cultura e dagli aspetti della comunità o del gruppo. L’importante è non dimenticare nessuno dei tre criteri che insieme hanno in vista lo stesso obiettivo: condurre il popolo a conoscere meglio la loro realtà presene e ascoltare gli appelli di Dio dentro questa realtà. Il circolo biblico, così inteso, non diviene un momento separato dalla vita per approfondire un testo del passato ma, al contrario, diviene strumento per una migliore inserzione nella realtà e nella vita presente. La mancanza di contributo del pre-testo, corrompe il con-testo e fa in modo che il testo non riesca a contribuire alla liberazione dei suoi lettori.
 D’altro canto, se teniamo conto solamente della conoscenza critica della realtà di oggi e non del testo biblico, la gente può abbandonare la Bibbia come un libro che non serva a nulla.

Leggere la Bibbia a partire dai poveri – sostiene Mesters - esige che si scoprano e analizzino le cause che generano la povertà, cause sociali, politiche, economiche e ideologiche. Qui non si tratta di una lettura riduzionista della Parola di Dio. Non si riduce nulla. Al contrario! Si aumenta l’angolo di visione, includendo ciò che prima non era considerato. L’interpretazione smette di essere spiritualista e alienata e passa ad illuminare l situazioni concrete della vita del popolo.

Secondo Mesters, la ricerca e l’analisi della realtà sono necessarie come elementi d’interpretazione della Parola di Dio affinché le persone possano comprendere che le loro vite e del loro gruppo non esistono e non possono esistere separate dalle altre persone e che non è possibile trasformare la vita del gruppo senza che si attacchino le cause del malessere che si trova nel mondo. Si comprende molto come una simile impostazioni conduca lentamente e progressivamente a fare in modo che i partecipanti del circolo biblico assumano una coscienza critica sulla realtà circostante. È la comunità, il con-testo, il luogo dove avviene la lettura della Bibbia. Il libro che s’interpreta è il libro della comunità; il significato che si cerca è il significato della comunità; il compito da interpretare è il compito della comunità. D’altronde, la stessa Bibbia è un libro costruito in comunità. Se la comunità è il contesto nel quale avviene l’interpretazione del testo, ciò significa che i poveri sono il nuovo soggetto ermeneutico (interpretativo). Per loro, solamente dentro la vita di sofferenza e all’interno del cammino di liberazione, s’incontra la chiave della Bibbia che può dare un nuovo supporto e un nuovo destino alla scienza esegetica   Se la pratica dell’interpretazione della Bibbia è comunitaria, ciò significa che tutte le persone partecipano attivamente, e non solo gli specialisti, gli esegeti, i teologi, preti o vescovi. Ogni persona della comunità apporta il proprio contributo affinché si dia il processo d’interpretazione.

L’obiettivo dei percorsi di Lettura Popolare della Bibbia, che stiamo proponendo da qualche anno, consiste nell’aiutare le comunità cristiane e i circoli biblici, ad avere uno strumento metodologico in grado di leggere la Parola di Dio, non come un documento del passato, ma come luce che illumina la realtà presente. Vi aspettiamo.



mercoledì 5 aprile 2017

CHIAMATI ALLA SPERANZA



IN CAMMINO CON GEREMIA

(GER 18, 1-10)
Riflessione di don Matteo Mioni

Sintesi: Paolo Cugini

Geremia c’invita a riflettere sulla vocazione alla speranza. Geremia è chiamato ad aprire il cuore del popolo alla speranza.
L’immagine del Vasaio: è nella bottega del vasaio che Geremia ascolta la Parola di Dio.

In questi termini: mi è stata rivolta la Parola attraverso un gesto, un atteggiamento. Riconoscere che dentro ciò che vediamo Dio ci parla. Linguaggio della parola e dei gesti. L’insegnamento di Dio è quello di chi mostra qualcosa d’importante. Nel Tempio Gesù si mise a sedere ed indicò ai discepoli quello che stava facendo una povera vedova. Gesù insegna spesso facendo vedere. Possiamo essere maestri facendo vedere qualcosa.
Geremia percepisce il linguaggio di Dio nelle opere del vasaio. Per essere gente di speranza dobbiamo essere dei contemplativi, che vedono come Dio sta dentro alle situazioni che vive, e si accorge come il cielo è venuto ad abitare sulla terra.

Che cosa contempla Geremia? Un Dio che lavora, che si sporca le mani con l’uomo, che dedica tanto tempo all’uomo. Il Vasaio impasta la creta, la modella, riprova. È una scena meravigliosa. Dio non dice di buttare via, ma riprova. Dio prova con l’uomo e riprova all’infinito. Dio ci prova. È bello avere un Dio che prova, no va sul sicuro. Con l’uomo Dio non può che provarci con pazienza, misericordia e pietà. Dio è il primo che vive nei confronti dell’uomo la speranza.
Quella del vasaio un’immagine che è sorgente inesauribile di speranza. Non è un segno di debolezza, ma della vera onnipotenza: un amore che non si ferma nemmeno dinanzi ai fallimenti della sua creatura. Quando vediamo che Dio con noi ha sempre voglia di riprovarci di nuovo, siam entrati entro il cammino della speranza di Dio, della sua fedeltà e misericordia. Non c’è nulla che ci blocca come la persona che ci dà una scadenza, e non ci dà la libertà di sbagliare. Possiamo gioire perché noi siamo suoi, gregge del suo pascolo: è questo il primo esito della speranza: la gioia di sentirci suoi vasi, la gioia di appartenere alla sua libertà.

Capacità del contemplativo: sa vedere dove nasce la speranza. È un grande dono. All’uomo non conviene resistere a Dio, ma lasciarci plasmare, lasciarci mettere le mani addosso. L’amore che ci offre ci costringe a cambiare.
Gioia di appartenere alle sue mani e la consapevolezza del potere che abbiamo di resistere al suo potere.
v. 5: doppia immagine. Dobbiamo accettare di litigare con quello che la Parola di Dio ci dice. Invito alla conversione.
Altro testo che invita alla vocazione del contemplativo è l’immagine del mandorlo. Cosa vediamo? Vedere nel ramo di mandorlo. Dio vigila sulla sua Parola. È il primo Dio che vigila sulla sua Parola. Colui che vigila è il primo che si accorge. La speranza fiorisce dove vedo i segni di Dio. Che rami di mandorlo siamo? Come siamo rami di mandorlo? Dov’è la nostra vocazione alla speranza in questo tempo?

Dio ci aiuta a riconoscere la speranza anche dove non ci aspetteremmo. Anche i rovi umani hanno la dignità della fioritura. Anche là dove vediamo solo un rovo, agli occhi del contemplativo può vedere la fioritura. Saper vedere la fioritura non solo del mandorlo, ma anche dei rovi. Dio attende i frutti anche dai rovi. La fedeltà di Dio su di noi è motivo di speranza.

Canestro dei fichi. Ger 24. Un cesto con dei fichi buoni e cattivi. È un’immagine che ci apre al giudizio universale. Dio non ha voglia di buttare i fichi cattivi. Dio ha voglia di trasformare i fichi cattivi in fichi nuovi. Nella natura è impossibile, ma per Dio nulla è impossibile. Nella prospettiva di Dio non dobbiamo vincere contro i cattivi, ma fare in modo che ciò che è cattivo diventi buono. Speranza di Dio: che la zizzania diventi grano buono. Chiamati a “sprecare” speranza per quei rovi umani che diventino qualcosa di bello. Siamo chiamati a diventare comunità della speranza, comunità che hanno il coraggio di osare, di non aver paura di amare troppo. È questa la vocazione alla speranza, che è anche l’itinerario di Geremia. Da vero uomo della Parola ha attraversato la passione, la persecuzione, le tentazioni e poi è diventato annunciatore di speranza, profeta, evangelizzatore.

Ger 31,31-34: La nuova alleanza. Una legge scritta nel cuore. Il profeta di sventura è diventato il profeta della consolazione. Questa è un’alleanza per sempre. Intimità che cerca universalismo. Sono le coordinate della nuova alleanza.