venerdì 16 agosto 2019

CENA DEL SIGNORE E CARITA’






Relatore: Enzo Bianchi
Sintesi: Paolo Cugini


L’ospitalità va messa a fuoco in due direzioni: i poveri e i peccatori. Padre Pedro Arrupe: Se nel mondo esiste la povertà, la fame, allora la nostra celebrazione dell’eucarestia è incompleta. Nell’eucarestia riceviamo il Cristo che ha fame della fame del mondo.

Questa osservazione è molto importante per noi oggi. Su questo punto si gioca l’autenticità della Chiesa e della nostra fede. L’Assemblea dei credenti si è definita come assemblea incontro con il Signore, che ha la capacità di guardare ai fratelli e alle sorelle. Dt 26,1-5.10-11: professione di fede del credente ebreo.  Questo brano è la professione di fede dell’israelita entrato nella terra. Nel momento della presentazione dei doni al Signore, subito il comando è: tu ti rallegrerai con quelli che non hanno parte alla terra. Ti rallegrerai con il levita, lo straniero e il povero. Nell’atto di culto c’è subito l’esigenza di condivisione, di ospitalità. Incontro con Dio, confessione di fede e condivisione dei beni. Questo pensiero è in linea con il pensiero profetico: cfr. Amos, Isaia, Geremia, Michea. Il culto può rischiare di essere vuoto, l’assemblea può rischiare di non essere in alleanza con Dio.

All’interno della Chiesa c’è stato un cambio profondo riguardo al culto. Rapporto tra sacrificio, culto e assemblea liturgica. La Legge prescrive i sacrifici. Il sacrificio è presente in tutte le culture e i popoli. Il sacrificio esprime il desidero di entrare in contatto con la divinità espiando il peccato, offrendo qualcosa. Nell’epoca giudaica il sacrifico di espiazione era il più significativo. Il sacrificio esprime la riparazione del peccato per tornare alla comunione con Dio. All’interno delle religioni si offre la possibilità di tornare in comunione con Dio attraverso il sacrificio di un animale. Il meccanismo è quello di sostituire l’animale con l’uomo. I sacrifici sono fatti con lo sgozzamento dell’animale. La Bibbia testimonia questo tipo di sacrifici. Noè dopo il diluvio fa un grande sacrificio, ma anche Abramo e i patriarchi lo fanno. La Legge ha presente un’economia sacrificale. Tempio, sacerdoti e la vittima: sono i tre elementi del sacrificio.

I profeti, da un punto di vista storico sono più antichi della Torah. Ci sono due correnti all’interno del cammino d’Israele: una profetica e una sacerdotale. La corrente profetica è sempre stata critica con quella sacerdotale. La storia d’Israele è complessa. L’esperienza di Babilonia è stata molto profonda, perché non c’è più il tempio, i sacerdoti, i sacrifici. Paradossalmente, questo periodo dell’esilio ha rappresentato una purificazione della fede d’Israele. Qui hanno capito che la vita di fede non può essere esaurita dai sacrifici e dal tempio. La diaspora è stata una condizione assoluta e nuova. Troviamo che, a partire dell’esperienza della profanazione del tempio nel II sec a.C., ci si è chiesti: quegli ebrei credenti in Dio possono vivere senza i sacrifici, senza il tempio e senza i sacerdoti?

Lentamente affiora una nuova concezione del rapporto con Dio. Giuditta, Daniele esprimono questa novità. Da un lato, si comincia intravedere la possibilità di una liturgia senza tempio e sacerdoti. Nel Targum (trazione in aramaico al tempo di Gesù) si dice in Malachia: non mi compiaccio di voi, non accetto l’offerta dalle vostre mani. Malachia è prima del giudaismo e intravede un tempo in cui Dio non gradisce il sacrifico fatto a Gerusalemme. Il targum traduceva: e la vostra preghiera davanti a me sarà una offerta pura perché grande è il mio nome su tutte le genti. Ormai l’offerta pura è la preghiera, e non un’oblazione. Sempre di più echeggiano le parole dei profeti: ascoltare la parola di Dio vale più dei sacrifici; voglio misericordia e non sacrifici. Ormai si parla anche di sacrifico di lode. Sparisce il sacrifico con la vittima. Tutto questo è molto importante. Al tempo di Gesù (Tb 1) acquistano valore di sacrificio le opere di misericordia. Siracide: osservare la legge equivale ad un sacrificio di lode. Il sacrifico è la misericordia verso i fratelli. Ecco il mutamento. Nel giudaismo post-esilico il linguaggio cultuale cambia.


Così comprendiamo nel cristianesimo che il culto, quale mediazione di salvezza, viene squalificato a servizio dell’amore fraterno. Gesù non ha mai fatto sacrifici cultuali. Nella lettera agli Ebrei Gesù diventa sommo sacerdote di un sacerdozio esclusivo: Eb 7,24 è il sacerdozio secondo Melchisedek. Non è il sacerdozio di Aronne.
 Il sacerdozio di Gesù è un sacerdozio che non porta come sacrifici le vittime. Il sacerdote è sempre più separato dagli uomini nel sacerdozio ebraico. È il movimento contrario a quello cristiano operato da Gesù, che è diventato colui che si è fatto peccatore per essere in comunione con noi, non di separazione.

 Il movimento di Gesù che Paolo fa notare in Filippesi 2,7: Gesù si umiliò, prese la forma di uomo, di schiavo sino alla morte. La vita di Gesù è una continua discesa per raggiungere i peccatori. È la santità di Gesù che sana e non i sacrifici. “Tu non hai voluto né sacrifici né offerte”. Il sacerdozio di Cristo abolisce per sempre il culto sacrificale. Gesù nella sua stessa persona ha offerto un culto esistenziale e non rituale. Gesù ha abolito il sacerdozio di Aronne e tutta l’economia dei sacrifici, ha abolito l’economia del tempio. I Vangeli dicono che con la morte di Gesù il velo del tempio viene strappato dall’alto in basso, perché è Gesù il tempio di Dio. Ormai il culto dei cristiani è offrire le nostre vite in sacrificio (Rom 12,1).
All’interno della vita cristiana è l’esistenza personale che dev’essere offerta a Dio, compiendo la volontà del Padre, che è una volontà di amore e di giustizia. La volontà cristiana è sempre seconda rispetto al Vangelo. Siamo cristiani non perché viviamo la liturgia come rito, ma perché ci sforziamo di vivere il Vangelo. Nelle altre religioni basta compiere dei riti: nel cristianesimo no. La ritualità cristiana è seconda rispetto all’esistenza plasmata dal Vangelo. L’eucarestia non basta a sé stessa, la carità sì.


Dobbiamo domandarci se la nostra eucarestia si ferma al rito o ci spinge a vivere il Vangelo. Il sacramento dell’altare è il sacramento del fratello e della sorella (San Giovanni Crisostomo). La patologia dell’eucarestia è presente già all’inizio della Chiesa. 1 Cor 11: Paolo ha trasmesso alla Chiesa di Corinto ciò che ha ricevuto, dei gesti e delle parole. Spezzare il pane: è questo il gesto. Questo gesto spiega profeticamente il gesto della croce: una vita spezzata per amore. Paolo deve intervenire e dire: fratelli voglio che voi lo sappiate: quando vi radunate non mangiate più la cena del Signore. Cosa succedeva a Corinto? Questi cristiani non avevano una prassi di condivisione e lo spezzare il pane diventava un rito senza una ricaduta nella vita della comunità. Spezzare il pane è un’espressione biblica che si trova in Isaia che significa condividere il pane con i poveri, e non il semplice gesto. Frazione del pane dice proprio questo, un gesto che deve diventare una realtà nella comunità. A Corinto sedevano cristiani abbienti e poveri e, nella celebrazione della cena del Signore, un unico pane era spezzato, ma quella celebrazione aveva assunto una patologia, perché i cristiani non condividevano i beni. La cena del Signore era diventato un pasto individualista, egoista: uno ha sete e l’altro è ebbro.



La cena del Signore rischia di diventare non eucarestia, ma ostentazione della disuguaglianza. Paolo in 1 Cor 10: un solo pane un solo corpo, manifesta il legame tra eucarestia e condivisione. È dalla qualità sacramentale della cena che deve scaturire l’amore tra i cristiani. Chi mangia e beve senza discernere il corpo del Signore mangia la propria condanna. Paolo denuncia la comunità che non sa più discernere che la comunità è il corpo e il sangue di Cristo. Paolo stigmatizza il non riconoscimento della comunione della Chiesa. Il vero problema è riconoscere il Cristo nei poveri con i quali devo condividere e rompere i pani. Se non c’è questo discernimento, allora si mangia e beve la propria condanna.

Qual è, allora, il nostro atteggiamento concreto quando partecipiamo alla cena del Signore nei confronti della comunità, nel confronto dei poveri? Cfr. Mt 25,32. Questa teologia di Paolo sull’assemblea eucaristica è coerente con tutta la sua predicazione su Gesù che da ricco che era si è fatto povero.

Questo è il mio corpo che è dato per voi (in sacrificio per voi è solo in italiano). È una traduzione – quella italiana - di accumulo che viene da una teologia sacrificale. L’etica di condivisione Paolo la indica come necessaria alla comunità cristiana. Paolo chiama liturgia, la colletta che organizza per i poveri di Gerusalemme.

L’assemblea eucaristica deve avere questa apertura verso i poveri. L’insistenza di papa Francesco sul tema dei poveri e dell’accoglienza agli stranierei è coerente con il Vangelo e con la celebrazione della cena del Signore. Se la liturgia eucaristica non accresce la nostra capacità di carità è sterile.

ASSEMBLEE SINODALI E ACCOGLIENTI


   






Relatore: Enzo Bianchi
Sintesi: Paolo Cugini

La liturgia è eloquenza della comunità cristiana. Non si può dire che la crisi della liturgia ha causato la crisi della vita ecclesiale: le due cose vanno insieme. Occorre riflettere sull’assemblea cristiana, che è la vita cristiana che diventa soggetto di comunione nello spezzare il pane. Leggendo le problematiche dell’assemblea possiamo interrogarci sul futuro della liturgia.

Tentazioni: clericalizzazione del laicato, laicizzazione del clero. L’assemblea è il luogo dell’Altro e dell’altro, il luogo dell’esperienza di Dio, dell’alterità, dell’incontro con il suo mistero; ma anche il luogo dell’esperienza dell’incontro con le persone, di chi ci è accanto. L’assemblea cristiana va vista nella sua realtà di assemblea umana, raduna uomini e donne e dev’essere capace di vivere la fraternità e la sororità. Se un’assemblea liturgica non è capace di esprimere ciò, allora non è abilitata ad essere assemblea cristiana. Il Signore non vuole solo un insieme di riti religiosi, o un’auto celebrazione intimistica o collettiva. Nell’assemblea domenicale va cercato lo stile della fraternità e della comunione. La giusta posizione di uomini e donne che non si riconoscono, che nell’assemblea liturgica non s’incontrano, rimanendo estranei gli uni agli altri, causa lo svuotamento dei gesti, che si vorrebbero di accoglienza reciproca. Sono ferite inferte all’assemblea eucaristica.

La liturgia eucaristica deve permettere il costituirsi della fraternità e della sororità. Convenire nello stesso luogo, pregare insieme, dev’essere un esercizio di fraternità, nel riconoscimento dell’umanità dei gesti. Quando manca lo spessore umano, l’assemblea fa fatica ad essere tale. È il dramma che vive la comunità alla messa domenicale: manca spesso l’umanità. C’è il rito senza l’umanità, il coinvolgimento attivo delle persone presenti che restano estranee le une alle altre. Così non si costruisce la Chiesa, che non si costruisce con dei riti. C’è un problema più radicale del linguaggio liturgico, che è la qualità umana dell’assemblea, delle persone che si trovano attorno alla mensa eucaristica. Se tutto è anonimo, se non c’è condivisione e corresponsabilità nella liturgia, come si fa a parlare di assemblea?



Diamo troppo per scontato che l’assemblea domenicale sia cristiana anche quando manca lo spessore dell’umanità per viverla. C’è gente solitaria in chiesa, giustapposta, ad assistere la messa celebrata dal sacerdote, in un consumo spirituale privato. Se la liturgia non s’incarna nel vissuto dei partecipanti, che cosa significa? Che cosa servono le posture ieratiche, le manifestazioni imperiali. I pontificali? Gesù non aveva nessuna preoccupazione di abiti liturgici. Anche le prime comunità non avevano queste preoccupazioni: c’era molta cura delle relazioni umane. I riti sono necessari all’uomo, ma sono strumentali all’interno del cristianesimo. I iriti non salvano: lo dicevano i profeti. La qualità cristiana di un’assemblea è data dalla conformità all’umanità di Gesù. La liturgia saprà parlare all’uomo e alla donna di oggi se assomiglia all’umanità di Gesù.

È decisivo che noi cristiani riusciamo ad avere una fede cristiana e non semplicemente appartenere ad una religione. La nostra fede cristiana dice che Dio si è fatto carne, terra, uomo. La carne è molto più del corpo: è il respiro, i dolori, le fatiche, tutto ciò che viviamo è la nostra carne. Il corpo è l’umanità. Il vero attentato che c’è stato nella storia cristiana è nell’incarnazione, nel farsi carne di Dio. Il grande problema è riconoscere Gesù nella carne. Dio si è fatto carne, si è fatto la nostra umanità. Nella liturgia dobbiamo trovare l’umanità di Gesù nella nostra. Non è vero che tutto ciò che è religioso è spirituale. Dobbiamo guardare la terra e non il cielo, perché Dio si è fatto carne, si è fatto Gesù di Nazareth. È la carne che è salita in cielo, cioè tutta la vita dell’uomo.

Ippolito di Roma: il vero mistero cristiano è che il verbo si è fatto uomo come noi uomini. Se non fosse così invano ci avrebbe chiesto di imitarlo.  

Tertulliano: caro cardo salutis (la carne è il cardine della salvezza).

Dobbiamo abbandonare ogni spiritualismo. Cercare nella carne di Gesù la resurrezione che vince la morte. La nostra fede cristiana deve vivere la vita umana di Gesù. Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi più umano.

Nella liturgia dobbiamo smettere di essere sedotti dal divino, dal potere, ma dobbiamo tornare al Vangelo, che narra di Dio fatto uomo, terrestre, fatto carne. Ridare qualità umana alle nostre assemblee: è il compito più urgente.

In Francia, Belgio, Germania: per rifare l’assemblea cristiana occorre rifare il contesto dell’assemblea. Accanto alla chiesa sempre c’è una sala. Prima di andare in assemblea, si ritrovano in una sala con il prete e poi insieme si va alla messa. Alla fine ci si ritrova per un caffè, per un momento di fraternità: è una disposizione delle conferenze episcopali locali. Diventa un’assemblea in cui non consumiamo qualcosa di religioso, ma si lavora per fare comunità. 



Un’assemblea liturgica dev’essere sinodale. Papa Francesco sta cercando di avviare processi che portino alla sinodalità, che è il termine chiave del ministero di Papa Francesco. O ci sarà una Chiesa sinodale, o non ci sarà più la Chiesa. Sinodo significa camminare insieme. Quando il papa parla di sinodalità non sta parlando dell’assetto istituzionale, di un particolare sinodo. Quello che chiede papa Francesco è la sinodalità come stile, facendo camminare tutto il popolo di Dio con i suoi pastori, in una corresponsabilità che sia reale, concreta, È un compito che richiede tempo, ma soprattutto una conversione profonda nel vivere la Chiesa. È possibile pensare una Chiesa sinodale senza un’assemblea liturgica che non sia sinodale? Il legame tra sinodo e liturgia è fondamentale. Nella Chiesa antica il sinodo era sempre un atto liturgico. Ratzinger: il Concilio tende all’unità che viene dalla parola di Dio. Il sinodo è sempre riferito all’eucarestia. Un popolo di Dio che cammina sinodalmente, deve corrispondere ad un’assemblea eucaristica sinodale. La liturgia eucaristica deve avere come soggetto l’assemblea celebrante e non il presbitero, che semplicemente presiede. Dossetti: non solo comunità, ma comunità tutta gravitante nel suo porsi in atto e manifestarsi nell’assemblea.

L’ecclesia e la koinonia devono avere una manifestazione eucaristica. L’assemblea deve attuare un ascolto sinodale. Oggi abbiamo assemblee fervorose, ma lontane dalla partecipazione in atto come voleva il Concilio. Ci vorrà audacia e creatività, ma il cammino è ineludibile. Siamo ancora lontani da assemblee sinodali.

Altra urgenza. Oggi dev’essere prevista dalla chiesa normata, dalla Chiesa a chi è riconosciuto portatore del dono della parola, di esprimere la qualità profetica del popolo di Dio con interventi nell’omelia. All’estero si fa. Dare la parola ai laici nell’omelia. Poi ci sono gli eccessi quando c’è la clericalizzazione del laicato. Il vero problema è che ci sia la possibilità di un’omelia partecipata. La comunità di Dossetti e a Bose si è sempre praticato la possibilità di esprimersi sul Vangelo. Non si può sentire sempre la stessa persona per anni e anni. Sarebbe bello sentire la buona novella al femminile! Nella Chiesa ci sono delle patologie che bloccano il fermento liturgico del Concilio. Il problema è come esprimere la sinodalità nella liturgia. La sinodalità deve diventare uno stile liturgico.

Un’assemblea liturgica ospitale. C’è urgenza di questo. La tavola del Signore: 1 Cor 10,21. La tavola è la forma primaria dell’eucarestia, e chiede la commensalità tra fratelli e sorelle attorno alla tavola. Atti 2,42s: l’eucarestia è un sedersi alla tavola della cena del Signore. I cristiani battezzati senza distinzione di sesso, etnia, livello culturale e sociale sono gli invitati alla cena del Signore. La dimensione della condivisione è celebrazione dell’alleanza del Signore con la sua Chiesa, come partecipazione del corpo unico. La tavola del Signore è la tavola dell’incontro di Gesù e tutti gli uomini e le donne. Gesù ha voluto sedere alla tavola dei peccatori, ha condiviso la tavola con gli esclusi. Quando pensiamo alla tavola del Signore dobbiamo pensare alla tavola della misericordia. Rischio di essere come i farisei che si scandalizzavano di Gesù. Le nostre liturgie sono capaci di accogliere cristiani battezzati di confessione diversa dalla nostra?

La nostra assemblea eucaristica deve diventare tavola ospitale verso i poveri e verso i peccatori.

giovedì 15 agosto 2019

LITURGIA E CHIESA. IL TRADIZIONALISMO DI RITORNO





FRATERNITÀ DI BOSE


15 AGOSTO 2019
Relatore: Enzo Bianchi
Sintesi: Paolo Cugini

Oggi viviamo un trapasso epocale. Siamo in un mondo che non è più quello in cui siamo nati. Il mutamento è talmente grande che non sappiamo a che esito andiamo incontro. Cosa sarà la Chiesa stessa tra qualche decennio? Non saprei dirlo. Siamo in una fase di grande trapasso non solo culturale, ma anche di fede, di ciò che crediamo. Sono cambiato le immagini dello stesso Dio. Noi oggi siamo smarriti. Questo mutamento ci fa prendere coscienza di tante cose. Quella che chiamiamo secolarizzazione, in realtà non è qualcosa che è avvenuta come prevedevamo, ma è avvenuta in modo diverso. La cristianità è finita: siamo in diaspora. Siamo in una condizione di minoranza in una società secolarizzata, in cui il problema di Dio è posto in modo indifferente. Dio sembra una parola senza significato. Dio viene associato alla violenza integralismo, intolleranza. uella che è iniziatacome rivoluzione antropologica

Oggi più che comunità cristiane, c’è una diaspora. Nelle città del nord Italia la frequenza domenicale all’eucarestia è al 2%. Che ne sarà? In Piemonte hanno chiuso tutti i seminari diocesani. Su 15 diocesi ci sono 24 seminaristi. Molte diocesi non hanno nessuno. Il Piemonte indica una situazione che anticipa di 10/15 anni ciò che avviene da altre parti. La situazione Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria è disastrosa. Tante comunità non ha più il pastore. Il problema ci fa porre delle domande.

Se questo è l’orizzonte della vita ecclesiale, sul settore giovani tutto diventa più difficile. Si fa faticare a dire che sono ancora cristiani. Sembrano non abbiano interessi sulla religione. I giovani si chiedono: cosa mi serve essere cristiano? Il problema è la risposta. Che cosa aggiunge il cristianesimo alla vita oggi?
Diventa molto incerto il domani della Chiesa, della fede. Dove la liturgia non ha dato segni di crisi, la comunità cristiana si è rarefatta. Sono convinto che la liturgia è la Chiesa, perché non è solo preghiera, ma è azione comune di una comunità cristiana.

Se si passa da questo quadro al tema della liturgia si resta sorpresi dalle domande alle quali non si sa dare delle risposte precise. La liturgia dopo la riforma del Concilio Vaticano II ha vissuta una stagione di fecondità e poi di resistenza da parte dei tradizionalisti. La liturgia è entrata in un cono d’ombra. La vita della Chiesa oggi non si sente assolutamente toccata dai problemi della liturgia, perché non interessa più a nessuno. I temi della comunità cristiana sono temi che assorbono temi etico e sociali, non liturgici.

Tutto questo diventa visibile in molte maniere. Ci sono sempre meno libri di liturgia. Benedetto XVI ha liberalizzato il vecchio rito, quello di Pio V e, il prete, può celebrarla anche da solo. Molti che non aspettavano altro di riprendere un rito che fosse fedele alla tradizione secondo loro, hanno ripreso il vecchio rito. Sono nate associazioni di preti con questo rito. Come un fiume carsico la contestazione tradizionalista è continuata e oggi ci sono più di 800 messe con il vecchio rito. In Francia il 45% dei preti ordinati sono legati ad associazioni che celebrano con il vecchio rito tutti i sacramenti. Tutto questo minaccia l’unità della Chiesa. Proprio sull'eucarestia, che è il sacramento dell’unità, siamo divisi. In Italia sta crescendo questa chiesa parallela nella misura in cui denigrano la liturgia del Vaticano II. Oggi sulla liturgia c’è molta paura a fare qualcosa di nuovo. I vescovi sono paralizzati. Tutto dev’essere fatto con obbedienza rubricista. Tutto questo sta paralizzando la Chiesa.

Papa Francesco sulla liturgia non dice nulla. Ha detto che la riforma del Vaticano II è definitiva. Il cardinal Sarah, che è il prefetto della congregazione del culto, è critico con il Vaticano II. Il nuovo messale che uscirà prossimamente non prevede alcuna modifica, se non qualche piccola cosa.

Siamo in una situazione di grande difficoltà. Ci può essere una Chiesa in uscita e una liturgia in ritirata? Se non riusciamo a rendere dinamica la liturgia rischiamo di non nutrire la fede del credente di oggi. C’è una grande disaffezione alla messa da parte dei giovani. Ci sarebbe bisogno di un movimento liturgico nuovo.

Rapporto Chiesa e liturgia. Non è facile esprimerlo a parole. I due momenti sono collegati tra di loro. Tutta la grande Tradizione lo attesta. La liturgia è la comunità. Celebrando la liturgia la Chiesa manifesta ciò che è. La liturgia cristiana è partecipazione al mistero pasquale di Cristo. Jean Corbon, Liturgia alla sorgente: la liturgia genera la vita ecclesiale, la liturgia è il mistero. Non ci può essere riforma della Chiesa senza una riforma nella liturgia. Oggi occorre ripensare la realtà dalla quale i credenti restano assenti: l’assemblea liturgica.

mercoledì 14 agosto 2019

LE MENSE DELLA LITURGIA DI GESÙ





FRATERNITÀ DI BOSE

 LA LITURGIA È UNA CONTINUAZIONE DEI VANGELI
14 AGOSTO 2019
Relatore: Goffredo Boselli
Sintesi: Paolo Cugini


L’abitudine di Gesù di sedersi alla tavola dei peccatori è anche la tavola della Chiesa. Dall’alba del cristianesimo fino ad oggi l’elemento fondamentale di noi cristiani è un pasto a tavola per fare memoria di Lui. I racconti della risurrezione attestano che la condivisione della tavola è uno dei gesti che Gesù continua a fare. Aver mangiato insieme al risorto è elemento essenziale nella testimonianza degli Apostoli. R. Williams: quando il Cristo risorto mangia con i discepoli è un modo per dire che ciò che Gesù ha fatto durante la sua vita terrena, continuerà anche dopo. Come Gesù ha plasmato la sua comunità continua nell’oggi della Chiesa, sedendo alla tavola del Signore.
Atti 2, 42s: i cristiani si riconoscono anche per la loro perseveranza nel pasto insieme. Relazione conviviale e gioiosa: è la Chiesa.

I vangeli raccontano la convivialità di Gesù con i peccatori. Il sedersi a tavola con i peccatori è il luogo in cui Gesù rivela il suo progetto di umanità. Nella vita di Gesù, come nel tempo della Chiesa, non si dà mai una tavola del Signore che non sia anche tavola di peccatori.

Quattro tavole.

1.        La tavola Dei peccatori. Nel ministero pubblico di Gesù la tavola è un luogo epifanico. Solidarietà con le folle anonime. Gesù si mette in fila con i peccatori per farsi battezzare. Gesù è crocefisso con due briganti: Is 53: è stato annoverato tra gli empi. Gesù si lascia avvicinare e toccare dai peccatori. Questa situazione non è mai disgiunta dall’autorità di Gesù. La tradizione sinottica narra Gesù che si fa commensale con i peccatori, scandalizzando i farisei e gli scribi. Gesù siede alla tavola dei peccatori dopo la chiamata di Matteo. Mt 13,9: Gesù chiama Matteo a seguirlo e Matteo lo invita alla sua tavola. Chiamata e convivialità, vocazione e comunione, condivisione. Matteo invita anche gli esattori: affinché anche loro incontrassero Gesù. Questo gesto scatena mormorazioni. Accade anche a casa di Simone. Sono i commensali a mormorare. Anche da Matteo i farisei mormorano. I farisei pensano di santificarsi separandosi dai peccatori, dimenticando le figure profetiche. La tavola rappresentava per i farisei un elemento fondamentale per osservare le norme relative alla purezza rituale. Da qui la domanda che i farisei rivolgono ai discepoli: come mai il vostro maestro mangia con i peccatori? Gesù risponde: io sono venuto… “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”.

Gesù ha coscienza della propria missione. La mensa esprime le relazioni umane più ampie: segno e volontà d’incontro, di conoscenza, dell’alleanza di Dio con il suo popolo. La tavola è il segno più profondo di condivisione
. La tavola per Cromazio di Aquileia è segno della Chiesa. Matteo è l’unico autore cristiano che cita Os 6,6: “misericordia io voglio e non il sacrificio”. Gesù identifica la sua missione con la profezia di Osea. Gesù sta alla tavola dei peccatori perché questa è la volontà di Dio. Gesù a questo punto non si limita a citare Osea, ma lo introduce: andate ad imparare cosa significa… Gesù invita i farisei a confrontare il suo agire con i versetti di Osea. Quella di Gesù assomiglia ad un’altra formula: uscite dalla casa di studio e imparate dalla vita. La realtà è superiore all’idea (Papa Francesco). Matteo si rivolge direttamente ai farisei e quindi è come se dicesse: perché vi scandalizzate se conoscete la Parola?

 Preferisco la compassione ai riti. Non sono venuto a chiamare la gente per bene, ma i marginali” (è una traduzione di un’esegeta francese). Gesù siede alla tavola dei marginali e così rifiuta il potere di rifiutare, di escludere. La tavola è espressione dell’incarnazione: Dio con noi, Dio è seduto a tavola con noi. Con intelligenza spirituale si può discernere il significato che Gesù dava al suo mangiare con i peccatori, la sua offerta di amicizia, come parabola non predicata, ma praticata. Queste tavole sono il segno che il Regno di Dio è in mezzo a noi. La cena di Gesù è santità contagiosa. Gesù siede alla tavola dei peccatori perché sa che l’amore misericordioso di Dio è più contagioso del peccato.



2.      La tavola dell’ultima cena. È una tavola che ricapitola il significato dello stare a tavola di Gesù e annuncio dello stare a tavola pasquale. Per questo è al tempo stesso l’ultima, ma anche la prima. Quell’ultima tavola è stata annuncio della disgregazione imminente della comunità. Gesù annuncia ai suoi discepoli che il suo traditore è all’interno della comunità. Giuda con la non verità delle sue parole fa della tavola dell’ultima cena il luogo della menzogna. Il tradimento dell’amico avviene durante l’ultima cena.

Massimo Recalcati: la notte del tradimento; si chiede perché Giuda tradisce nell’ultima cena? L’ultima cena è ultima perché qualcuno ha tradito. Il tradimento avviene nell’intimità del convivio, mentre si spezza il pane. In quella tavola c’è anche Pietro che dice durante la cena: darò la mia vita per te. Pietro rinnegherà Gesù di fronte ad una giovane serva. A quella tavola sono seduti anche gli altri discepoli che poi l’abbandonarono. Nel momento in cui quella comunità stava andando a pezzi, ha assunto il tradimento, l’abbandono, il rinnegamento. A Gesù non è stato risparmiato il fatto che compagni di vita negano di conoscerlo, per paura, codardia. È la cosa più drammatica. È questa la prima eucarestia della Chiesa, che è sempre perdono. Nel Vangelo di Matteo Gesù dice: tu l’hai detto (non fa finta di niente).  Ai discepoli dice che per tutti voi sarò motivo di scandalo. A Pietro dice: proprio tu mi rinnegherai tre volte. Nonostante questo, dona a loro i segni del suo corpo e del suo angue. Consegna la sua vita nelle mani di coloro che indirettamente lo consegnano nelle mani di coloro che lo avrebbero ucciso. Gesù continua a mettersi a tavola con i peccatori. Quell’ultima tavola mostra la verità delle parole: non sono venuto a salvare i giusti, ma i peccatori. Gesù perdona l’imperdonabile. Gesù rimodella la situazione tragica, evangelizzandola.

 Nel gesto del dare sono superati tutti i futuri tradimenti e contraddizioni. La tavola dell’ultima cena è tavola della misericordia, banchetto che celebra la gloria di chi ama sino alla fine. Giovanni 13,28 chiama i discepoli commensali. Non ci deve sorprendere che il giorno della risurrezione Gesù siede a tavola con i suoi discepoli. Restaurazione di una comunione infranta. La tavola del risorto è di riconciliazione e perdono e non l’ora del rimprovero e del giudizio.




3.       La tavola eucaristica. Il magistero che Gesù rivolge dalla sua tavola rimanda a noi credenti di oggi al magistero della tavola eucaristica. Efficacia purificante dell’eucarestia. Chi riceve il pane eucaristico non morrà della morte dei peccatori. L’eucarestia è remissione dei peccati.
J. Ratzinger diceva da giovane nel ’70 nel libro Idee fondamentali del rinnovamento eucaristico: la comunione non è un premio per chi è virtuoso, ma è invece il pane del pellegrino che Dio ci porge dentro la nostra debolezza.

Nel 2013 Papa Francesco scrive: l’Eucarestia non è un premio per i perfetti ma un alimento per i deboli. La chiesa non è una dogana. Papa Francesco ha più volte ripreso questo discorso. L’eucarestia è il perdono. La coscienza della propria miseria porta in se stessa il desiderio di perdono, che Gesù ha visto in tanti peccatori che ha incontrato a tavola e ha riconosciuto nella peccatrice.
 Kierkegaard sperava he le parole: “colui a cui si perdona poco, ama poco” fossero scritte dentro la chiesa.

4.      La tavola del cristianesimo che ci attende. Sin dalle sue origini neotestamentarie la tavola è chiamata tavola del Signore. Ciò significa che non è la nostra tavola: è il Signore che invita, non noi che siamo suoi ospiti e invitati. Per questo, accostarsi alla tavola eucaristica significa che saremo sempre degli invitati, tutti a pari titolo. Anche nell’oggi della Chiesa è il Signore che decide chi deve sedersi a tavola. Non siamo noi e i nostri criteri a stabilire chi è degno a sedersi alla sua tavola. L’invito è rivolto nel segreto della coscienza del cristiano. Alla tavola del Signore si sono sempre seduti i peccatori e le peccatrici. Questa verità appartiene all’essenza della Chiesa.

 Il cristianesimo che ci attende dovrà essere capace di viere questa verità in modo nuovo e inedito. Dovrà essere un cristianesimo capace di discernere le profonde trasformazioni. Dobbiamo prepararci a riconoscere la diversità dei cammini di fede, capacità di conoscenza dei cuori. Per questo sarà necessario far vivere la fiducia nella vita nelle nostre celebrazioni.

La fede nella vita è il nucleo del messaggio pasquale. Discernimento di appartenenza alla Chiesa e ricezioni a modalità di appartenenze deboli. Per questo, serve un’assemblea liturgica che si riconosca nel Gesù narrato dai vangeli. Questo modo diverso di essere uniti nella celebrazione del mistero va riconosciuto. Capaci di ascolto profondo, e di avere una Parola non rigida, ma condita di sapienza. Gesù quando si sedeva alla tavola aveva questa capacità di ascoltare, esperto delle fragilità umane.

Coniugare il Vangelo con la vita faticosa delle persone. Serve una comunità eucaristica capace di accogliere senza giudicare. Solo una comunità misericordiosa saprà spezzare per tutti il pane del perdono. Alla tavola del Signore incontriamo il Dio padre di tutti. Se non c’è una comunità della misericordia l’eucaristia fa fatica ad esprimersi.

L’UMANITA’ DELLA LITURGIA





FRATERNITÀ DI BOSE

14 AGOSTO 2019
Relatore: Goffredo Boselli
Sintesi: Paolo Cugini

La liturgia è il Vangelo celebrato.

a.      L’umanità di Cristo sorgente dell’umanità della liturgia. Già nel 1945 Bonhoeffer scriveva: “Cristo crea in noi non un tipo di uomo, ma l’uomo”. C’è un cammino di umanizzazione che la vita cristiana deve compiere. Gaudium et Spes: “chiunque segue Cristo, diventa anche lui più uomo”. Sarà nella qualità umana dei singoli credenti si giocherà la credibilità del messaggio cristiano. È la qualità umana del vivere che fa la differenza oggi. L’umanesimo evangelico nella sua profonda complicità con l’umano autentico, rappresenta il presente e soprattutto il futuro del cristianesimo. La comprensione del cammino di fede sembra orientarsi nella direzione che, essere cristiano, significa orientarsi verso Gesù vero Dio e vero Uomo. “Cristo è l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15). Nella su umanità Cristo rende visibile Dio. Ormai Dio senza l’uomo Gesù non solo è impensabile, ma è non credibile. Non si dà confessione della verità di Dio senza l’umanità di Cristo. Pascal diceva che: “non è solo impossibile, ma inutile conoscere Dio senza Gesù Cristo”. Dio non lo conosciamo attraverso idee, ma attraverso l’umanissima vita di Gesù di Nazareth. Gv 14: “Io sono la via Verità e la vita”. Agostino: “presso il Padre è la verità e la vita e non avevamo una via, il Figlio di Dio assumendo la natura dell’uomo si è fatto via. Per questo, cammina attraverso l’umanità di Gesù Cristo e arriverai a Dio”.
 Il particolare modo di entrare in empatia con le persone, la sua capacità d’interpretare i loro desideri: sono caratteristiche dell’umanità di Gesù, che si vede anche nella sete di giustizia. Col. 2,9 “E’ in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità”. Tutta la pienezza: nella piena umanità di Gesù si è manifestata la pienezza della sua divinità. Gesù Cristo è il vero Dio, il vero Dio è Gesù Cristo. È quello che nel quarto Vangelo Gesù ricorda a Filippo: “chi ha visto me ha visto il Padre”, non qualcosa, una traccia, ma il Padre, tutto il Padre. Ciò che c’è da vedere di Dio lo abbiamo visto in Gesù. Qui sta ogni possibile discorso sul senso umano della liturgia. La ricerca di una liturgia più umana non è semplicemente richiamare la dimensione etica della liturgia, né l’ennesima strategia pastorale, ma è di ordine teologico e, pertanto, essenziale se vuole essere liturgia cristiana e non un mero rito religioso come tanti. La nostra liturgia è cristiana se è conforme all’umanità di Gesù.

Maggioni: Gesù è la trasparenza del volto di Dio e non un involucro. Il corpo di Gesù è risorto, asceso al cielo. Il corpo di Gesù adesso abita in Dio. È nella umanità della liturgia che si rivela la divinità di Gesù. Una liturgia più umana rivela la divinità di Gesù. Se il mistero di Dio si è rivelato attraverso l’umanità di Gesù, allo stesso modo la liturgia dev’essere fedele al modo di questa rivelazione. Allora, anche la celebrazione della rivelazione di Dio deve avere la forma del Vangelo. Il modo di celebrare la celebrazione dev’essere conforme al modo in cui Dio si è rivelato in Gesù, nella sua umanità. La liturgia è rivelazione in atto. “Attraverso la liturgia si attua l’opera della nostra redenzione” (orazione). Sono queste idee che hanno guidato la riforma del Concilio Vaticano II, per riportare la liturgia alla sua origine, cioè al Vangelo.
Esempio dell’altare: tavola del Signore (1 Cor 10,21). Gesù parlava la lingua del popolo, e non una lingua sacra. Gesù ha parlato e si faceva capire. Ha celebrato la prima volta l’eucarestia attorno ad una tavola. I primi discepoli nelle loro case spezzavano il pane. Un’umanità quella di Gesù caratterizzata da una convivialità costante. Gesù si sedeva a mensa con tutti. La cena è l’ultima di tante cene con i suoi discepoli. La centralità dell’altare delle nostre chiese, ricorda che la comunità cristiana è una comunità di tavola, perché Gesù l’ha voluta così. Il riferimento di Gesù nell’ultima cena non è il contesto sacrificale, ma domestico, di comunità, una liturgia guidata dal padre di famiglia, in un contesto informale vicino alla vita. Gesù ha voluto per la sua comunità una tavola condivisa in un contesto familiare. Le forme rituali non si devono allontanare dalla vita: altro che sacralità e distanza! Se togliamo dalla liturgia ciò che c’è di autenticamente umano, togliamo allo stesso tempo ciò che c’è di autenticamente divino. Nella liturgia dobbiamo trovare la grammatica della vita.

Ciò vale anche per la lingua della liturgia. Il Vaticano II ha dato la possibilità di accedere alle lingue parlate. Gesù parlava in aramaico, la lingua del suo tempo, grazie alla quale si faceva intendere. Gesù non ha parlato una lingua sacra, ma ha utilizzato espressioni della vita della gente. Gesù non viveva nelle sacrestie o nelle università e utilizzava il vocabolario della vita quotidiana, molto più che quello religioso. “Le folle erano stupite del suo insegnamento”. “Mai un uomo ha parlato così”.  



b   Il compito di una liturgia umana: la vita. Nel 2010 Ratzinger definiva l’evangelizzazione la risposta alla domanda: come vivere? Oggi la domanda che gli uomini e le donne si pongo d’innanzi alla nostra proposta di fede è: credere mi aiuta a vivere? Cosa aggiunge la fede alla mia vita? Il Vangelo cosa apporta di diverso nella mia vita? L’annuncio del Vangelo oggi si giocherà in larga parte sul crinale delle risposte credibili alla domanda: credere mi aiuta a vivere? Il rapporto tra liturgia e vita si presenta in modo nuovo rispetto all’epoca del Concilio. Oggi si declina chiedendo alla celebrazione di essere un luogo vitale, di rigenerare la vita dei singoli credenti. La liturgia come luogo che genera e rigenera il credente alla vita, luogo sorgivo della vita della comunità.
Cardinal Martini: “se nei vangeli si parla poco di liturgia, ciò avviene perché essi sono una liturgia vissuta con Gesù in mezzo ai suoi. Tutto ciò che i vangeli riferiscono di Gesù con la sua gente è un’anticipazione del senso della liturgia”. Martini propone un senso più ampio di liturgia, non riconducibile alla semplice ritualità.
La liturgia come continuazione dei vangeli. I vangeli narrano persone di ogni tipo incontro a Gesù. “Signore, aiutami!”; “Gesù abbi pietà di me!”; “Signore, il mio servo è in casa che soffre”: sono espressioni liturgiche della gente che cercano Gesù. Questa vera e proprio liturgia dei vangeli ci narra di un uomo Gesù, che ascolta le richieste vitali del popolo.  Gesù ha combattuto una battaglia è per la vita e l’ha combattuta sino alla sua stessa morte. Battaglia che vinta ridando fiducia e speranza a tutti coloro che incontrava. Di fronte alla vastità del messaggio cristiano, all’iperattivismo della vita parrocchiale, alla complessità dei nostri riti, della loro ridondanza barocca, impressiona la semplicità della liturgia dei vangeli. Theobald:vita e fede sono intimante legate”. Non si può trasmettere la fede senza trasmettere la fede nella vita.

La celebrazione dei sacramenti della fede è luogo di contatto della vita di Cristo con la vita dell’uomo e della donna oggi. Nei passaggi decisivi della vita unici e definitivi dell’esistenza, là dove la vita è più vita, i sacramenti della Chiesa vi proiettano la luce del Vangelo. Scopo dei sacramenti: significare la vita con la luce del mistero pasquale, per sottrarli alla logica del caso e del destino. Nei sacramenti si rivela tutta l’umanità della liturgia. La pastorale dei sacramenti è l’odierna Galilea delle genti. Dentro alla domanda di sacramenti c’è un senso profondo della vita che va riconosciuto e onorato, c’è una forma germinale di quella fede naturale che ogni essere umano ha della vita. È fede in Dio autore della vita. Solo una liturgia umana sa celebrare la vita umana. Ernesto Balducci: se non capiamo la vita non capiamo Dio.

Trasmissione della vita come compito di una liturgia umana. Può capitare che chi celebra diventi un ostacolo per lo scorrere della vita. L’umanità di chi presiede è importante. Solo gesti e parole colmi di umanità possono essere segno dell’umanità di Gesù. IL sacramento passa dall’umanità in cui è posto. Stile umano e grazia di Dio devono formare un’unità. I Vangeli raccontano degli episodi sorprendenti nei quali quelli che erano introno a Gesù, i suoi discepoli, diventano degli ostacoli tra Gesù e le persone che lo cercano. A volte la vita come compito della liturgia, è contraddetta da chi celebra.




c.      L’umanità sofferente come criterio di verifica dell’umanità della liturgia. La sofferenza è il luogo massimo dell’umanità. Il criterio della verità della liturgia è quella di farsi carico delle sofferenze: abbandono, esclusione, solitudine. Oggi vendiamo la disumanità a regnare il mondo. Umani si diventa. Compito di una liturgia umana è quella di contribuire ad umanizzare. Comunione, carità, accoglienza: la liturgia è risorsa di umanità. Preghiera Eucaristica V: “donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli”. La celebrazione eucaristica è il luogo della fraternità. L’Eucarestia è il più alto magistero di umanità. Non possiamo ricevere in modo innocente il pane di vita, senza condividere il pane per la vita con chi è nel bisogno. La nostra fede eucaristica ci chiama a vivere un’etica eucaristica, che ci porta vivere un’umanità è più profonda nei confronti dei bisognosi. Arrupe: “se in qualche parte del mondo esiste la fame la nostra celebrazione eucaristica è in qualche modo incompleta”. Questo è il senso umano della liturgia. È il Cristo che nella liturgia ci viene incontro con i poveri, i migranti, gli esclusi. L’eucaristia è una protesta contro l’ineguaglianza. L’eucarestia contiene un’utopia. Non è possibile essere umani quando si celebra ed essere disumani quando si esce dalla Chiesa.

martedì 13 agosto 2019

LITURGIA E RICERCA SPIRITUALE OGGI






FRATERNITÁ DI BOSE
13 AGOSTO 2019

Relatore: Goffredo Boselli
Sintesi: Paolo Cugini

Dobbiamo apprendere ad accompagnare le trasformazioni della ricerca della vita interiore anche attraverso le nostre liturgie.

Valerie Le Chevalier, Credenti non praticanti, Qiqaion, Bose 2019: non c’è un modo solo di seguire Gesù. Nei Vangeli ci sono modalità diverse di seguire Gesù.

Il rapporto tra liturgia e ricerca spirituale contemporaneo è un tema sottovalutato in Italia. Cosa vuole dire celebrare da cristiani in una società secolarizzata? È diverso da come si celebrava anteriormente. Si constata una scarsa percezione dello scarto tra liturgia e vita. Il credere in Dio non è scomparso, ma sono mutate le forme del credere. L’evidenza è che la secolarizzazione da anni ha segnato la fine del cattolicesimo per inerzia.

La terra di mezzo del credere è l’immagine formulata da Alessandro Castagnaro. La maggior parte delle persone sembra abitare questo territorio intermedio. L’esistenza di questa terra di mezzo invita a ripensare le categorie di credente e non credente, praticante e non praticante. Credere non è più associato all’idea di certezza. Credere oggi significa piuttosto: “credere di credere” (è il titolo di un libro del filosofo Gianni Vattimo). È una situazione di stallo piuttosto che di incredulità.

Multiformi profili del credere non significano mancanza di fede, ma nemmeno sono riconducibili alla poca fede, ma si approssimano a quello che Paolo dice alla lettera ai Romani: debolezza del credere, il vacillare del credere. Quello maggioritario non è il territorio dell’indifferenza, del disinteresse, o della poca fede, quanto piuttosto di chi vorrebbe credere, di chi si trova all’interno di una dinamica del credere. Chi si trova in questo territorio di mezzo non è disposto ad affermare di non credere. Quello che oggi può scioccare è che il cristianesimo che ci attende è quello di dover accettare che ci sono adulti che non hanno definito appieno la loro identità religiosa.

La domanda da porsi nella riflessione liturgica è: come la liturgia della Chiesa può rispondere alla sfida che questa ricerca spirituale? Le nostre liturgie sono attente a queste domande di senso, oppure continuiamo a celebrare e andare avanti come se il mondo non fosse cambiato?



Quattro possibili metafore:

a.      La liturgia approdo. La ricerca diventa la forma fondamentale della vita spirituale oggi. C’è la figura del credente viandante, pellegrino, nomade. (Il pellegrino è un convertito, ne parla in un libro una sociologa francese). Il credente nomade è il credente disincantato, per il quale i sistemi di credenza tradizionali non sono convincenti e allora compie una sua ricerca. Il credente viandante vive una tensione interiore. Da un lato sente di dover sperimentare nuovi percorsi, personalizzando valori e pratiche, rifondandoli sulla base delle proprie conoscenze ed esperienze. Il loro mondo spirituale è il loro unico tempio. Tuttavia questo credente nomade si trova abitato dal desiderio di trovare riposo in una credenza stabile. Il pellegrinaggio ha senso un punto di arrivo. La liturgia in questa prospettiva è come un porto nel quale attracca il pellegrino. Tempi forti, feste religiose, esperienze di lutto, esigenze per i figli: sono tutto occasioni per una liturgia come porto. L’attracco episodico non è subito riconducibile ad una religione di socializzazione. Risponde ad una sorta di nostalgia dell’origine. È nostalgia della casa dalla quale si è usciti, senza abbandonarla. La liturgia approdo risponde al bisogno di una ritualità conosciuta, fatta di luoghi, di simboli, di formule, di preghiere interiorizzate condivise con altre. I luoghi sono importanti. Una liturgia conosciuta alla quale poter tornare: si sa che è là e a quell’ora c’è quella liturgia. Il nomade non chiede nulla di particolare alla liturgia, se non di esserci, di essere fatta. Per questo è necessario che la liturgia delle nostre comunità non crei barriere e ostacoli, con modi di guardare. La liturgia non deve allontanare nessuno. Per questo è decisivo il clima, l’ambiente umano di una celebrazione. Una liturgia diventa approdo se rinuncia ad essere solo per i puri, gli eletti, capace di empatia con i cercatori di Dio. La liturgia approdo è simile all’esperienza vissuta da quelle tante figure evangeliche che vengono a Gesù in modo anonimo e che vengono accolte. Persone di cui non si conosce neppure il nome, ma che Gesù accoglie, crea empatia. Gesù riesce ad interpretare il desiderio di vita delle persone che incontra. Desiderio di essere visti, guardati dal Signore.

b.     Liturgia pozzo. Si rende disponibile a quelle persone che vivono la difficile condizione di abitare sul crinale. Sono persone nelle quali è in atto un cammino di conversione. La liturgia ha qui la funzione di essere luogo per cui andare ad ascoltare. Il pozzo attira a sé per quello che offre di vitale. Restano insuperate le parole che un liturgista di origine maronita jean Corbon, Liturgia alla sorgente, Quiqaion, Bose 2003: l’uomo ha sete e cerca la sua acqua là dove pensa di trovarla. La storia della salvezza inizia sempre da un pozzo. La liturgia pozzo è vissuta come riserva si senso. La liturgia pozzo può essere identificata con la liturgia delle comunità monastiche, in cui la liturgia quotidiana è all’interno di un cammino di persone. Ci vuole un cristianesimo capace di attrazione: lo diceva papa Benedetto XVI. La liturgia pozzo ispira a credere. La sete è metafora del desiderio che pretende di essere saziato. Se la liturgia vorrà sopravvivere a se stessa dovrà cercare un linguaggio diverso. Le parole della liturgia devono diventare parole di salvezza che fanno bene alla vita. Salvezza incarnata che ha a che fare con la vita delle persone. Ci sono chiese che puzzano di sacrestia. Le chiese dovrebbero avere l’aria fresca dello Spirito. La liturgia deve aiutare a dare senso alla vita, deve dare ragioni per continuare a credere. I cristiani sono coloro che credono alla vita. Nel Vangelo di Giovanni il pozzo è il luogo in cui Gesù offre la massima rivelazione di se stesso e del culto in Spirito e Verità.



c.      Liturgia soglia. Rappresenta il sottile confine tra i territori. È il momento più delicato e complesso. La liturgia ha il compito di levatrice. La ritualità liturgica diventa generativa quando sa suscitare l’interessa di chi sta sulla soglia. La liturgia come soglia riconosce che questo passaggio, ha bisogno di tempo e riconosce che ci sono persone che lo stare sulla soglia è la loro condizione permanente di fede. Credere sulla soglia non si sceglie, ma si riconosce. Né dentro né fuori: sul confine. Credenti del nartece: lo spazio intermedio, già dentro, ma non del tutto, spazio di soglia. Il nartece nel tempio di Gerusalemme c’era il cortile dei gentili: spazio di accoglienza dei non appratenti alla fede d’Israele. Ciò comporta da parte della Chiesa una maggiore penetrazione del mistero del corpo di Cristo. Le forme di appartenenza e di comunione sono generate dallo Spirito Santo. Per questo la liturgia come soglia sa tenere insieme l’apparenza spirituale a Gesù in forme molteplici all’appartenenza alla comunità dei credenti. Ci sono due figure nei vangeli che dicono di questo: Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea. Nicodemo, capo dei Giudei, va da Gesù di notte, ma non prenderà mai la decisione di seguirlo. Giuseppe d’Arimatea era un membro del sinedrio. Era discepolo di Gesù, ma di nascosto per timore dei Giudei. Persone sulla soglia. Giuseppe vive la doppia appartenenza al Sinedrio e a Gesù.

d.     Liturgia casa. È la liturgia di chi si dichiara agli altri come credente, di chi si sente fedele ed appartenente ad una comunità cristiana. È la liturgia di chi si riunisce assiduamente per spezzare il pane. I cedenti discepoli vivono anch’essi nella città secolare e sperimentano le stesse dinamiche e fatiche del credere oggi. Più che una realtà già data, la liturgia casa è un compito che ci attende. La problematica più decisiva che la liturgia dovrà affrontare: la liturgia è intrinseca alla vita di fede. Si è soliti ribadire che uno dei principali cardini del Concilio è la partecipazione attiva dei credenti alla liturgia. È un punto di non ritorno. Accanto all’esigenza di una maggiore partecipazione attiva occorre domandarci se oggi ci sono le condizioni per questa partecipazione attiva. Appare da più parti sempre più necessario la riformulazione dei linguaggi liturgici per far abitare i fedeli la liturgia che celebrano.

Di fronte al grande cambiamento c’è bisogno di laboratori di liturgia, che sperimentino un modo più inculturato di vivere la liturgia, modi diversi di dire la fede. C’è una responsabilità nella Chiesa di oggi di coinvolgere i giovani in questo percorso di ricerca. La Chiesa è davvero convinta che la sua liturgia è ancora una risorsa nel cammino di fede?