martedì 30 gennaio 2018

GESÙ PANE DI VITA


UNITA’ PASTORALE PADRE MISERICORDIOSO E SANTA MARIA DEGLI ANGELI


I MARTEDÌ TEOLOGICI

Relatore: Maurizio Marcheselli

Sintesi: Paolo Cugini
Discorso sul pane della vita. Gesù come pane della vita. Non insisto sul carattere eucaristico del testo. Cerco di riflettere su cosa dice questa immagine sulla persona di Gesù.

Il pane come simbolo. Un simbolo è un’immagine, un modo di utilizzare l’immagine. Non tutti i modi di utilizzare le immagine nel parlare si equivalgono. Giovanni predilige usare le immagini come simboli, cioè non come allegorie. Il simbolo presuppone che avvicini due cose. Simbolo: comporre, cacciare insieme. Ci devono essere due elementi. La prima è un’esperienza della vita ordinaria. Il secondo è un plusvalore che fa riferimento a dinamiche spirituali. Se viene meno l’aspetto concreto da cui io parto, non mi rimane niente. Un simbolo per funzionare ha bisogno che rimanga vivo il significato dell’esperienza concreta nella vita ordinaria. Il Gesù di Giovanni ama molto parlare con simboli. Qui abbiamo il simbolo del pane. Dobbiamo conservare nella mente il mangiare se vogliamo capire che cosa Gesù dice nel capitolo 6. Gesù in Giovanni predilige questo simbolo base che è il mangiare. Che cos’è il cibo per la mia vita ordinaria? Il mangiare, il cibo è essenziale per la vita. Gesù vuole offrire un significato ulteriore a questo livello materiale che è il mangiare. C’è un cibo che non si ricava dai cereali e che serve per vivere. Quale pane per quale vita? Gesù non procede per contrapposizioni. Non si oppone nulla, anzi devo conservare nella memoria l’esperienza gradevole del mangiare, per cogliere quello che Gesù mi vuole fare intravvedere una realtà più profonda. L’avere bisogno di cibo permette a Gesù di condurci verso il bisogno di un’altra vita. Se Dio esiste, per definizione la sua vita non ha principio né fine. Gesù lavora sull’immagine del pane, ne fa un simbolo. A Gesù piace partire sempre da qualcosa di materiale, per condurci verso l’altrove. A partire da esperienze sensibili Gesù ci vuole parlare di qualcosa di spirituale.

Il racconto del segno: Gv 6, 5-11. E’ il racconto più raccontato di tutti i vangeli. Il modo in cui Gv racconta questo episodio ha alcune particolarità, che veicolano il significato specifico che Gv ha visto in questo episodio. Gesù è salito sul monte, alza gli occhi e vede una folla che viene a Lui. Nei sinottici sono i discepoli che cominciano a preoccuparsi. Qui nessuno si preoccupa. Tutta l’iniziativa è nelle mani di Gesù. E’ Gesù che fa la domanda. E’ una caratteristica tipica della narrazione di Giovanni sui segni. Es. il cieco nato. Se si ripete vuole dire che non è casuale. Nessuno può chiedere quel che non conosce. E il dono che Gesù fa è qualcosa di inimmaginabile. Per questo è Gesù che prende l’iniziativa. “Da dove”: il problema è l’origine. Da dove prenderemo dei pani perché questi mangino. Nel Vangelo di Giovanni la questione dell’origine è fondamentale. Da dove viene il pane che dobbiamo dare loro? La questione del da dove è uno delle questioni cruciali del Vangelo di Gv. L’origine del donatore e l’origine del dono è la stessa. Quel da dove, quel luogo da cui sta tirando fuori il pane, non è diverso dal luogo da dove Lui stesso è venuto. In questo quadro ci vedo tutta la storia di Gesù. Il mistero di Dio come mistero di Padre e Figlio era rimasto nascosto sino a quando Gesù non è venuto in mezzo a noi. Dio dal suo monte, guardando le folle degli uomini, ha deciso d’intervenire. Il dono è come il donatore. Vale anche nella nostra esperienza. Quando si fa un regalo, il regalo è il riflesso di chi lo fa. Il dono ha le caratteristiche del donatore. Il pane ha le caratteristiche del donatore. Questo dono non è l’esisto di una domanda, ma il frutto di un’azione libera, gratuita. Si capisce, allora l’ironia di Gv 6,7. Il pane che Gesù sta per dare non si compra da nessuna parte. Diceva questo per metterlo alla prova. Quel pane si compra da qualche parte? Abbiamo comprato Gesù? Quel pane fa pare di quelle cose che non sono in commercio. Tutto parte da un’iniziativa gratuita di Gesù.

Gv 6,11: che curioso modo di raccontare! Perché Giovanni racconta in questo modo insistendo sul rapporto immediato? Gesù prende il pane e lo dà. Cfr. Gv 10: nessuno mi toglie la vita, io la do da me stessa. Ho il potere di darla e di prenderla di nuovo. In Gv c’è un’insistenza fortissima sulla libertà con cui Gesù ha consegnato se stesso alla morte. Gesù non si fa aiutare perché il pane che Gesù dà riflette l’atto di dare la vita al mondo. Il Gesù che dà il pane ai 5 mila è l’immagine di Gesù che consegna la sua vita e lo può fare solo Lui.

Due apici:
1.      Incarnazione: In Gv i gesti e le parole sono sempre intrecciati. Gesù spiega il senso del pane che aveva distribuito il giorno prima. A Cafarnao c’è una folla dai quali emergono i giudei. La folla interviene 4 volte e Gesù risponde 4 volte. Il primo apice del discorso è quando Gesù parla con la folla. Gv 6,35: Io sono il pane della vita. Gv 6,30: allora gli dissero: quali segno tu compi? La folla vorrebbe un segno e ricorda alla manna. Gesù interroga: chi diede? Micca Mosè, ma Dio. Gesù puntualizza il soggetto. E poi passa dal passato al presente. Non leggere diede, ma dà. La Scrittura parla di un pane che Dio dà adesso. Qual è il pane di Dio? Il pane di Dio è quello che discende dal cielo. Espressione che si apre a due possibili interpretazioni. Il greco è ambiguo e consente le due letture. La folla capisce il pane e non la persona. Gesù non ha ancora detto che è Lui quel pane. Solo dopo dice: io sono il pane della vita. Quel pane che dà la vita coincide con la mia persona. Gv usa tre tipi di parole per dire vita: Psychè (vita terrena); sarx (carne che è l’esistenza umana che ha un inizio e una fine)  e Zoè (questa vita per Gv è la vita in senso assoluto, è la vita come Dio ce l’ha. Se Dio esiste la sua vita è eterna). E’ la parola che c’è qui: il pane della vita. Si parla di un pane che sostenta, alimenta in noi la vita stessa di Dio. Quel pane è Gesù. E’ la sua persona che è alimento. La sua persona, il suo sé è il pane che Dio ha disposto per avere la vita di Dio. La vita eterna comincia adesso, quando accogliamo Gesù. L’equivalente del mangiare è credere. Mangiare il pane ha come equivalente credere in Lui. La fede è l’atto con cui metabolizzo il pane. Mangiare vuole dire il credere. Perché Gesù aggiunge al mangiare il bere? Sino ad ora non aveva ancora parlato di bere. Is 55: o voi tutti assettati… E’ molto simile a Gv 6: questa roba non si compra. La cosa interessante è questa: che cos’è questo cibo e questa bevanda? Isaia dice che mangerete cibi succulenti. Ascoltatemi e nella misura in cui ascolterete mangerete. Ascoltami, perché se ascolti mangi. E’ come in Gv 6: si mangia Gesù che è parola di Dio fatta carne. La Parola di Dio è il vero pane. La prima fame che noi abbiamo è la fame di senso. Si muore di questa fame. Cfr. Proverbi: Donna Sofia è la personificazione della Sapienza. La Sapienza si è costruita la sua casa: ho imbandito la mia tavola. Gesù si sta comportando come il profeta e come la Sapienza. Che cosa si mangia da donna Sofia? Lei, la Sapienza. A coloro che sono stolti Sofia dà da mangiare la Sapienza stessa. E’ pane di vita perché Gesù è Parola fatta carne. Come la Bibbia diceva dei profeti re dei saggi, la Parola è il primo cibo che abbiamo bisogno, perché la parola ci rivela il senso delle cose.  

2.      Croce. Gv 6,48-51: Gesù in Gv è il pane della vita. Il secondo apice: il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Il pane è la mia carne. Il pane che darò per la vita del mondo. La novità di questa frase è che qui parla della croce. Questo testo vuole dire: la carne è la dimensione fisica, di essere umano. In che senso Lui è pane in questo contesto? La sua esistenza di uomo Gesù la darà per, a vantaggio di. La sua carne, la sua esistenza umana è per, a vantaggio di. E’ una carne per. Gesù sta pensando la sua morte. Gesù darà la sua carne per, nella morte. In che senso la carne di Gesù, la sua umanità, consegnata alla morte, è pane? Per Giovanni la croce è un momento di rivelazione suprema, nella croce si è svelato il mistero, rivelazione dell’amore di Dio per il mondo, che si manifesta con l’amore che Dio ha per noi. La croce è l’espressione più estrema dell’amore di Dio per il mondo. La croce è l’icona dell’amore. La fame più radicale che abbiamo è che qualcuno ci voglia bene, che qualcuno ci ami. E’ la fame dell’essere voluti bene. E’ questo di cui abbiamo bisogno di mangiare: l’amore di Cristo per noi. E’ questo il pane. Buon appetito.




mercoledì 24 gennaio 2018

LA TEOLOGA TERESA FORCADES A REGGIO EMILIA


A Reggio Emilia continua il ciclo di conferenze sulla Teologia delle donne, di cui sono protagoniste teologhe donne che con la loro capacità di analisi riescono a caratterizzare e dare un valore specifico al pensiero teologico, per offrire un punto di vista nuovo, differente, rinnovante, inclusivo  rivolto a chi si sente ai “margini” della chiesa.

Giovedì 1 febbraio 2018, alle 20.45, Suor

 Teresa Forcades presenta il suo libro: 

Siamo tutti diversi! Per una teologia queer


Maria Teresa Forcades è una suora di clausura benedettina di Montserrat (Barcellona), laureata in medicina ed in teologia fondamentale, saggista nel campo della medicina sociale, della teologia trinitaria e di quella femminista. Nei suoi libri ha intrecciato studi, vissuti e riflessioni che ne fanno un singolare spirito libero.

sabato 20 gennaio 2018

DECENTRALIZZARE L’AZIONE EVANGELIZZATRICE




Paolo Cugini

Seguendo l’insegnamento di Papa Francesco che, sin dall’Evangeli Gaudium, invitava la Chiesa ad uscire, a non rimanere chiusa nelle calde e comode mura parrocchiali, diviene importante pensare una pastorale in uscita, decentrata. Del resto Francesco non inventa nulla, ma segue l’esempio di Gesù e dei primi discepoli, che annunciavano il Regno di Dio camminando per le strade della Palestina. Anche san Paolo procede con questo stile on the road, formando comunità, individuando i leaders e poi, continuando il cammino. La dimensione missionaria dell’evangelizzazione è senza dubbio una caratteristica inscritta nel DNA della Chiesa, così come l’ha voluta Gesù. Quando una comunità si siede al centro, aspettando le pecorelle e, soprattutto, alimentando spiritualmente solamene quelle che si presentano all’appello, significa che è in atto un processo di sovvertimento della dinamica iniziale. La comunità non può divenire la tomba del processo di evangelizzazione, il punto di arrivo, ma lo spazio propulsore nel processo di evangelizzazione di un territorio.

Che cosa significa questo pensiero pastorale decentrato e che cosa comporta? In primo luogo, significa abitare le periferie geografiche ed esistenziali. Siamo da secoli abituati a svolgere il lavoro di evangelizzazione dentro le mura domestiche della parrocchia. Abitare le periferie geografiche ed esistenziali significa progettare la catechesi ed ogni settore pastorale a partire dalla possibilità di realizzarli in questi luoghi. Sono già molte le esperienze in questo senso, anche se non sempre assumono un carattere di progettualità. Decentrare la pastorale significa valorizzare le situazioni esistenziali già in atto, come i legami parentali, i gruppi di amici di un palazzo, una via, una piazza. Ci sono già nella parrocchia persone che vivono nella stessa via o nello stesso palazzo. Potrebbero bastare poche persone per iniziare un’esperienza di evangelizzazione in un quartiere. Il primo passo e fare la proposta e responsabilizzare le persone in questo servizio. Pastorale decentrata significa coinvolgimento dei cristiani. Ogni battezzato è chiamato ad evangelizzare. Spesso nelle nostre comunità la maggior parte delle persone vive la propria appartenenza alla comunità partecipando alla liturgia domenicale e poco altro. Stimolare una pastorale che valorizza il territorio può riuscire nel compito di coinvolgere un maggior numero di cristiani.

Pensare il cammino di evangelizzazione a partire dalla periferia richiede una conversione pastorale non indifferente. Esige la disponibilità effettiva a svolgere percorsi di evangelizzazione direttamente sul territorio, a casa di altri. Una cosa è aprire la porta e invitare qualcuno a casa propria; tutt’altra cosa è fare in modo di essere accolti e, per così dire, giocare in casa d’altri. Questo cammino obbliga la comunità a pensare itinerari di evangelizzazione non appena per coloro che escono di casa per andare negli spazi della comunità, ma soprattutto per coloro che solitamente non frequentano la Chiesa. Si tratta, dunque, di un’azione evangelizzatrice con un grande accento missionario, che mette a dura prova le motivazioni e la fede della comunità dei fedeli. Nei cammini consueti della pastorale accentrata, non si riesce quasi mai a raggiungere le persone che in un modo o nell’altro si sono allontanate dalla parrocchia. Non si riesce per il semplice fatto che l’impostazione classica centralizzata, non prevede alcuna forma di pensiero verso coloro che abbandonano. Tutto è, infatti, concentrato per coloro che frequentano.

 Ma perché non interessa? Perché le persone che solitamente frequentano la messa domenicale non sono interessate ad annunciare il Vangelo alle persone che vivono nel loro palazzo o nella loro via? Credo che la difficoltà nasca dal fatto che l’annuncio del Vangelo esige uno sporcarsi le mani, un cammino di conversione. Vivere la fede nel Signore come una religione qualsiasi, significa cercare tranquillità, sicurezza spirituale. Del resto la religione, come ci ha insegnato il grande teologo protestante Karl Barth, è un processo che non ha al centro Dio, ma l’io. C’è tutta una pastorale che fa da supporto all’egoismo spirituale, che sorregge lo stile individualista prodotto dal modello neo-liberale. Da una mentalità religiosa è molto difficile uscire con delle idee missionarie. Molto spesso al centro della religione delle nostre parrocchie, non c’è il Vangelo, ma le devozioni. Mentre il Vangelo richiede un cammino di conversione, la devozione ti chiede una genuflessione, un atto di pietà. Rimettere al centro il Vangelo nei nostri progetti pastorali è il primo passo per fare in modo che sorga il desiderio di annunciare a tutti il motivo della nostra salvezza: Gesù Cristo.

In questa prospettiva i quartieri, le strade, le piazze, i palazzi possono diventare delle piccole comunità autogestite pastoralmente. Non È più il prete che ha il controllo di tutto il territorio della parrocchia, ma le persone che abitano concretamente quella via o quel quartiere. Decentrare la pastorale significa non solo pensare cammini di evangelizzazione a partire dall’esterno, ma anche consegnare la progettazione pastorale a chi si assume la responsabilità in quello spazio determinato. In questo modo, è più facile arrivare alle case, alle famiglie, agli ammalati, alle persone bisognose. Avere dei referenti in un quartiere che, in nome del Vangelo e in modo gratuito, si prendono cura delle persone che vivono nel loro territorio, è un dono di Dio. I consigli pastorali potranno essere momenti di confronto sul cammino intrapreso, affinché tutto si realizzi sempre in comunione, ma rimanendo sempre attenti a fare in modo di non voler controllare o censurare la creatività pastorale che sgorga dalla periferia.

Questa modalità pastorale in uscita guadagna in povertà e sobrietà. Abitare il territorio libera dall’assillo delle strutture. Certamente, saranno prevedibili forme di collaborazione economica per gli spazi che verranno utilizzati. In ogni modo, abitare le piazze, i parchi, i centri sociali, le case è molto meno costoso che gestire delle strutture. Sobrietà, poi, fa rima con credibilità. Quante volte le parrocchie e la Chiesa sono accusate di essere ricche! Ci difendiamo, ma chi è fuori e contempla le nostre strutture, non ne esce confortato dalle nostre difese. Sarebbe bello vedere le nostre parrocchie o le nostre unità pastorali, costituite da tante piccole comunità, che apprendono cammini di condivisione, sullo stile delle prime comunità. Sognare può essere pericoloso, ma fa molto bene alla salute dell’anima.


mercoledì 17 gennaio 2018

CREDO IN GESÙ CRISTO . I MARTEDÌ TEOLOGICI




I MARTEDÌ TEOLOGICI
CREDO IN GESÙ CRISTO

GESÙ IL MESSIA CHE VIENE COME SPOSO
CENTRO SACRO CUORE BARAGALLA
16 gennaio 2018

Relatore: don Maurizio Marcheselli
Sintesi: don Paolo Cugini

Premessa: C’è un personaggio importante che è Giovanni detto il Battista è una figura di testimone. Offre due testimonianze su Gesù: all’inizio e al capitolo terzo. In tutti e due i casi il Battista, mentre rende testimonianza, comincia presentando Gesù come sposo. Gv 1, 27-28. Chi ha la sposa è lo sposo. Nella bocca del Battista viene riferita a Gesù l’immagine del Messia che viene come sposo. L’immagine sponsale è tipica dell’AT per dire l’Alleanza. Lo sposo è l’Altissimo e non il messia nell’AT. Nel Vangelo di Giovanni questa categoria riferita a Dio viene riferito a Gesù. Anche Marco utilizza questa immagine. La sposa appartiene solo al Messia.
C’è un altro passaggio in cui il BTTISTA fa riferimento allusivamente a Gesù come sposo.
Gv 1,26-27: sciogliere il legaccio del sandalo. Gli evangelisti non hanno capito tutti allo stesso modo questa immagine. In Mc è il servo che si piega per slacciare i sandali al padrone. In Gv l’immagine ha un altro orientamento. Il biblista Louis Alonso Schokel scrive un testo significativo su questa immagine: i Sandali del Messia sposo. Schokel dimostra che l’immagine del sandolo è legata al diritto matrimoniale. Il Levirato diceva che il fratello doveva prendere la sposa vedova del fatello per dargli una discendenza. Sembra che sia successo che l’immagine del sandalo evochi il diritto sulla sposa. Io non ho nessun diritto d’impadronirmi della sposa. C’è dunque un’insistenza a presentare il Messia nei panni dello sposo. Giovanni non può sottrarre allo sposo un diritto che è solo suo.

Gv 1,30: dopo di me viene un uomo (andros: il marito, l’uomo maschio, il marito, lo sposo). In modo allusivo, almeno due volte, il Battista presenta Gesù come lo sposo che viene.

Altri due testi. Le due Marie. Nel Vangelo di Giovanni sono pochi che hanno un nome. Due Marie: di Betania, e Maria Maddalena. Negli episodi che parlano di queste figure ci sono testi sponsali che ricordano il Cantico dei cantici. Il tema dei profumi, di asciugare i piedi: si trovano anche nel Cantico dei cantici. Maria di Betania riconosce Gesù come lo sposo. Maria Maddalena: chi cerchi donna? Evoca il Cantico, la ricerca del marito.
C’è un grande interessa in Giovanni a dipingere Gesù così, interesse legato al tema dell’Alleanza.

Gv 2,1-11: Chiavi di lettura per capire il segno di Cana. Per illuminare il testo di Cana si può leggere 1, 51: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere il Figlio dell’uomo. Ci aiuta a capire Cana.

1.        Gv 1,51: Subito prima c’è stata una profezia ai primi discepoli: vedrete il cielo aperto… Da dove viene questa immagine? Da Genesi. Qui Gesù sta riprendendo il passo della Genesi. Gesù si presenta come il luogo in cui Dio dimora. Capirete che il Figlio dell’uomo è il punto d’incontro tra il cielo e la terra, è la porta del cielo. Quand’è che il futuro diventa un presente? Possiamo dire che quel futuro diventa possibile a partire da Cana. Se i discepoli saranno in grado di capire quello Gesù ha fatto a Cana, potranno vedere che Gesù è la casa di Dio. Cana è la manifestazione che Lui è la casa di Dio e la porta del cielo.

2.      Gv 2,11: Che cos’è accaduto a Cana? Gesù ha iniziato a fare dei segni. In quell’evento sensibile s’intravede qualcosa di divino. I segni hanno un carattere di svelamento, indicano attraverso e al di là un’esperienza sensibile, si fa esperienza del divino. Dio si sperimenta nella mediazione del sensibile. Nell’evento di Cana c’è un segno che dice qualcosa di Gesù, del suo mistero, della sua persona. Che cosa addita? Manifestò la sua gloria. Nella Bibbia la Gloria di Dio è quello che di Dio noi possiamo percepire, Dio in quanto sperimentato. La Gloria è ciò che si percepisce all’esterno dell’identità di Dio. A Cana i discepoli hanno visto la sua gloria, sono arrivati ad intuire chi è Gesù, il mistero della sua persona che si è manifestato in quello che ha fatto.

3.       Che cosa ha fatto? Di Che cosa è segno? Due cose importanti: il vino e le nozze. E’ in rapporto alle nozze e al vino che si coglie quale sia la gloria di Dio. Le nozze sono decisive perché il vino di Cana è vino per le nozze. Il vino delle nozze, un vino per le nozze. Il vino di Cana: tre caratteristiche: buono, abbondante, conservato sino ad ora. Buono: sullo sfondo ci sono gli oracoli profetici (Isaia 25). Il vino buono è un elemento essenziale del giorno della salvezza. E’ anche un vino abbondante: sullo sfondo ci sono oracoli (Amos: il vino corre giù dalle colline; Genesi: Giacobbe benedice i suoi figli: Giuda lava nel sangue dell’uva la sua veste). In Israele non c’è tragedia più grande che piantare una vite e non bere il frutto. Vino conservato sino ad ora, nascosto. E’ il vino degli ultimi giorni. E’ l’ora decisiva, è il momento in cui le promesse di Dio si realizzano. Questo vino a Cana è vino per le nozze.
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Chi è lo sposo di Cana? Giovanni lo lascia intuire. Giovanni è ironico. Gv 2,10: queste parole non possono funzionare dello sposo di Cana. Per chi valgono quelle parole? Chi ha conservato misteriosamente sino ad ora il vino è solo Gesù. In questo modo Giovanni ci fa capire che lo sposo di Cana è un’immagine che rimanda allo sposo vero, a colui che celebra le nozze della nuova ed eterna alleanza. Chi è la sposa? C’è la madre non nominata, senza nome: è il popolo ebraico. I discepoli di Gesù sono qualificati come israeliti. Dio non ha rinnegato il suo popolo. Il Messia anzitutto cerca il popolo eletto. La sposa, la comunità, il partner umano dell’alleanza è Israele, coloro che in Israele hanno riconosciuto il Messia. A Cana Gesù svela il mistero di chi è Lui: lo sposo che viene per la sposa, per celebrare le nozze dell’Alleanza definitiva. Dio non ha rigettato Israele.

Giovanni 4, 4-26: All’inizio tutto è incentrato sull’acqua e sulla sete: sino al versetto 15. Gesù abbandona la terminologia dell’acqua e passa a tutt’altro. Improvvisamente siamo portati in un contesto sponsale: Gv 4,16-18. Poi sterza ancora: vedo che sei un profeta. L’ultima parte del dialogo è abbracciato dai titoli: profeta e Cristo. In mezzo c’è tutta la questione del culto.
Questione del marito: ci troviamo proiettati come ad un nuovo inizio: chiama tuo marito e vieni qui. C’è l’aspetto concreto e anche un plusvalore. Che cosa significa la storia dei cinque mariti? Nella bibbia l’immaginario matrimoniale è usato per indicare il rapporto con Dio. Quando Israele è infedele, i profeti dicono che è adultero. Che cosa vuole dire questa storia? La donna di Samaria è anche immagine della totalità del suo popolo. I popoli, le città sono spesso rappresentate come donne. Cfr. Gerusalemme: la figlia di Sion. Babilonia: figlia di Babilonia. La donna di Samaria rappresenta tutti i samaritani, che sono bastardi etnicamente e religiosamente. I Samaritani erano l’esito di una catastrofe avvenuta nel 721 a.C. Erano cinque popolazioni che erano venute a mescolarsi, con sette divinità. Giuseppe Flavio dice che queste divinità erano cinque. Hai avuto cinque mariti: i samaritani hanno avuto cinque mariti, hanno adorato cinque divinità che non sono il Dio d’Israele. Al tempo di Gesù i samaritani adoravano Adonai, ma il loro culto era considerato irregolare. Adesso adori JHWH in un modo che non va bene.

Quando la donna si sente interpellata così, non cambia discorso ma va al cuore del discorso. La donna chiede come si fa ad adorare Dio nel modo giusto. Gesù l’ha smascherata. Gesù le risponde: bisogna adorare in Spirito e Verità. Siamo sempre sul filone sponsale. Che cosa propone Gesù alla donna? La dimensione sponsale in questo testo è molto presente. Giovanni ha usato un modello per costruire il racconto della Samaritana. Ha usato il modello del racconto di fidanzamento. Nella Bibbia ci sono solo tre racconti di fidanzamento: Isacco, Giacobbe e Mosè. Sono tre racconti costruiti tutti allo stesso modo. Un tale parte, esce dalla sua terra e, arrivati nel paese straniero, si ferma al pozzo. Ad un certo punto arriva una ragazza che vuole bere al pozzo. Infine si riesce ad attingere acqua e le ragazze tornano a casa e raccontano ciò che è successo e mandano ad invitare colui che è stato incontrato al pozzo. Giovanni ha raccontato la storia dell’incontro di Gesù con la Samaritana sfruttando un modello che veniva utilizzato per narrare i racconti di fidanzamento, che è già un contratto matrimoniale. Giovanni racconta il passaggio di Gesù in Samaria come Genesi raccontavano i fidanzamenti. Se a Cana il Messia è venuto per salvare Israele, per Il racconto di Samaria ci dice che il Messia non è venuto solo per Israele. La sposa che il Messia cerca adesso ha una fisionomia che è più ampia del popolo dell’Antica Alleanza. “Veramente costui è il salvatore del mondo”.
Se si può leggere questo testo in cui la dinamica sponsale è decisiva, allora il tema sponsale ha una portata enorme.
1.        La dimensione sponsale di questo racconto di Samaria è presente nel fatto che la sete mette in moto tutta la storia. Ci sono due seti. Tutti e due hanno sete ma il primo che esplicita la necessità dell’acqua è Gesù. La sete nella Bibbia è immagine del desiderio e del bisogno. Il desiderio è desiderio di colmare un bisogno. Ha sete di te l’anima mia. Che cosa genera il racconto? La sete, che dice tensione verso. Non solo la donna ha sete, ma anche Gesù ha sete. Il racconto dice che ciascuno dei due trova nell’altro, nell’altra ciò che sazia la sua sete. La dinamica sponsale attribuisce un ruolo importante al partner umano. Il messia è in ricerca, ha sete anche Lui. Problema: il desiderio si sazierà alla fine? Si.

2.      Nel matrimonio ebraico chi porta la dote è il marito. Giovanni ha lavorato su questo. Se Gesù sta cercando moglie in questo senso, allora deve versare una dote. Os 2: Ti farò mia sposa. Qui c’è la formula tecnica del diritto ebraico. Ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto. Nella: dice della dote che il fidanzato offre alla promessa sposa. Dote: quelle cose che Israele non ha: fedeltà, benevolenza, Giustizia, Amore. Nel testo di Giovanni: il posto della dote è preso dall’acqua viva. In quest’acqua viva c’è la ripresa del tema della dote. L’acqua viva: indica il Vangelo, la Parola di Gesù; lo Spirito Santo. E’ questo il dono che il Messia porta con sé, in dote la Parola che ci svela il mistero di Dio e lo Spirito che rende la Parola viva. Questa è la dote accogliendo la quale diventa possibile celebrare le nozze.


giovedì 11 gennaio 2018

LA CHIESA HA DAVVERO ANCORA BISOGNO DI PRETI?



[pubblicato su NOTICUM, gennaio 2018]


Paolo Cugini

Ogni contesto culturale produce i suoi protagonisti a tutti i livelli della società civile. C’è stata l’epoca delle contrade e l’epoca degli artigiani. C’è stato un tempo in cui il mondo romano era diviso tra patrizi e plebei. E mentre l’Occidente inventava la stampa, nelle culture andine dell’America Latina, la civiltà sviluppava una cosmogonia in cui uomo, donna, animali e piante erano in perfetta armonia. Oggi, invece, dominano i super mercati, perché rispondono meglio alle esigenze del nuovo modello globalizzato di società e di economia. Non a caso i supermercati li troviamo in ogni angolo del pianeta. In ogni latitudine del pianeta e in ogni epoca troviamo forme di religiosità con i suoi templi e i suoi sacerdoti. Ci sono dei dati antropologici universali come la religione e dei modi contestualizzati di viverli. Nella storia delle religioni gli attori che ruotano intorno al sacro non sono solo uomini, ma anche donne. Mutano le condizioni sociali, mutano allo stesso tempo gli attori del sacro.
Anche la Chiesa, che è un’istituzione umana che risponde a logiche del mondo e, di conseguenza, anche lei è soggetta a mutamenti nel corso dei secoli, ha mutato durante i secoli sia la ritualità attraverso cui esprime l’evento originario, sia la tipologia di coloro che sono addetti ai riti religiosi.  Certamente la Chiesa ha un mandato divino e si alimenta di Dio, ma il modo di gestirla utilizza criteri umani. Come tutte le istituzioni che durano nel tempo, anche la Chiesa fa fatica ad adattarsi ai mutamenti necessari. Il passare del tempo provoca assestamenti strutturali che vengono identificati come identitari e, di conseguenza, immodificabili. Tutto ciò avviene quando una tradizione culturale o religiosa perde il contatto con la sua origine, oppure quando tra l’origine e il presente della storia s’interpongono tradizioni di provenienza esterna, che modificano l’identità della struttura stessa. La mancanza di un gruppo di sapienti, che mantengono il contatto con l’origine e che può allertare la base di un movimento politico o religioso delle distorsioni in atto, provoca lentamente e progressivamente la base identitaria del gruppo. E così, può succedere e di fatto succede, che una religione o un gruppo politico con il tempo si trasforma, allontanandosi dalla sua origine da risultare pressoché irriconoscibile. Le mutazioni all’interno di una struttura sociale, religiosa e politica sono inevitabili e, per questo, occorre essere in grado di accompagnare i cambiamenti per non correre il pericolo di distruggere il contenuto originario.

Muta, in questa prospettiva, all’interno della religione cattolica in questa epoca denominata di post-cristianesimo, anche la figura del prete, il suo modo d’intenderlo, la sua funzione nella comunità. Questo cambiamento è nella regola delle cose della società civile. Sono i cambiamenti culturali che dettano le indicazioni per i cambiamenti di tutte le strutture che ne fanno parte e che non vogliono perdere il loro posto. Nelle epoche denominate di passaggio, come quella che stiamo vivendo, il pericolo consiste nel non coglierlo e nel non riuscire a intuire i cambiamenti necessari per permettere alla propria struttura di rimanere dentro. Che cosa, allora, dovrebbe cambiare nella modalità del prete cattolico di esercitare il suo ministero? Ancora di più è possibile chiedersi: è proprio necessaria questa figura nel nuovo quadro culturale e sociale che si sta configurando?

Se è vero, come c’insegnano i documenti della Chiesa e una lunga tradizione che deriva dai Padri della Chiesa, che è l’Eucarestia che fa la Chiesa, allora occorre mettere le comunità cristiane in grado di nutrirsi di essa. Nell’attuale contesto culturale è in atto, da alcuni decenni, una progressiva e inarrestabile diminuzione del clero, di coloro chiamati cioè a presiedere le comunità per celebrare l’Eucarestia. In Italia, ma non solo, già da qualche anno sono in atto nelle Diocesi delle proposte per arginare il problema. La più significativa è quella delle Unità Pastorali, che vede il raggruppamento di alcune parrocchie affidate ad un solo parroco. Con l’andare del tempo, questo nuovo modello di ristrutturazione delle parrocchie non permetterà più alle comunità di avere la possibilità dell’Eucarestia domenicale. Del resto, questo problema è già visibile nelle parrocchie delle nostre montagne e in altri paesi come la Francia.

Perché non cambiare sistema? Se il problema è permettere alle comunità cristiane di alimentarsi dell’Eucarestia perché insistere con il modello del prete celibe e votato alla Chiesa per tutta la vita? Perché non provare a proporre figure più al passo con i tempi, persone che offrono un servizio limitato nel tempo? Si potrebbero ordinare persone della comunità, di fede provata il cui carisma è riconosciuto dalla stessa comunità. Che tipo di persone? Persone celibi o sposate, uomini o donne. Si anche donne. E’ inutile, infatti, che la Chiesa continui a parlare di genio femminile, se poi esclude le donne dalla possibilità di guidare una comunità. Non può la Chiesa farsi da paladina della lotta contro le ingiustizie causate dalle disuguaglianze sociali, quando esclude le donne dalla possibilità di far parte dei quadri che dirigono le sorti della Chiesa. In fin dei conti si tratta di mantenere viva la fede del Popolo di Dio e, di conseguenza, occorre fare di tutto affinché i fedeli si alimentino del Signore.
Perché la Chiesa resiste così tanto al cambiamento? Non è un problema di Vangelo, ma di potere. Abituata da secoli ad essere significativa e incisiva in Occidente sul piano politico e sociale, avere totalmente a disposizione un schiara di uomini celibi per tutta la vita, qualificati e sottopagati, vuole dire molto. Togliere questo esercito di uomini che firma un giuramento di totale obbedienza all’istituzione, significa privarsi di quella struttura specifica che ha espresso il modo della Chiesa di stare nel mondo. A mio avviso la Chiesa non rinuncerà mai a loro. Si terrà stretta questa schiera di uomini celibi votati fino alla morte a Lei, sino al momento in cui ne rimarrà uno solo. Chi è abituato a comandare, fa fatica ad attorniarsi di persone con cui interloquire alla pari. Nel frattempo sarà la base, il Popolo di Dio che si organizzerà per mantenere viva la fede. L’ho visto fare in America Latina. Siccome il prete passa raramente nelle comunità, sono le persone stesse che vivono in comunità che si organizzano per leggere settimanalmente la Parola di Dio e celebrare alla domenica. La fede è più forte di qualsiasi istituzione. Questo lavoro di base contaminerà anche la struttura della Chiesa. Per ora, sarà importante modificare lentamente il cammino delle comunità per metterle in grado di sopravvivere. In questo modo la notizia della caduta del palazzo sarà meno rumorosa.

Per le Unità Pastorali, che avranno la tendenza in futuro di aumentare di dimensioni, si potrebbe pensare ad una figura che coordini il lavoro pastorale ed economico delle parrocchie coinvolte. Mentre per la guida della comunità, scelta tra il popolo delle comunità, si potrebbe pensare ad una remunerazione frutto del contributo della stessa comunità, per i coordinatori delle Unità Pastorali, che potrebbero essere svolti da laici debitamente preparati, si potrebbe pensare ad uno stipendio con il contributo dell’otto per mille. In questo modo, si uscirebbe dallo schema prevalentemente monastico della guida della comunità, che la vede separata dal popolo di Dio, per uno più conforme alle esigenze del tempo. Due figure, allora, si delineano nel cammino della Chiesa futura: quello del presidente dell’assemblea eucaristica, che celebra l’Eucarestia e quello del coordinatore delle Unità Pastorali. Queste figure pastorali esigono anche una spiritualità nuova che le alimenti e cammini formativi differenziati. Se le guide della comunità sono scelte tra coloro che vivono nella stessa e che probabilmente sono sposate, la spiritualità dovrà rafforzare il significato e il vissuto della vita matrimoniale. In questa prospettiva i seminari, così come oggi sono concepiti, non saranno più necessari, perché la formazione delle guide delle comunità avverrà all’interno della comunità stessa. Senza dubbio, si potranno prevedere percorsi formativi specifici, ma la maggior parte del percorso formativo è bene che sia realizzato nella comunità. Se fino ad ora la figura della guida della comunità aveva nel celibato il segno di un’appartenenza esclusiva a Dio e, per questo, viveva distante come stile di vita dal resto della comunità, ora è sempre più richiesta una figura di guida che condivida lo stile di vita della comunità.


Cambiando il tipo di figura della guida della comunità, cambia anche la spiritualità. Un presidente dell’Eucarestia preso fra il popolo e probabilmente sposato, non può alimentarsi con una spiritualità di stampo monastico, com’è quella del prete. La Chiesa dovrà provvedere ad elaborare una teologia laicale capace di andare incontro alle nuove esigenze. Oltre a ciò, pensando anche a presidenti dell’eucarestia donne, come del resto avviene da decenni anche in alcune chiese protestanti, si dovrà sviluppare sempre di più una teologia femminista capace di raccogliere le sfide dello sguardo femminile sulla realtà. Ci sarà, quindi, bisogno di una spiritualità meno di élite e più incarnata nella vita della gente. Probabilmente il tipo di teologia che elaborerà questo stile di Chiesa incarnato in mezzo al popolo di Dio, sarà meno esigente, meno propensa a porre dei pesi insostenibili alle persone – si pensi alla morale sessuale cattolica – e più al passo con la vita della gente. Ci troveremo dinanzi ad un cristianesimo che lavora meno sul sacro, ma avrà un volto più umano, molto più simile, cioè, al Gesù dei vangeli. Il mondo scristianizzato della nostra epoca post cristiana avrà la possibilità di vedere una chiesa più aderente al Vangelo, più alla ricerca dell’essenziale che della pompa. Come in tutte le cose e in tutte le istituzioni sociali e politiche, dallo stile dei capi si capisce il valore di un’istituzione.