sabato 31 gennaio 2015

CHARLES PEGUY: STORIA DI UNA CONVERSIONE






 A CENT’ANNI DALLA MORTE DAL GRANDE PENSATORE E POETA FRANCESE
Don Paolo Cugini

Ricorre quest’anno il centenario della morte di Charles Péguy (Orleans 4 gennaio 1873 – Marna 5 settembre 1914), poeta e filosofo francese, la cui opera ha influenzato intere generazioni d’intellettuali. Il suo percorso spirituale fu piuttosto travagliato. Abbandonata la fede negli anni dell’adolescenza perché non ammetteva il dogma dell’inferno, la ritroverà a ventott’anni dopo un percorso culturale che lo vede protagonista nel movimento socialista e in alcune battaglie politiche piuttosto polemiche. Fonda infatti, agli inizi del novecento prima una libreria e poi una rivista, Cahiers de la Quinzaine, che sono quaderni d’informazione e dossiers relativi ai problemi e ai fatti del momento. Tra questi si possono segnalare i Congressi Socialisti, L’Affaire Dreyfus e il problema della separazione Chiesa - Stato. Se il primo gruppo dei Cahiers (1900-1905) può considerarsi come relativo al periodo della creazione, dell’organizzazione dell’impresa e della presa di coscienza dei problemi teorici e politici essenziali, il secondo (1905-1909) segna un periodo di approfondimento e di maturazione che condurrà alla tacita riscoperta della fede. In quest’atmosfera Péguy sente e riscopre il senso degli Eroi, dei santi, della Patria francese. Nel 1907 Charles Péguy si converte al cattolicesimo. E così ritorna sul dramma dedicato Giovanna d'Arco, che aveva iniziato a scrivere agli inizi del Novecento, cominciando una febbrile riscrittura, la quale darà vita ad un vero e proprio "mistero", come viene scritto nei "Cahiers" del 1909, e questo nonostante il silenzio del pubblico il quale, dopo un breve e iniziale interesse, sembra non gradire più di tanto l'opera dell'autore. Péguy però va avanti. Scrive altri due "misteri": "Il Portico del mistero della seconda virtù", datato 22 ottobre 1911, e "Il mistero dei Santi Innocenti", del 24 marzo 1912. I libri non si vendono, gli abbonati della rivista calano e il fondatore dei "Cahiers", si trova in difficoltà. Inviso ai socialisti per la sua conversione, non fa breccia nemmeno nel cuore dei cattolici, i quali gli rimproverano alcune scelte di vita sospette, come quella di non aver battezzato i figli, per venire incontro ai voleri della moglie. Nel 1912 il figlio minore Pierre si ammala gravemente. Il padre fa il voto di andare in pellegrinaggio a Chartres, in caso di guarigione. Questa arriva e Péguy compie un cammino di 144 chilometri in tre giorni, fino alla cattedrale di Chartres, in piena estate. È la sua più grande dimostrazione di fede. Ormai scrittore cattolico affermato, nel dicembre del 1913 scrive un poema enorme, che sconcerta pubblico e critica. Si intitola "Eve", ed è composto da 7.644 versi. Quasi contemporaneamente uno dei suoi saggi più polemici e brillanti vede la luce: "Il denaro".  Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale Péguy si arruola volontario e il 5 settembre 1914, il primo giorno della famosa e sanguinosa battaglia della Marna, muore colpito proprio al fronte.

Nell’opera di Péguy, oltre ad una critica serrata al metodo moderno – siamo nel periodo nel quale scoppia in campo cattolico la polemica sul modernismo - troviamo soprattutto interessanti indicazioni di metodo per ascoltare la realtà, per valorizzare la pluralità. Assieme all’analisi puntuale dei danni provocati dalla mentalità moderna soprattutto all’interno della cultura francese – bellissime sono le pagine sulla vita contadina nelle campagne francesi dell’Ottocento -, troviamo in Péguy una lucidità intellettuale capace di mostrare con precisione le cause delle faglie del metodo moderno. Gli anni successivi alla sua conversione religiosa imprimeranno una profondità spirituale che lo condurranno a rileggere la Sacra Scrittura con occhi nuovi, gli occhi appunto del metodo intuitivo appreso da Bergson e messo a punto negli anni delle sue battaglie polemiche a tutti i livelli con gli uomini di cultura del suo tempo. Affascinanti sono le pagine che Péguy dedica alla riflessione sui vangeli. Come nelle pagine di poesia e di prosa, anche in queste più specificamente spirituali o, per alcuni, mistiche, Péguy riesce a scoprire novità di significati e di contenuti, analizzando testi ascoltati da sempre e che in apparenza non avrebbero la possibilità di dire nulla di nuovo. Se è vero che è importante ascoltare la realtà, senza volerla anticipare con angusti sistemi di pensiero che rischiano costantemente di reprimerla, lo stesso vale nel rapporto con la Sacra Scrittura. Troppe volte, secondo Péguy, si è trattato la Scrittura come se fosse un pezzo di materia freddo e distaccato, anticipandone il senso attraverso una griglia concettuale. Ascoltare la Scrittura significa per Péguy anzitutto liberarla dagli schemi freddi del metodo moderno, per seguirla pazientemente dove lei vuole condurre il lettore, e cioè alla conversione del cuore.  Questa relazione stretta tra filosofia e religione, tra metodo intuitivo e poesia, è una delle caratteristiche specifiche dell’opera di Péguy. 

Non è possibile avvicinare un’opera così profonda e allo stesso tempo così poliedrica, come è quella di Péguy, esclusivamente per sottolineare eventuali simpatie o affinità di vedute. Simili operazioni culturali rischiano non solo di decurtare l’integralità di un messaggio, quanto soprattutto di distorcerne il senso autentico. Del resto, Péguy sembra abituato a simili strumentalizzazioni. Se, infatti, si sfogliano le pagine dei suoi biografi, lo si trova tratteggiato con le sfumature più disparate: anarchico, socialista, comunista, rivoluzionario, reazionario, cattolico, mistico. Dinnanzi ad una tale varietà di opinioni viene spontaneo chiedersi chi sia realmente Péguy e quale sia in sostanza il suo messaggio. Per questo motivo organizzare un convegno di studi nel centenario della morte potrà servire non solo per conoscere e approfondire alcuni aspetti della sua opera, ma soprattutto per verificarne la sua attualità.

C’è un aspetto dell’opera di Péguy che è centrale e che può essere considerato il perno attorno al quale muove tutta la sua produzione culturale ed è il modo d’intendere il tempo presente. E’ nel presente, infatti, che Péguy individua il centro fondamentale a partire dal quale è possibile cogliere la realtà. Tutto dipende da come lo si ascolta, da come lo si percepisce o da come lo si modifica. Il presente è dunque il punto nel quale si manifesta la realtà. Cogliere il presente significa afferrare il nuovo, ciò che non era. E’ nell’immediatezza del tempo presente che occorre situarsi pena l’esclusione subitanea dalla percezione della realtà. Per l’uomo che vive nel tempo non vi sono a disposizione spazi illimitati, ma semplicemente un punto, che per propria natura non può essere irrigidito, fissato, solidificato. Il presente è mobile: è questa la consapevolezza che pone all’uomo la necessità di non sfuggire questo punto prezioso, che è un punto vitale, anzi è il punto vitale. Non c’è tempo da perdere: “Essere in anticipo, essere in ritardo, quali inesattezze. Essere in orario è la sola esattezza”. La mobilità quale caratteristica peculiare del tempo presente, non può che essere descritta con termini plastici: elastico, libero, vivo, gratuito, fecondo.

Nel presente vi è la novità del reale, una novità che è donata gratuitamente e che impone all’uomo, sorpreso da un tale gesto, una ricomprensione. Il problema è che la vita nel presente è inquietante, perché è il punto dal quale sgorgano le novità della realtà. La caratteristica della mentalità moderna che si è sviluppata nel mondo Occidentale, secondo Péguy, consiste nell’aver messo in atto una serie di strategie per difendersi dalla mobilità e quindi dall’inquietudine che il presente provoca. La prima di queste è l’utilizzo del passato poiché è fermo, rigido e soprattutto lo si può osservare e schedare. L’uomo moderno ha imparato a narcotizzare il presente trasformandolo (snaturandolo) in passato. Basta trasferirsi mentalmente nel futuro e da quella piattaforma artificiale di sicurezza osservare il presente come se fosse passato, che il gioco è fatto. Quando il travisamento del tempo presente è in atto allora tutta la storia che ne scaturisce ne subisce le conseguenze. Se, infatti, leghiamo il presente allora tutto è legato. Se conserviamo libero il presente, soltanto allora le altre libertà potranno essere risparmiate.

Il mondo moderno indurendo, legando il presente, ha devitalizzato la realtà. La difficoltà di conoscere il presente unita a quello che Péguy chiama il mostruoso bisogno della tranquillità, hanno fatto sì che l’uomo non gusti la vita nella sua essenza. L’uomo ha smesso di vivere perché non si trova più là dove la vita sgorga. L’uomo si è voluto situare in un tempo artefatto, un tempo presente-passato che è un tempo di morte. “E’ l’aridità del cuore e l’aridità della razza, che sono le due grandi e spaventose invenzioni moderne, le due grandi forme moderne dell’annientamento stesso del mondo”. Il fiume della realtà è stato dunque dirottato dal mondo moderno in un canale. La forza, la dinamicità, l’impetuosità del presente è stata placata. L’uomo moderno si illude di vivere nel fiume della realtà, della vita, invece si trova ad essere nel canale dell’abitudine, della memoria, della morte. Il mondo moderno vive nel tempo dell’abitudine. Il mondo moderno è come un bosco morto e gli esseri che vi sono, vivono una realtà di morte. “La morte di un essere è il suo riempirsi di abitudine, il suo riempirsi di memoria, cioè il suo riempirsi di invecchiamento, cioè il suo riempirsi di sclerosi e di ogni indurimento”. Possono sembrare quelle di Péguy delle mere elucubrazioni intellettuali, ma in realtà non è così. Serviranno queste riflessioni sul tempo presente per capire le difficoltà di tutta una generazione che si è abituata a vivere nel passato, di abitudini, di pensieri precostituiti, a incontrare Il Signore della storia, che si manifesta nell’oggi della nostra vita. Come disse Gesù a Zaccheo: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa”. Se, però, noi non viviamo nell’oggi come facciamo ad incontrare Gesù che è vivo ed è presente nell’oggi della storia?




LA SPERANZA DELLA SALVEZZA IN CHARLES PEGUY





Paolo Cugini

La speranza non è una virtù come le altre. Nella speranza Péguy legge il mistero dell’amore infinito di Dio per le sue creature. La speranza dice anche il senso autentico e specifico del Dio di Gesù che è racchiuso nel mistero dell’Incarnazione. Il Dio che ha inviato il suo Figlio per la salvezza dell’uomo non può che essere il suo creatore. Lo si riconosce dall’amore, dalla sofferenza, dalla speranza con cui segue la sua creatura. Chi avverte la sofferenza di Dio nel proprio cuore, per la possibile dannazione della propria anima, non può che lasciarsi andare e correre verso le braccia dell’unico Padre. Questa profonda sensibilità spirituale è sottesa in tutta l’opera mistica di Péguy e inizia a manifestarsi con tutto il suo vigore nelle riflessioni che svolge a proposito della speranza. Il peccatore è la situazione spirituale che mostra chiaramente il punto nel qale Dio si è collocato: “Dio che è tutto ha avuto qualcosa da sperare, da attendere da quel miserabile peccatore; Da quel nulla. Da noi. E’ stato messo a questo punto, in questa condizione da aver da sperare, da attendere da quel miserabile peccatore. Colui che tutto ha bisogno di ciò che non è nulla. Colui che può tutto non può nulla senza colei che non può nulla”.

La speranza è la virtù più importante perché ha stravolto il senso della creazione. Da quando, infatti, esiste una pecora smarrita Dio si è messo al suo servizio: il Creatore dipende dalla sua creatura. Il senso di questo radicale stravolgimento è ancora più ampio se si pensa a ciò che Dio ha fatto e provato per lui nel momento dello smarrimento. Elei, la speranza, che ha fatto questo capovolgimento più forte di tutto, questo rivolgimento che tutto ciò che dobbiamo fare per Dio, è Dio che ci previene, che comincia a farlo per noi. L’uomo è libero di essere infedele a Dio e così facendo può perdersi, dannarsi. Dio freme per questa possibile dannazione e spera che l’uomo ritrovi la strada della salvezza. L’uomo può, così, mandare a monte il progetto di salvezza di Dio: l’uomo può far fallire i piani di Dio! L’uomo può, dunque, far fallire tutto perché può non essere presente nel giorno della sua chiamata. Péguy sembra quasi arrabbiarsi con Dio per quello che lui chiama un’imprudenza, un’eccessiva fiducia, una mancanza di previsione. Bisogna, però, aver fiducia anche perché in cielo con Dio vi sono due razze di santi – quelli che provengono dai giusti e quelli che provengono dai peccatori – a pregare affinché nulla vada perduto. 

Delle tre parabole sulla speranza – la parabola della pecorella smarrita, la parabola della dracma smarrita, la parabola del figliol prodigo – quest’ultima è per Péguy la più bella e la più cara. Nessuno può resistere alla grazia contenuta in questa parabola. La parabola del figliol prodigo racchiude in sé una forza particolare: “solo a pensarci un singhiozzo vi sale in gola”. Non solamente è la parola di Gesù che è arrivata più lontana, ma è la sola che il peccatore non ha mai fatto tacere nel suo cuore. Quando, infatti, il peccatore si allontana non ha più riguardo di nulla e getta via i beni più preziosi come una zavorra ingombrante. C’è, però, una parola che nemmeno il peccatore avrà la forza di gettare nei rovi e questa parola è la parabola del figliol prodigo, che ha come caratteristica peculiare quella di seguire l’uomo dovunque vada, persino nei più grandi allontanamenti.

La grandezza della parabola del figliol prodigo sta dunque nel fatto che è lei che insegna che non tutto è perduto. Ed è qui che il dilemma della dannazione eterna trova una risposta risolutiva. Questa parabola, infatti, insegna – così come la legge Péguy – che non esiste peccato tanto grande da far disperare Dio e di abbandonare per sempre la sua creatura. Dio spera che il figlio torni e, in questa attesa, soffre per il suo smarrimento. L’uomo non deve temere, non deve disperare perché troverà sempre, in qualsiasi momento lui vorrà, il Padre pronto ad accoglierlo tra le proprie braccia. 

Se Péguy insiste tanto sulla speranza è perché conosce molto bene in che condizione l’uomo vive la propria esistenza di ogni giorno. La legge della materia, infatti, è la degradazione e l’uomo rischia in ogni istante di ritenere che persino lo spirito partecipi a questa legge. Del resto, il progressivo invecchiamento, le abitudini non sono altro che l’esperienza quotidiana della finitudine che predispone l’uomo alla rassegnazione o, nel peggiore dei casi, alla disperazione. Ecco, allora, il grande compito della Speranza. Essa deve continuamente spezzare gli irrigidimenti che l’abitudine costruisce e che non permette alla grazia di penetrare, deve immettere la fiducia “che andrà meglio nell’indomani mattina. Proprio l’indomani mattina. Tutti i giorni da quando ci sono i giorni. E che si leverà un sole migliore”. Compito davvero ingrato quello della speranza, perché sono innumerevoli i giorni che possono smentire questa illusione, questa convinzione assurda che il giorno di oggi sarà un giorno migliore.

La speranza, però, non guarda all’apparenza e non ragiona secondo la logica dell’uomo. Differisce, inoltre, dalle altre due virtù, le sorelle maggiori, “che camminano come le persone grandi […] si comportano con decenza”. La speranza, invece, è come una bambina che partecipa ad una processione; “Lei non è mai stanca. Guardate un po’. Come cammina. Corre avanti venti volte, come un cagnolino, ritorna riparte, fa la strada venti volte. Lei si diverte con le ghirlande della processione[…] Vorrebbe camminare tutto il tempo. Andare avanti. Saltare. Danzare. Lei è così felice”. La speranza è il dono più grande che Dio poteva fare all’uomo, perché non gli dà pace. Non gli permette, infatti, di stancarsi della strada percorsa e di sedersi sulle macerie dei propri fallimenti, delle proprie disillusioni, delle proprie abitudini. La speranza prende continuamente l’uomo per mano e gli fa percorrere venti volte la stessa strada che è la strada che dallo smarrimento, passando per il pentimento, giunge al perdono. Se è vero che ad uno sguardo umano questo continuo ripercorrere gli stessi passi, la stessa strada può apparire un fallimento, dobbiamo stare attenti, però, a non traviare il senso che Dio vuole dare anche a questo modo di camminare. Sulla via della santità l’uomo non deve preoccuparsi di percorrere tante volte lo stesso cammino del pentimento. L’inganno che la speranza sembra operare ai danni dell’uomo in realtà si rivela come un lavoro preziosissimo per la sua salvezza. L’uomo, però, non subisce passivamente l’irruenza di questa bambina che lo prende per mano e sembra quasi obbligarlo a percorrere una strada che lui non vuole. In realtà segretamente nel nostro cuore ci facciamo suoi complici: “Affinché ci inganni. In fondo sappiamo benissimo cosa significhi tutto ciò. E quella sorda complicità che abbiamo con lei. E’ ciò che abbiamo in noi di più gradito a Dio”. Lasciarsi prendere per mano dalla speranza significa lasciarsi condurre alla propria essenza. A questo punto del discorso Péguy trova la risposta ad uno dei problemi fondamentali del suo pensiero: quale senso, quale direzione offrire all’inquietudine strutturale dell’uomo? Solo nel presente l’uomo può percepire ed ascoltare il fragore che l’Incarnazione del Verbo ha prodotto. Per potere cogliere i suoni di trascendenza presenti nella realtà, occorre all’uomo quel lungo tirocinio di spoliazione, di abbandono che solo la bambina speranza può produrre. Lo scopo della speranza consiste proprio nel fiaccare le resistenze dell’uomo, che tende a non fidarsi di nessuno se non di se stesso.  C’è una la logica perversa che attanaglia il cuore dell’uomo e gli fa credere che la vera saggezza sia contenuta nella massima: non rimandare a domani ciò che puoi fare oggi stesso. È la logica che tiene sveglio l’uomo e non lo lascia dormire e così adagiarsi sul letto della Provvidenza divina, che si trova in una logica diametralmente opposta a quella umana: “E io dico: colui che sa rimandare al domani è quello che è più gradito a Dio. Colui che dorme come un bambino è anche colui che dorme come la mia cara Speranza. E io dico: rimandate a domani quelle preoccupazioni e quelle pene che oggi vi rodono e oggi potrebbero divorarvi. Rimandate a domani quei singhiozzi che vi soffocano quando vedete l’infelicità di oggi”.

Solamente l’uomo che ha già assaporato l’amore misericordioso di Dio, solamente colui che ha già percorso il cammino dell’abbandono e della spoliazione può indicare agli altri il coraggio di rischiare. Le pagine di Péguy qui commentate, possiedono quella forza che non è semplicemente persuasiva. E l’invito appassionato di un uomo che con sua grande sorpresa si trova avvolto da un amore immenso, insospettate e desidera che tutti partecipino alla sua gioia. E’ lo stupore del figliol prodigo che per tutto il tragitto del ritorno pensa a tutti i lavori più umili da eseguire pur di rimanere nei pressi della casa, e ritrova fra le braccia del Padre festeggiato da tutti.

mercoledì 28 gennaio 2015

LE DONNE NELLA COMUNITA' DI GESU'





INCONTRO CON LA TEOLOGA MARIA SOAVE BUSCEMI

Paolo Cugini

Moltissima gente, soprattutto donne, si sono fatte presenti lunedì 22 settembre presso la chiesa di San Paolo in Città. La teologa Maria Soave Buscemi - italiana che da circa 25 anni lavora in Brasile al CEBI (Centro Ecumenico di Studi Biblici) – ha parlato delle donne nelle comunità di Gesù. Un tema significativo anche in prospettivo di quanto il Papa Francesco viene dicendo. C’è voglia di sentire parlare delle donne nella chiesa, anche perché nonostante i proclami e i documenti ufficiali, le donne ancora oggi non trovano grande spazio, non solo nella società Occidentale, ma anche nelle istituzioni religiose. Significativo, anche che a parlarne sia una teologa, una donna, che vive quindi sulla propria pelle un modo di essere periferia, in secondo piano. Soave Buscemi ci ha parlato portando in rilievo la voce delle donne latinoamericane, la voce di una chiesa – quella di provenienza di Papa Francesco – dove, nonostante tutto, le donne sono protagoniste. Secondo, infatti le stime ufficiali, alla domenica, le celebrazioni nelle centinaia di migliaia di Comunità di base (CEBs) per il 70 % sono realizzate da donne.  

Che cosa ci ha detto Soave Buscemi? Forse sarebbe più giusto chiedere come ce l’ha detto quello che aveva intenzione di dirci. Solitamente, in incontri come questi, si va per ascoltare una conferenza. Qualcuno parla, ci trasmette le sue riflessioni e poi, dopo un breve scambio di battute, si va a casa. Soave Buscemi, invece, fedele allo stile delle CEBs latinoamericane, in primo luogo ci ha fatto interagire tra di noi per alcuni minuti, permettendo così che si creasse un clima di simpatia e di attesa di risposte alle domande emerse nei dialoghi. E’ il metodo della lettura popolare della Bibbia: si parte dalla realtà, dal vissuto di coloro che si mettono in ascolto della Parola. E’ la comunità che diviene criterio d’interpretazione della Parola. E così, dopo averci fatti interagire, dopo averci condotti nella scoperta uno dell’altro, ci ha introdotto lentamente nel tema del giorno. Lo ha fatto ponendoci di fronte due testi di Marco che narrano lo stesso evento: la divisione dei pani. In realtà questi due testi rivelano un cammino, e precisamente il cammino che una donna straniera ha fatto compiere a Gesù. Ciò che fa la differenza tra le due narrazioni sono i numeri. Al capitolo sei, infatti, si dice che raccolsero dodici ceste di avanzi, mentre al capitolo otto le ceste di avanzi sono sette. Dodici significa molta gente, mentre sette significa tutti i popoli. Paradossalmente, ci fa notare Soave Buscemi, in una lettura spirituale di questi dati, sette è più di dodici. Il cammino che Gesù compie tra la prima narrazione alla seconda, è allora un cammino nel quale realizza un ampliamento impressionante della prospettiva della salvezza, che passa dai molti, per lo più Ebrei, ai tutti, realizzando in questo modo il sogno di Dio già annunziato dai profeti (cfr. Am 9, 7). C’è un’altra riflessione che è possibile compiere sempre su questi numeri. Siamo, infatti, abituati a pensare al numero dodici come ad un numero positivo: le tribù d’Israele, il numero degli apostoli, ecc. In realtà nella Bibbia e nei Vangeli questo numero a volte assume connotati negativi. Nel capitolo cinque sempre del Vangelo di Marco viene detto che anche la figlia di Jairo ha dodici anni e anche la donna che tocca Gesù aveva un’emorragia che durava da dodici anni. Dodici nel tempo di Gesù era un numero che faceva sanguinare donne e morire bambine. Dodici, allora, può essere un numero buono, ma per le bambine no. Gesù si lascia toccare dalla donna. Continua la Buscemi: “Nel libro del Levitico (al capitolo 15) si dice che, se una donna in flusso di sangue ti ha toccato, tu sarai impuro. Essere impuro significa non poter accedere alla salvezza. Gesù entra nella lista degli impuri, rompendo una teologia fissa, del puro e dell’impuro. E Gesù diventa impuro assieme a questa donna. Gesù dice no alla religione che esclude donne e bambine in nome di Dio. Gesù non può permettere che la bambina muoia. Glielo dice in aramaico, nel dialetto del popolo. Bambina alzati da sola, tirati su”. 

Tra le due narrazioni della divisione dei pani e dei pesci, al capitolo sette c’è la narrazione dell’incontro di Gesù con un’altra donna. Gesù va nel territorio dei pagani. C’è una donna di un’altra religione e gli dice: mia figlia è attanagliata da uno spirito impuro. Di cosa si tratta? Può darsi che si tratti di fame, ci dice la Buscemi. E’ lo spirito impuro che più attanaglia i piccoli di questo mondo, anche oggi. Alla donna non interessa il pane, ma le briciole. Gesù imparò da ciò che patì, ci dice la lettera agli Ebrei. Io sono venuto per i nostri, sembra dire Gesù alla donna: non sono venuto per i sette ma per i dodici. “Dopo questo incontro con questa donna, Gesù cambia la missione, che non sarà più solo per i dodici, per i molti, ma per tutti, senza nessuna esclusione. Siamo chiamati ad accogliere tutti e tutte. E una donna straniera di un’altra religione lo ha insegnato a Gesù”. E se Gesù ha imparato da una donna, si è messo in discussione dinanzi alla fede di una donna, figuriamoci noi quanto abbiamo ancora da imparare e a metterci in discussione!
 Dobbiamo riscoprire, riascoltare, la presenza delle donne nella chiesa. Ascoltare come le donne hanno incontrato Gesù. Le semplici e profonde riflessioni di Maria Soave Buscemi, che hanno destato una grande impressione fra i partecipanti, non provengono solamente dai suoi studi esegetici realizzati in Brasile. Provengono soprattutto, dalla frequenza costante delle comunità di base, dal confronto con le donne afro-discendenti dei gruppi di lettura popolare della Bibbia, dagli incontri con donne e uomini delle chiese protestanti, non solo in Brasile, ma anche in Svezia e Sud Africa. Leggere la Parola a partire dalla vita reale di persone che abitano nelle periferie umane e religiose, permette di cogliere sensibilità nuove, punti di vista impossibili da cogliere da chi rimane sempre al centro. E allora, è davvero arrivato il tempo, come c’invita spesso a fare Papa Francesco, di ascoltare con più attenzione la parola delle donne, va dato loro sempre più spazio, se non vogliamo perdere una grande opportunità di conversione. Ce l’ha insegnato Gesù con il suo esempio.