mercoledì 30 settembre 2015

AMORE E CONTEMPLAZIONE




Paolo Cugini


Che cosa s'intende con la parola contemplazione?
Il verbo greco "thekamai", che nel nuovo testamento incontriamo per designare la contemplazione, significa vedere, gustare, osservare. Chi contempla, quindi, osserva, guarda. E’ l'uomo del Salmo 8 che rimane meravigliato, contemplando il cielo stellato e s'interroga sul senso dell'esistenza umana. È quindi un vedere con gli occhi della carne che conduce l'uomo dotato di ragione e di anima ad andare in profondità, ad interrogarsi intorno a ciò che sta vedendo, a cercare qualcosa di più profondo. I1 contemplativo è un uomo, una donna che cerca di vedere una realtà che sembra sfuggire al semplice dato sensibile. Rimanendo in compagnia dei salmi; la ricerca del contemplativo è orientata ad un volto misterioso.

"I1 tuo volto Signore io cerco, non nascondermi il Tuo volto" (Ps): “I cuori retti contempleranno il Tuo volto” (Ps 11,7); "Cercate sempre il suo volto" (Ps 115,4)

Il contemplativo è dunque un ricercatore, è l'uomo della ricerca interiore, che avverte l'esigenza di stare alla presenza di colui che sta cercando. "Procurare il volto del Signore", infatti, in origine significava andare a consultare Ihwh nel santuario (2 Sam 21,1) e, più in generale, vivere alla sua presenza.
Non c'è pace nel cuore del contemplativo fino a quando non incontra il volto del SUO amato (cfr. Cantico dei Cantici), per stare per sempre alla sua presenza, la quale è divenuta visibile in Gesù Cristo. In lui "la vita si è manifestata'` (1 Gv 1,2), si è fatta visibile: l'eterno è entrato nel tempo. Nonostante Gesù Cristo sia uscito, per così dire, dalla storia e si trovi seduto alla destra del Padre, prima di andarsene ha lasciato delle tracce inconfondibili della sua presenza terrena: il suo corpo e la sua Parola.
Se il contemplativo sente l'esigenza non solo di cibarsi del corpo di Cristo, ma anche di rimanere ore dinanzi all'Eucarestia è perché, in questo gesto, esprime il cammino interiore dell'uomo biblico. Colui che cercava il volto del Signore ora lo trova nell'Eucarestia e non desidera altro che stare alla sua presenza. Per fare cosa? Non è tempo perso? Il contemplativo è essenzialmente un cercatore di Dio e cerca Dio per entrare in relazione con Lui. Chi cerca con tanta passione Dio, con tutte le proprie forze, con tutto se stesso (Dt 6) non può che essere un innamorato e, l'innamorato, cerca la relazione intima con l'oggetto del proprio amore, che in questo caso è Dio. Anche se c'è chi ha dimostrato che l'adorazione eucaristica è nata in un contesto culturale devozionale, mi sembra che i riferimenti biblici sopra riportati, manifestino la fondatezza di tale atto cultuale. È di fatti l'antropologia biblica che rivela la struttura relazionale dell'uomo, struttura che è costantemente minacciata dal peccato, che porta l'uomo a chiudersi in sé in una relazione esclusivamente egoistica e autocentrata. Quando l'uomo, però, si lascia guarire da Cristo, ciò che genera questa guarigione è l'immediato ristabilimento della relazione con Lui.

Il contemplativo, passando ore dinanzi all'Eucarestia, manifesta il senso profondo dell'umanità guarita, risanata, che si apre alla relazione d'amore con l'amato. Chi ama, infatti, non può stare senza l'amato e il contemplativo diviene il segno nascosto dell'umanità riconciliata con Dio.

Nei Vangeli i fedeli sono invitati a contemplare il volto del Verbo che si è fatto carne, un volto che è possibile contemplare sotto tre angolature diverse: figlio, doloroso, risuscitato. Per cogliere gli aspetti di questo volto non basta leggere il Vangelo, ma occorrono due elementi: il dono della fede e lo sforzo dell'uomo. Di fatto, se è vero che per riuscire a scorgere nei Vangeli il volto di Cristo occorre una "grazia di rivelazione" che solo il Padre può dare, dall'altra parte I ‘uomo deve creare le condizioni affinché la grazia possa illuminare la mente. Solo l'esperienza del silenzio e della preghiera offrono un ambiente adeguato per maturare e sviluppare una conoscenza vera di quel mistero espresso nel prologo di Giovanni: "E il Verbo si fece carne e abitò in mezzo a noi, e noi abbiamo visto la sua gloria, gloria che gli viene dal padre come Figlio unico, pieno di grazia e verità" (Gv 1,14).

L'icona della persona contemplativa è senza dubbio il brano di Luca 10,31-42 che narra l'incontro di Gesù con le sorelle Marta e Maria nella loro casa. In quanto Marta era tutta indaffarata nei lavori domestici, Maria, dice la scrittura, "si sedette ai piedi del Signore e ascoltava la sua Parola" (Lc 10,39). Non si può commentare questo brano semplicemente affermando un primato, in questo caso dell'ascolto sull'azione entrando in sterili ed inutili polemiche. Riflettendo attentamente, infatti, sulla pericope, l'atteggiamento di Maria lascia intravedere un'attenzione, una cura per il Signore che, più che rivelare delle priorità da imporre alla chiesa, manifestano l'autenticità di una relazione pura che nasce dal cuore di Maria. Per Maria, la sorella di Marta, mettersi ai piedi di Gesù per ascoltarlo è tutto fuorché uno sforzo: è un'esigenza che nasce dalla sua personalissima relazione con il Signore.

Altro brano che ha il valore di icona per la vita contemplativa lo si incontra sempre nel vangelo di Luca. "Sua madre serbava (conservava) tutte queste cose nel suo cuore" (Lc 1,51). È l'immagine che mostra il cammino che la Parola compie in colui che la ascolta con il cuore. La Parola è serbata, accolta, perché cresca e maturi nel silenzio.
Significativo è il fatto che il verbo greco che in italiano è tradotto con "accogliere" non sia mai riferito nel nuovo testamento alla Parola ma ad una persona. Si accoglie una persona. Che cos'è, infatti, la Parola se non la Persona per eccellenza? Serbare la Parola ascoltata perché maturi e porti frutto, richiede un'accoglienza silenziosa e riservata. Ed è ciò che si vive nell'esperienza contemplativa: lasciare maturare dentro di sé la Parola, il Verbo perché possa essere donato. Non si dona infatti se non ciò che si possiede e, l'unica realtà che il contemplativo intende donare è la Parola, il Verbo. Mi sono dilungato un po' a riflettere su questo aspetto perché mi pare centrale per cogliere la figura del contemplativo. Questo, infatti, non è semplicemente l'uomo del silenzio e dell'adorazione, ma prima di tutto dell'ascolto orante della Parola.

L'esperienza mistica che scaturisce dalla vita contemplativa non si esaurisce nella ricerca di un volto, di una presenza misteriosa incontrata nella Parola e nell'Eucarestia. A differenza, infatti, della tradizione della mistica ortodossa che, a detta del suo maggior divulgatore Vladimir Lossky, è essenzialmente apofatica e cioè non si pone il problema né di imitare l'amato né di descriverlo logicamente, ma di narrare le meraviglie, per il contemplativo di tradizione cattolica l'imitazione è parte integrante del mistero che contempla. La relazione profondissima che il contemplativo instaura con l'Amato, lo conducono dentro un percorso spirituale di identità e differenza con l'Amato.

La ricerca della povertà materiale, di luoghi silenziosi, di una vita umile e casta, di elezioni umane con i più abbandonati, la ricerca, in definitiva, dell'ultimo posto fa parte integrante della vita contemplativa che non solo si ferma ad ascoltare ed ad osservare l'amato, ma gli obbedisce in un cammino personale di imitazione.

Paradossalmente, al contrario di quello che si è soliti pensare, i contemplativi sono persone molto attive, attente ai problemi dei tempi; non comunque un attivismo senza senso e schizzofrenico, bensì un'azione chiaramente e lucidamente orientata dal rapporto profondo e silenzioso con l'Amato. L'imitazione di Cristo segna profondamente la vita del contemplativo, che vuole seguire l'amato nelle forme storiche in cui si è manifestato. La santità diventa in questa prospettiva, un cammino interiore che costantemente si esteriorizza, si fa carne, storia.

Lungi da uno spiritualismo disincarnato, la vita contemplativa non solamente si manifesta in un cammino di imitazione a Cristo, ma sfocia in una cita di relazione. La ricerca dell'Amato, una ricerca interiore anzitutto, conduce ad aprirsi ai fratelli ed alle sorelle. E così quelle parole che troviamo nel Vangelo di Giovanni "avendo amati i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine" (Gv 13,1), che rivelano una relazione amicale, di fraternità tra Gesù e i suoi discepoli, la ritroviamo nella vita dei contemplativi. Del resto, se è nella relazione che passa il Vangelo, non può non trovarsi la vita relazionale nelle persone chiamate alla relazione profonda con il Signore. La relazione amicale e fraterna con i fratelli e le sorelle rivela poi, la bontà della vita contemplativa. Se, infatti, la vita trascorsa in ginocchio davanti al Signore, meditando la Parola non genera una vita di relazioni umane libere ed autentiche, significa che qualcosa di inautentico è intervenuto nella vita contemplativa.

Non basta, allora, sentire la chiamata alla vita contemplativa per divenire dei contemplativi. Questa chiamata, come del resto qualsiasi chiamata che viene da Dio, si riferisce a persone che vivono nel tempo, in cammino nella storia, soggetta ai condizionamenti culturali, atta all'influenza del mondo del peccato. Ciò significa che il contemplativo, come qualsiasi battezzato, deve continuamente lavorare su di sé, per permettere alla grazia di modificare e plasmare la natura personale. È importantissimo che il contemplativo non si nasconda dietro al carisma, ma prenda sul serio il miglioramento della propria struttura personale. Ne va della credibilità della stessa vita cristiana. Se, infatti, colui che per vocazione è chiamato ad un rapporto particolare e intenso con il Signore, manifesta inconsistenze e lacune nella propria vita personale e relazionale, come potrà essere segno della presenza del trascendente nella storia? La vita contemplativa autentica, spinge allora ad un continuo sforzo non solo di perfezionamento personale, ma anche di cura della relazione. È in questa prospettiva, in forza anche delle considerazioni sopra esposte, che mi sembra di poter affermare che non ci può essere missione senza contemplazione e, allo stesso modo, non ci può essere contemplazione che non produca un movimento verso l'esterno. È chiaro che i due momenti rimangono costantemente in tensione. Spetta, allora, al discernimento personale e comunitario, stabilire i criteri di un cammino in cui missione e contemplazione non siano percepiti come poli opposti di un sistema, ma complementari nel processo di evangelizzazione.


venerdì 25 settembre 2015

NUOVO LIBRO: LA FUGA DI ELIA




LA FUGA DI ELIA
Riflessioni postmoderne sulla religione e il senso della vita


E' in uscita in questi giorni il mio nuovo libro. Qui di seguito alcuni passaggi tratti dall'introduzione.

Chi aprisse questo libro pensando di trovare studi di esegesi sulla figura di Elia, lo può chiudere subito. Queste pagine, infatti, sono un’altra cosa. Ho scelto Elia e la sua fuga, così com'è narrata in 2 Re 19, come un pretesto, un’immagine per racchiudere una serie di riflessioni che in questi anni ho realizzato sul modo di vivere la fede e di stare al mondo. Sono un presbitero cattolico che celebra liturgie, riti, che predica la Parola, che vive all'interno di un’istituzione religiosa e che spesso e volentieri ha vissuto la sindrome di Elia, il desiderio della fuga, di buttare tutto all'aria, di cambiare aria dentro e fuori di sé.
La fuga mi sembra una di quelle immagini che più di ogni altra sono un paradigma della cultura del nostro tempo. C’è una tendenza nell’uomo e nella donna di fuggire da se stessi, dai propri impegni, per cercare altro. Si fugge perché si vive male nel proprio stato di vita e si cerca qualcosa di migliore altrove. La fuga è movimento e, allo stesso tempo, genera il mito dell’altrove, dell’isola felice, della possibilità che esista un luogo immaginario nel quale la vita sia felice.
Se sino a qualche decennio fa il contesto religioso e morale nel quale si viveva impediva o fungeva da forte deterrente ad ogni tentativo di fuga, soprattutto rispetto alle scelte così dette definitive, oggi non è più così. La crisi dei valori tradizionali venutasi a creare all'interno della cultura Occidentale, rende sempre più possibile la fuga dalla propria situazione esistenziale percepita come negativa. Oggi esistono sempre meno punti d’appoggio esterni per prendere forza nei momenti di difficoltà o di messa in discussione del proprio vissuto. E’ difficile trovare qualcosa d’esterno che ci motivi nelle scelte fatte.
E’ cambiata anche la stessa idea di scelta. La cultura postmoderna non attribuisce un grande valore alle scelte così dette durature. Diviene, invece importante la capacità di variare, di cogliere l’occasione del momento. La velocità dei cambiamenti culturali nei quali siamo immersi, sembra richiedere la disponibilità a cambiare in modo rapido, accompagnando la novità più che la fedeltà a scelte fatte. E così, ciò che era considerato virtuoso e carico di valore, non sembra più aver un grande peso nel nuovo contesto culturale.
Il desiderio di credere nei sogni, di credere che tutto sia realizzabile, che ciò che noi pensiamo si possa realizzare nella vita, lo incontriamo nella nostra anima, nella nostra coscienza.  Ciò vale anche per un discorso di fede, soprattutto nelle prime fasi del cammino, quando gli occhi si aprono e si vede la realtà in un modo nuovo. Si vorrebbe che tutti vedessero quello che noi vediamo, o meglio, che vedessero la realtà così come la stiamo vedendo. E’ come sfogliare le pagine del Vangelo o degli Atti degli Apostoli: in essi viene descritto la vita armoniosa delle prime comunità. C’è il rischio di passare la vita a credere che sia possibile rimanere sempre in una situazione così paradisiaca.  E invece non è così, anzi, lentamente ci accorgiamo che tutto gira al contrario di ciò che noi vediamo, che tutto sembra andare all’opposto di ciò che noi pensiamo.
Le lotte che Elia ha portato avanti durante la sua vita contro i falsi profeti e contro le ingiustizie del Re Acab e di sua moglie Getzabele, sono nell’ordine della fiducia che un mondo migliore sia possibile. In fin dei conti, senza questa speranza, la vita diventa un inferno o, peggio ancora, si arena nelle sabbie della routine quotidiana che sfocia lentamente nell’apatia o nella monotonia di un percorso senza slanci.
Ed Elia ad un certo punto non ce la fa più, scoppia, getta la spugna. Reazione umana e normale di una persona che, dopo averne passate tante, ad un certo punto non riesce più a vedere la cima della montagna, non riesce più a cogliere l’obiettivo della lotta. A questo punto le fatiche diventano senza senso e il peso della vita insopportabile. Fuga dentro il deserto alla ricerca di se stessi, per capire dove si è rotto l’incantesimo, in quale istante si è smarrito la strada.
 Accade proprio così nella vita. Può, infatti, capitare che ad un certo punto del cammino ci si trovi fuori strada, così per caso, senza averlo calcolato, né senza averci troppo pensato. A quel punto non si sa più che cosa fare e da dove cominciare per raggomitolare il filo della vita e cercare il punto d’inizio, o il punto spezzato. Alcuni continuano come se niente fosse, schiacciando il più possibile dentro di sé il proprio dolore. Altri fuggono per scaricare il proprio ingiusto dolore su qualcos’altro, che spesso e volentieri coincide con qualcun altro. Altri ancora prendono la situazione conflittuale per fermarsi e cercare di riprendersi, di valorizzare le scelte passate.
La fuga di Elia nel deserto, in queste pagine è presa come modello di una duplice fuga. La prima è la fuga esistenziale dalle proprie scelte definitive. E’ il tipo di fuga che la cultura postmoderna sta agevolando. E’ il sogno della possibilità di ripartire da zero, di ricominciare di nuovo, di scartare il passato, con tutto quello che c’è dentro, comprese le persone.
L’altro tipo di fuga è invece il percorso interiore che una persona decide di fare per capire se stessa. Fuga da un modo ripetitivo di vivere le proprie scelte per rimotivarle. Fuga non tanto per prendere le distanze dalle scelte fatte, ma per viverle meglio. Fuga quindi per riuscire a rimanere con maggior autenticità dentro il proprio vissuto liberamente scelto.
 Nelle pagine che seguono (nel libro) vengono condivise alcune riflessioni che tengono la fuga di Elia come punto di riferimento, ad un duplice livello. Nel primo, la riflessione si concentra su alcune tematiche religiose ed esistenziali nella ricerca di significati nuovi per il nuovo contesto culturale. Sono, dunque riflessioni critiche che hanno l’obiettivo di cercare cammini nuovi, mettendo in discussione le modalità tradizionali di pensare e vivere la fede.

Nel secondo vengono descritte le riflessioni che Elia produce durante la sua crisi esistenziale che lo spingono nel deserto. E’ una fuga non tanto per fuggire da se stesso, ma per riprendersi in mano, per rimotivare la propria esistenza. E’ una fuga per rimanere in un modo nuovo nelle scelte realizzate nel passato. 

mercoledì 23 settembre 2015

MANIFESTAZIONE SVEGLIATI AEMILIA!



SABATO 26 SETTEMBRE ORE 9,30
Ciò che è successo il 28 gennaio 2015 era ormai annunciato da tempo: la regione Emilia-Romagna ha visto 117 arresti tra affiliati, politici e imprenditori ritenuti vicini al clan 'ndranghetista Grande Aracri.

L’ormai famosa operazione 'Aemilia' ha colpito, contemporaneamente, in Emilia, Lombardia, Piemonte, Veneto, Calabria e Sicilia, per un totale di 160 persone fermate. Da quel giorno è partita una raffica di sequestri (oltre 400mln di euro!), altri arresti, avvisi di garanzia e indagini collaterali che porterà a processo ben 242 persone (avete letto bene, 242!!), tutte ritenute vicine alla ‘ndrina Grande Aracri! A breve inizieranno le udienze per questo nuovo maxi-processo della storia italiana, il secondo, dopo Black Monkey contro i Femìa, in Emilia-Romagna contro la ‘Ndrangheta, la più potente mafia italiana!

Le forze dell’ordine stanno facendo il loro lavoro ma per dare un segnale forte è necessaria la mobilitazione di tutta la società civile. Per gridare il nostro rifiuto unanime contro la corruzione e la criminalità organizzata.

Per questo vi chiediamo di essere al nostro fianco, per questo vi chiediamo di non girarvi dall'altra parte, per questo vi chiediamo di gridare insieme a noi SABATO 26 SETTEMBRE 'SVEGLIATI AEMILIA!'

ORE 9.15 CONCENTRAMENTO IN PIAZZA GIOBERTI (RE)
ORE 9.30 PARTENZA CORTEO
ORE 10 ARRIVO A PARCO CERVI E INIZIO INTERVENTI
ORE 12 FINE MANIFESTAZIONE

L’iniziativa è organizzata da Libera Emilia-Romagna, associazione Cortocircuito, movimento Agende Rosse di Salvatore Borsellino, associazione Colore.


martedì 15 settembre 2015

UN CAMMINO DI CHIESA

ARCHVIOBRASILE




LETTERA CIRCOLARE
(Luglio 2006)

Paolo Cugini

 Ormai mi sto abituando e ogni sei mesi circa, scrivo una lettera circolare, un testo che mi serve per riflettere su ciò che sto realizzando come missionario e, allo stesso tempo, mantenere un legame con le persone che conosco in Italia.
Inizio condividendo alcune esperienze pastorali, per passare, poi, ad alcune riflessioni.

1.Come già vi scrivevo nella lettera precedente, il grande problema di Tapiramutá è l’alto indice di persone che emigrano in cerca di lavoro finendo, spesso, nelle mani di sfruttatori senza scrupoli. Ciò provoca la difficoltà di organizzare soprattutto nella zona rurale, una vita di comunità. Oltre a ciò, c’è anche il fatto che da maggio ad ottobre moltissime persone sono impegnate nella raccolta del caffè e dei fagioli e, di conseguenza, durante la settimana è difficile organizzare qualcosa. A dire il vero questo discorso no vale solo per la zona rurale, ma anche per la città. Ieri sera, per esempio, sono stato in uno dei quartieri della città per celebrare un Messa. Quando sono arrivato nella casa, ho trovato solo due bambini e un giovane, il quale mi ha detto che i due camion che trasportano le persone nelle fazendas del caffè, dovevano ancora tornare. Mi sono, così adeguato e, dopo due chiacchiere con Antonio, il giovane preasente, me ne sono tornato a casa. In ogni modo non è stato tempo perso. Infatti, parlando con Antonio sulla situazione difficile del quartiere che il nome stesso- strada del bicchiere- ne rivela la qualità, abbiamo deciso di iniziare un’esperienza di prima evangelizzazione per i bambini e lui stesso si è offerto per essere il catechista. Antonio ha 26 anni, si é battezzato la notte di Pasqua e sta frequentando il catechismo per ricevere il sacramento della Cresima. Abbiamo deciso di iniziare l’esperienza in una casa vicino alla sua che, per l’affitto mensile, il padrone chiede 30 reais, che corrispondono a 12 euro circa.

 Per alcuni mesi ho concentrato il lavoro pastorale nelle comunità soprattutto il fine settimana, anche a causa dell’insegnamento alla facoltà teologica di Feira Santana che mi occupa da lunedì a mercoledì, ma non sono molto soddisfatto. Ricco della esperienza di Miguel Calmon, in cui passavo la settimana intera in una regione visitando le comunità, organizzando incontri nelle scuole, visitando le famiglie, oltre che naturalmente celebrare le Messe, mi sembra di perdere tempo. Faccio fatica, infatti, a ridurre la mia azione pastorale nelle comunità semplicemente con una Messa. Questo vale soprattutto in questo contesto, nel quale in quasi nessuna comunità ci sono le condizioni per celebrare una santa Messa. Di fatto, solamente in due comunità delle venticinque che sto attualmente seguendo, ci sono ministri della Parola laici che celebrano la liturgia domenicale. Oltre a ciò, c’è il dato di fatto che quasi nessuno ha ricevuto il sacramento del matrimonio e solamente in due comunità é stata celebrata una prima Eucaristia. Del sacramento della penitenza neanche a parlarne: in 17 mesi di Tapiramutá ho confessato 6 persone. Anche per quanto riguarda i funerali i numeri sono gli stessi. L’unica cosa che la gente chiede è il Battesimo dei figli. É a partire da questa richiesta “religiosa” che sto impostando il lavoro pastorale nelle comunità.
 Con il Nuovo Testamento in mano cerco di aiutarli a capire che il Battesimo è legato alla vita della comunità (1 Cor 12, 1ss), che per salvarsi non basta il Battesimo, ci vuole la conoscenza della Parola di Dio ( Mt 28, 16ss) e la fede ( Mc 16, 12ss). Oltre a ciò, conforme una proposta della diocesi, ho tolto tutte le tasse sui sacramenti per incentivare la pastorale della decima, sensibilizzando i fedeli a contribuire mensilmente conforme le possibilità di ognuno, per il mantenimento della parrocchia. Nonostante queste agevolazioni i battesimi nel 2005 sono passati dai 421 del 2004 a 46!. Quasi nessuno mi chiede più di battezzare i propri figli. Si è sparsa la notizie che il nuovo parroco è molto esigente. La verità è che sto pagando il prezzo di secoli di sacramentalizzazione, di identificazione della Chiesa con la pura e santa materialità dei sacramenti, senza il minimo sforzo di spiegare che cosa era quel rito al quale stavano partecipando. É vero che era un’altra epoca e altri tempi, ma continuare con  lo stesso schema, oggi mi sembra assurdo. E allora, quando passano gli evangelici o i neo-pentecostali nelle case, con la bibbia in mano, mietono addetti tutti i minuti.

 Questo discorso potrebbe valere anche per l’Italia. Quanti battesimi di bambini si celebrano senza interrogarsi se i genitori e i padrini credono perlomeno in Dio o hanno una vita parrocchiale! L’ultima volta che sono venuto in Italia, nel 2002, sono stato invitato da un amico prete ad una celebrazione penitenziale, per confessare gli adolescenti che avrebbero ricevuto il sacramento della Cresima nella domenica seguente. Ricordo che ne ho confessati 19 e a tutti ho fatto la stessa domanda: “Partecipi della messa domenicale?”. Solo uno mi ha risposto di si. Qualcuno mi ha risposto dicendo che qualche volta partecipava. La maggioranza non metteva piede in Chiesa. Sono robe da pazzi. E pensare che si trattava del sacramento della Cresima, di cui tanto si parla, soprattutto per la possibilità che questo sacramento offre per offrire cammini più personalizzati e per un cammino di adesione alla fede più autentico e maturo.

. É chiaro che se la preoccupazione principale sono i numeri, le statistiche, si va avanti così, costi quel che costi. Se ci tenessimo un pò di più a fare in modo che i ragazzi incontrassero il Signore, forse personalizzeremmo di più la vita sacramentale e non forzeremmo i ragazzi a ricevere “qualcosa” di cui non sanno nulla e non capiscono perché i genitori e il parroco vogliono che partecipi.

 “Finito la cresima non metterò mai più piede in Chiesa”. Quante volte ho ascoltato questa frase, spesso piena di rabbia e di rancore! E non erano monellacci o monellaccie a dire queste cose, ma ragazzi e ragazze che avrebbero preferito passare il loro tempo altrove.

 Il cammino di fede é una proposta libera ed esige libertà. Dovremmo lavorare pastoralmente di più per coltivare questa libertà. Ed è quello che sto tentando di fare a Tapiramutá. Quando si presenta un ragazzo o una ragazza per fare l’iscrizione per partecipare della catechesi della Cresima, gli leggo la proposta che la parrocchia ha pensato. Questa proposta prevede, oltre alla partecipazione della catechesi, la partecipazione della messa domenicale, di ritiri spirituali e del gruppo di giovani del quartiere in cui vive. Dopo avergli letto, spiegato e dialogato sulla  proposta,  gli chiedo se se la sente di firmare per manifestare il proprio impegno personale su ciò che sta chiedendo alla Chiesa. É su questa firma che, con il consenso dei catechisti e dei coordinatori dei gruppi di giovani, si decide se continuare il cammino o interromperlo. Siamo così partiti lo scorso anno con 140 adolescenti per la catechesi della Cresima e attualmente ne sono rimasti 38.

Il problema non è correre il rischio di creare una Chiesa di élite, come qualcuno potrebbe pensare, ma dare valore e serietà alla proposta di Gesù. É chiaro che i modi e i metodi possono essere tanti, ma credo necessario tentare a tutti i costi di uscire dalla massificazione sacramentale, per creare spazi nelle parrocchie, in cui sia possibile incontrare il Signore, fare un’esperienza personale di Dio. Se no poi non ha senso sparare a zero sui movimenti o impazzire perché gruppetti di persone si incontrano in una casa per leggere la bibbia all'insaputa del parroco.
 Speriamo che a Verona lo Spirito Santo esageri un pò e provochi qualche decisione radicale per un cammino di Chiesa più evangelico e meno ipocrita.

Siccome abbiamo visto che in città le persone ancora non riescono ad identificarsi con le comunità formate una decina di anni fa, abbiamo deciso di attivare un maggior numero di circoli biblici settimanali. Dai sette dello scorso anno siamo passati a venti. In queste cose sono abbastanza spregiudicato. Delle persone che vedo partecipare maggiormente della vita della Chiesa, chiedo la disponibilità a guidare un circolo biblico.Tutti i venerdì sera, guido una specie di studio biblico, aperto a tutte le persone e, in modo particolare, per coloro che stanno accompagnando i circoli biblici della città.

 Come sempre l’esperienza iniziale é stata folgorante. Nella verifica che nel mese di maggio abbiamo fatto assieme al vescovo André, in visita pastorale alla nostra parrocchia, l’entusiasmo era alle stelle. Le note più positive sono venute da quelle persone che hanno accettato di avviare il circolo biblico nei quartieri della città da sempre abbandonati. In vari di questi circoli biblici sono già partite anche esperienze di catechesi sia di prima Eucarestia, che di Cresima.

Assieme alle vittorie abbiamo condiviso le prime sconfitte. In un settore della città, infatti, non riusciamo a coinvolgere le persone. Prima ho iniziato io, visitando per ben tre volte in circa due mesi, tutte le famiglie del settore. Alle messe che marcavo, però, non veniva nessuno. Tutte le volte mi trovavo da solo con le persone della famiglia della casa che ospitava la celebrazione. Assieme al consiglio pastorale, abbiamo deciso di insistere: due giovani si sono offerti, ma non è servito a molto. In altri due circoli biblici le persone che si erano rese disponibili per accompagnare, hanno cambiato città in cerca di lavoro. Nel prossimo consiglio pastorale valuteremo il da farsi.
Nonostante Tapiramutá non sia una delle città più grande della diocesi di Ruy Barbosa –in città vivono tredicimila persone e cinque mila nella zona rurale- ci sono ancora strade e quartieri che non siamo ancora riusciti a organizzare pastoralmente.

Questa mattina, per esempio, sono stato a visitare le famiglie di una di queste strade che ancora non rientrano nella programmazione parrocchiale. Ho approfittato dell’uscita dell’ultimo numero del giornale della parrocchia per presentarmi. Per la verità ho trovato molte porte chiuse per causa della raccolta del caffè: le famiglie escono alla mattina presto e ritornano alla sera verso le 19/20. Con le poche persone trovate in casa, mi sono presentato. “Buongiorno, sono il parroco di Tapiramutá: mi conoscete?”. Delle famiglie incontrate solo una ha risposto affermativamente. Quando chiedevo il motivo della non frequenza alla Messa domenicale, la risposta è stata la stessa: troppo distante e pericoloso. In realtà dove abitano  non ci sono lampioni e, di sera, non è igenico uscire al buio, per causa del pericolo di assalti o dei ladri che possono entrare in casa durante l’assenza delle persone. Porterò il caso al prossimo consiglio pastorale per vedere se c’è qualcuno che si rende disponibile per attivare un circolo biblico da queste parti.

Come già dicevo sopra, anche qui nella Bahia il problema della vita della Chiesa non è di facile soluzione. Siamo campioni del mondo in progetti sociali, ma se poi si tenta di vedere da vicino, non si capisce molto in che senso questi progetti siano segno della presenza di Cristo o di qualche cosa d’altro. Forse la colpa è anche un pò di noi missionari che presentiamo il volto povero della Bahia e parliamo poco della vita della Chiesa, non condividiamo con voi il cammino ecclesiale. E allora  succede che mentre nei progetti sociali siamo super avanzati, nella vita interna della Chiesa siamo all’epoca di Cabral, lo scopritore del Brasile. Siccome non sappiamo più che farne dei sacramenti, perché per alcuni sono retaggio dell’occidente colonizzatore,  inventiamo altre cose. Siccome siamo pigri per cercare di conoscere meglio la Tradizione della Chiesa per tentare cammini di inculturazione attenti alla realtà in cui viviamo, facciamo i moderni anzi i postmoderni e tutti i giorni ne inventiamo di nostre. E così c’è il prete bahiano che battezza cani e porci anche per fare qualche soldino e, poco più in la il prete italiano con le tasche piene di euro, che battezza gratis nelle decine di chiesette costruite con i soldi stranieri. E ancora, mentre in una parrocchia il prete carismatico celebra le messe con la benedizione finale usando l’ostensorio e invitando l’assemblea ad applaudire, dall’altra il prete socialista inventa di far celebrare la messa ai laici.

Aiutare le persone ad incontrare il Signore; questo dovrebbe essere lo scopo della pastorale. Ciò ha ancora più valore quando si tratta di persone povere, non solo per il fatto che è stato lo stesso Gesù a dire di annunciare il Vangelo ai poveri, ma anche per altri motivi che potremmo chiamare antropologici. Come ha, infatti, ricordato il papa Benedetto XVI nell'udienza con i vescovi del Gana, la povertà porta con sé situazioni umanamente degradanti. Chi è abituato a vivere in situazioni di povertà, a cercare di sopravvivere, a dare da mangiare a 4,5,6 o più figli senza avere un lavoro, è portato dalla propria storia a coltivare sentimenti negativi di invidia, rivalità oltre  alla sensazione che non cambierà mai nulla. Vivere in mezzo ai poveri per qualcuno può sembrare poetico, ma di poetico ha be poco. Si tratta, infatti, di convivere tutti i giorni con persone che in qualche modo cercano di fregarti, di ottenere qualcosa per sé. É difficile avere amici tra i poveri, quelli veri, non quelli inventati dalla fantasia pietista occidentale.

 Tentare di formare comunità ecclesiali nei quartieri poveri richiede tempo e, soprattutto, la disponibilità a morire a se stessi. Solamente con il tempo la gente può capire se la mia azione è interessata o è gratuita. Solamente con il tempo io stesso posso verificare, se sto vivendo in mezzo ai poveri per fare il fenomeno, o perché sto seguendo il cammino di Gesù che ha una sola direzione: la croce. E allora quanto più vivo a contatto con queste persone povere e bisognose di tutto, tanto più mi rendo conto dell’urgenza di annunciare il Vangelo e di creare un’esperienza di Chiesa. Che cosa c´è infatti, di migliore che come prete posso offrire, che la possibilità di un’umanità trasformata, redenta, curata dai mali spirituali che la vita miserabile porta con sé?

Nessun povero sano di mente farebbe la scelta dei poveri, anche perché è una scelta evangelica, è una proposta di vita. Scrivo queste cose perché  le prime reazioni che ascolto dalle persone quando mi vedono scegliere una casa in mezzo a loro è di stupore, di incomprensione. Soprattutto  non ci credono che sia una scelta gratuita, disinteressata. Abituati, come sono, a vedere i politici passare nelle loro case ogni quattro anni, facendo promesse mostruose solamente per strappare il loro voto, non ci credono alla gratuità con la quale mi presento.

 Per questo dico che ci vuole tempo per me e per loro. Per me, per lasciare che Cristo mi incida con il dolore e la sofferenza dei poveri. E questa incisione avviene lentamente, immergendomi nella preghiera, sforzandomi di vivere come loro, accettando di vedere emergere le mie ipocrisie, i miei sotterfugi per fuggire dal peso dell’umiliazione di una vita fatta di poche cose. Sono  ormai sette anni che sono in questo cammino e, in questo lasso di tempo, si sono alternate giornate stupende, ricche della grazia di Dio ad altre pesantissime, a volte insopportabili.

 Quello che soprattutto in certi giorni, mi rende insopportabile la vita, è il tradimento di colui o colei nel quale confidavo. Nonostante l’apparenza bruta e rude dei miei modi e della mia personalità, confido molto nelle persone. Credo infatti, impossibile e disumano annunciare il Vangelo senza amici. Anzi, in questi anni di ministero, ho notato che la verità del servizio sacerdotale, la incontro proprio nelle amicizie che, lungo il cammino, si realizzano.  Gesù stesso ha annunciato il Vangelo con un gruppo di amici. “Non vi chiamo più servi ma amici” (Gv 14 ). Trovare, formare amici tra i poveri è difficile. Quante fregate abbiamo preso Gianluca ed io nel quartiere Populares di Miguel Calmon! Il rischio che vedo in me è che, dinanzi a certi fallimenti umani, passo dei periodi così neri, così infumanato, che provoco ancora più chiusura negli altri. E allora, quando all'alba mi immergo nella preghiera contemplativa, vedo il volto misericordioso di Gesù e mi sento male. Gli chiedo allora, ancora una volta, di aiutarmi ad uscire da me stesso, dalle mie paure, dalle mie chiusure e, soprattutto, dalle mie famose arrabbiature, per essere un prete più docile e, se fosse possibile, più buono. Anche perché capisco che i poveri che incontro tutti i giorni, non si meritano un prete scorbutico, brutto e cattivo. Ne meritano uno dolce e sorridente, così come era Gesù. Ci vuole tempo anche per i poveri, per prendermi le misure, per verificare la verità delle intenzioni.

 Dopo cinque anni di vita nel quartiere Populares di Miguel Calmon, pochi giorni prima della Messa di addio, Aloisio, la persona di fiducia del quartiere, si è avvicinato a  dicendomi che molte persone nel quartiere ancora non capivano il motivo della mia scelta di vivere in quel quartiere. Annunciare il Vangelo ai poveri vuole dire morire con loro, anche perché tutti sono capaci di fare qualcosa per i poveri. Basta infatti, fare una telefonata in Italia, e piovono soldi da tutte le parti. Forse però i poveri non hanno proprio bisogno dei nostri soldi facili, ma di persone che con  la loro vita mostrano stili di vita diversi da quelli che solitamente incontrano. Non sto discutendo sull’utilità degli aiuti che vengono dalle parrocchie o da amici e neanche sul modo di utilizzarli. L’attenzione della mia riflessione é sulle persone, la loro cultura, il loro modo di essere e di pensare e, a questo proposito sarebbe interessante fare quattro chiacchiere: se volete, quando il prossimo mese verrò in Italia, sono disponibile a riprendere il discorso.

 Quello che in ogni modo desidero condividere é che le persone che incontro le sento vuote, svuotate dalla fatica di vivere, anzi di sopravvivere e, quando cominciano ad aprirsi, avverto tutto il dramma spirituale ed esistenziale di una vita povera in tutti i sensi. È in queste circostanze che mi sembra di capire che, in realtàciò che di migliore gli posso offrire come prete, è qualcosa che li possa aiutare a credere ancora e nonostante tutto nella vita. Anche perché i poveri sono abituati alla povertà e non cercano quello che noi occidentali cerchiamo e no desiderano quello che noi desideriamo. Il rischio che anche noi missionari corriamo é di trasferire la mentalità occidentale nel servizio che svolgiamo. Con questo non voglio marcare negativamente la mentalità occidentale, ma solo mostrare che l’incontro con l’altro per essere autentico, deve essere frutto di un ascolto, una ricerca.
 Mi vengono in mente, a questo proposito le parole del grande teologo ortodosso Pavlev Florenskij, che nel secondo capitolo della sua monumentale opera intitolata “La colonna e il fondamento della verità”, che sto leggendo in questi giorni per la seconda volta – approfitto della lettera per ringraziare l’amico Adriano Nicolussi per avermela mandata – diceva; “É possibile per l’uomo conoscere la verità? Solamente quando è frutto di una ricerca”. Florenskij scriveva queste cose dopo aver meditato sul versetto 11 del salmo 33, che dice così: “Nessun bene manca a chi cerca il Signore”.
 La vita è una costante ricerca della Veritá ed è in questa prospettiva che vivo il ministero. Ho trascorso la giovinezza con la testa nei libri di filosofia, ma non ho trovato gran ché. Ho iniziato, così, ad ascoltare con più attenzione la Parola, che mi ha rivelato il cammino dei poveri del Signore. Vivo, allora, in un quartiere povero perché il Signore non vive nei palazzi dei ricchi, ma è misteriosamente nascosto nei poveri (Mt 25). É questa una grandissima verità che non poteva che essere rivelata, e rivelata nella vita drammatica della Verità incarnata. Che la vita sfigurata dei poveri nasconda il volto trasfigurato di Gesù, non è assolutamente frutto di un sillogismo, ma di una rivelazione dall’alto, che è necessario ascoltare e meditare in silenzio, se no sembra assurda. Desidero una Chiesa che prenda sempre più a cuore i suoi figli più poveri chiunque essi siano e dovunque essi si trovino, non come semplice impegno sociale, ma come cammino di ricerca e di conoscenza della Verità, che è nascosta al mondo e rivelata a chi la cerca. In questa linea volevo condividere le bellissime riflessioni che il  padre della Chiesa Gregorio di Nissa, fratello di Basilio il Grande- approfitto della lettera per ringraziare anche Damiano e Rossana che da quattro anni mi pagano l’abbonamento della rivista: “Testi dei padri della Chiesa” della comunità Monastica di Bose, e saluto anche tutti gli amici del centro di ascolto di Castelnovo Sotto del quale Damiano e Rossana fanno parte, che tutte le domeniche s’incontrano nella casa di Ines e Marco per meditare la Parola di Dio: Valeu galera! -  dirigeva ai fedeli della sua comunità, che manifestavano difficoltà ad accogliere i poveri, soprattutto coloro che in quella epoca, era il quarto secolo dopo Cristo, si rifiutavano di avere contatti con i lebbrosi.

 “La salvezza, dice il Signore, non sta nelle parole, ma nel mettere in pratica le opere di salvezza. Non dobbiamo, dunque, liberarci del comandamento che ci ordina di avere cura di loro. Ma nessuno mi venga a dire che è sufficiente portare loro del cibo dopo averli condotti in un luogo a grande distanza dalla nostra vita; tale soluzione non dimostra misericordia e compassione, ma rappresenta in apparenza i buoni sentimenti  di chi intende eliminare questi uomini dalla nostra vita; tale soluzione non dimostra misericordia e compassione, ma rappresenta in apparenza i buoni sentimenti di chi intende eliminare questi uomini dalla nostra vita. Non ci vergogniamo della nostra vita se ospitiamo sotto lo stesso tetto maiali e cani? Il cacciatore spesso non si separa del suo cane nemmeno a letto; il contadino abbraccia il vitello. E ancora, il viaggiatore pulisce le zampe dell’asino con le sue mani, mette la mano sulle sulle sue ferite, pulisce lo sterco, ha cura della stalla. E il nostro simile, della nostra stessa razza, lo considereremo degno di minor onore degli animali? No fratelli, non prevalga questa decisione disumana”.
Se noi cristiani non spostiamo l’accento della nostra attenzione ai poveri dal piano puramente sociale per un livello più spirituale, saremo costretti a sentire anche dentro i nostri consigli pastorali, tante stupidaggini sugli stranieri, sugli emarginati della società e anche sulle missioni, che nessuno di noi merita ascoltare.

2. In questi giorni nella preghiera del mattino, stavo meditando su una realtà nella quale mi sono imbattuto spesso in questi ultimi mesi e cioè la sete di potere. Mi colpisce la falsità delle persone, fuori e dentro la Chiesa, la menzogna travestita da verità, che si presenta con il sorriso seducente solamente per ingannare e trarre un profitto personale. Ci vuole un’anima molto pura, piena e stracolma dell’amore di Dio, per non uscire rovinati o corrotti dentro da incontri con i lupi di questo mondo. “Ecco che vi mando come agnelli in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Mt 10, 16).

 Gesù lo sapeva, sapeva molto bene della sete di potere e di gloria che sta nel cuore degli uomini e delle donne e che non li lascia dormire, li fa stare  svegli, passare notte insonni a pensare, rimuginare come fregare il collega, come diventare il signore, la signora del mondo, del suo piccolissimo mondo. E allora tu esci di casa  dopo le preghiere del mattino, tutto sereno e felice per quello che hai ascoltato, per le parole piene di vita e di amore uscite dalla liturgia e subito imbatti nei branchi di lupi che cercano di possederti, dominarti, rovinarti. Va bene, Signore, mi avevi avvisato di tutto ciò, e allora prudenza, non essere troppo avventato, cerca di essere intelligente e, soprattutto, semplice per non cadere nel gioco mortale degli arroganti. Ho imparato, allora, a riconoscere con un’occhiata astuta i lupi del mondo: li riconosco da lontano, sono sempre sorridenti, ti danno la mano, ti offrono il caffè e conversano di un sacco di cose amene. É il gioco del lupo travestito di agnello che solitamente serve per mantenere calmi gli altri lupi. Questa è una delle scoperte più interessanti che ho fatto ultimamente: come prete, per il fatto di essere parroco, non sono percepito come un agnello, ma come un lupo.

 La Chiesa è entrata nel Brasile, anzi in tutta l’America Latina, con il Vangelo in una mano e con la spada nell'altra. É vero che ci sono stati anche i preti e i religiosi buoni ma, come in tutte queste storie di sangue, sono sempre le eccezioni che confermano una regola. Secoli di violenza, decenni di autoritarismo rigido, giustificando l’ingiustificabile come la schiavitù, le conversioni forzate, le confessioni come forme di controllo delle coscienze, le stragi di innocenti; e poi l’inquisizione che é stata esportata anche qui in America Latina, come se fosse qualcosa di bello da esportare, lasciando tracce indelebili nel cuore della storia. E allora esco di casa al mattino con la mia faccina di angelo (si fa per dire) e capisco che la percezione che le persone hanno di me è di essere un lupo e non agnello. “Lei padre ha più potere del sindaco, nonè vero?” Quante volte i poveri del quartiere in cui abito mi dicono cose orrende come queste. É vero che me lo dicono con il sorrisino, come per farmi un complimento, ma per me è una delle offese più tremende, perché è la negazione del Vangelo. Gesù, infatti, non aveva detto ai suoi discepoli che litigavano tra di loro per sapere chi era il più importante: “Tra di voi non deve essere così, ma chi vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti”?Che cosa è successo nel passato per giungere ad un simile travisamento della figura del sacerdote? Non dovrebbe essere un servo di Dio? E allora perché è percepito così, come rappresentante del potere politico? Come se il prete fosse un funzionario dello stato, un semplice impiegato statale, un rappresentante del potere.

 Distruggere questa immagine negativa del prete, con una vita il più possibile evangelica, nel limite delle mie forze e della mia coerenza: è diventato il mio obiettivo.
Dalla Chiesa che è Santa per la presenza costante del Signore che la santifica, ricevo tutti i mezzi per la mia santificazione. Come vorrei poterli sfruttare meglio questi santi mezzi, anche perché sono un prete, tutti i giorni maneggiando le cose sante! E invece mi ritrovo tremendamente peccatore, soprattutto quando mi trovo a contatto con i lupi di turno, che non sono solamente fuori dalla Chiesa, ma anche dentro. E allora rimango sconcertato, con la testa piena zeppa di domande e interrogativi. Sconcertato, ma non scandalizzato, perché la Chiesa Santa è pur sempre fatta di uomini e donne peccatori e peccatrici, bisognosi costantemente della misericordia di Dio. Sconcertato ma non scandalizzato, anche perché io stesso faccio parte di questa Chiesa e io stesso sperimento le contraddizioni dentro di me del desiderio di vivere il Vangelo e, allo stesso tempo, incapacità di viverlo pienamente, perlomeno come vorrei. Vivo dentro di me questa tensione del desiderio di una vita santa, evangelica e la lotta contro il mostruoso egoismo che avverto in me e fuori di me, nel povero vicino di casa, che fa di tutto per spillarmi qualcosa, come nel mio collega prete che fa di tutto per mettersi in evidenza e così salire più in alto nella scala del potere.

 Quello che invece mi sconcerta e mi scandalizza é quando si fa di tutto per mascherare  e abbellire la bruttezza dell’egoismo trasformato in azioni che mirano  a sopraffare gli altri, chiunque sia il bugiardo. Quando si usano discorsi evangelici o teologici per dire che è bello e santo ciò che è invece brutto e sporco, allora mi agito e divento nervoso. Sto leggendo in questi giorni i discorsi di Efrem il Siro che parla della calma e della pace dell’anima come una delle conquiste più alte della vita interiore e ho così capito che, in questo cammino di perfezionamento e trasformazione, ho ancora parecchi chilometri da percorrere. Diventare piccoli, cercare l’ultimo posto, farsi servo, cercare una vita nascosta non sono appena indizi di una autentica vita spirituale alla sequela di Gesù, ma il risultato della vita cristiana quotidiana a contatto con i lupi del mondo che esigono sempre più spazio, sempre più potere, sempre di più. E allora, Signore, fammi diventare sempre più piccolo, nascondimi qui in Tapiramutá, fammi diventare un servo nella Tua Chiesa per lasciare il potere a chi se lo voglia prendere. Vivere da agnello in mezzo ai lupi, dovunque essi si annidino, fuori e dentro la Chiesa, significa desiderare di scomparire nella povertà evangelica, nel nascondimento spirituale, nel servizio gioioso e obbediente.

 Abbiamo ascoltato in questi giorni nella liturgia il consiglio evangelico di Gesù di non affrontare il malvagio e, nei vespri di giovedì 22 giugno l’Apostolo Pietro ripeteva lo stesso concetto: “Non pagate il male per il male” (1 Pt 3,8). Il male è troppo forte per noi poveri uomini e donne: ci stritola. Quante volte sono stato stritolato dal male, in questi anni, perché ferito nell’orgoglio e desideroso di farmi giustizia da solo con le mie mani. Quanta rabbia ho dovuto ingoiare affrontando i malvagi del mondo, fuori e dentro la Chiesa, e quante volte i lupi furbi del mondo mi hanno iniettato il veleno dell’odio, dell’orgoglio della logica del possesso, dell’avere e io, come un cretino, ci sono caduto. Vivere da agnello in  mezzo ai lupi sembra una bella poesia ma, nella realtà, è l’unico modo di vivere in questo mondo senza lasciarsi immergere dal male. Il problema è che vivere da agnello in mezzo ai lupi non è qualcosa che ereditiamo dalla genetica, ma è uno dei frutti più profondi della vita spirituale, della vita nello Spirito del Signore. Mi ricordo, a questo proposito, che nel viaggio che con il seminario di Reggio avevamo fatto in Israele, mi aveva molto colpito una omelia di don Luciano Monari. Eravamo al Monte delle Beatitudini e, dopo aver letto il Vangelo delle Beatitudini, don Luciano aveva commentato con la sua proverbiale profondità e sapienza dicendo che, nella realtà le beatitudini sono ciò che l’umanitá di Gesù esprime e che lo Spirito Santo dovrebbe realizzare in noi. Dopo la Messa mi ero avvicinato a don Luciano dicendogli: “Senti don Luciano, se quello che hai commentato é vero io parto sfavorito nel cammino della santificazione. Infatti tu conosci bene la mia impazienza e la mia agitazione: e allora come faccio?”. Mi ricordo ancora come se fosse oggi lo sguardo serio di don Luciano che con una pacca sulla spalla mi disse: “Coraggio, Paolo, ce la puoi fare anche te”.
La possibilità di una trasformazione reale che lo Spirito Santo può realizzare nella vita delle persone, trasformazione che vedo visibile in pochissimi grammi nella mia esistenza e che ho visto e continuo vedere all’opera nella vita di tante persone, è ciò che mi spinge a donare la mia esistenza per il Signore e la sua Chiesa.







CHIESA IN MISSIONE

ARCHIVIO BRASILE




LETTERA CIRCOLARE GIUGNO 2005

Tapiramutá, 18 giugno 2005

Lettera circolare
Paolo Cugini
Non è mio costume scrivere di una forma indifferenziata a tutti, ma il tempo è diventato purtroppo sempre più corto e allora, se voglio rimanere in contatto con gli amici devo inventare qualche stratagemma. Eccomi allora qua con questa "Lettera circolare" per fini sapere le ultime novità della missione che la Chiesa di Reggio Emilia e Guastalla me ha affidato.

Inanzi tutto la nuova parrocchia. Tapiramutá- è questo il nome- è una città di 18 mila abitanti, della diocesi di Ruy Barbosa. La maggior parte delle persone vive in città e, questo facilita il lavoro pastorale. A differenza di Miguel Calmon, in cui ho prestato servizio pastorale per cinque ani e dove la maggior parte del lavoro si svolgeva nella zona rurale per accompagnare le oltre cinquanta comunità di base, in Tapiramutá la missione si svolge soprattutto nella città. La parrocchia ha solamente 26 ani di vita, è quindi molto giovane. Questa significa      pochissime tradizione religiose e, di conseguenza un popolo di battezzati sacramentalizzati e pochissimo evangelizzati. In questi ventisei anni di vita sono passati per tapiramutá vari sacerdoti, lasciando ognuno il proprio contributo. Lo scorso anno siccome la parrocchia era rimasta senza sacerdote, é stato don Gabriele Carlotti ad assumere il servizio pastorale. Lui celebrava le messe alla domenica in città, mentre padre Ireneo- un monaco benedettino del monastero di Jequitibá, che dista un'ottantina di chilometri da Tapiramutá- celebrava l'Eucarestia nelle comunità della zona rurale. Don Gabriele, oltre a celebrare le messe in città ha cercato, assieme alle suore, di strutturare il servizio pastorale nei quartieri della città.

Una caratteristica della città é che, molto più che in altre della Bahia, le persone, soprattutto uomini e giovani, emigrano in cerca di lavoro. Oltre ad una migrazione esterna, Tapiramutá é una città di fortissima migrazione interna. Di fatto, nei mesi di maggio-agosto, camion pieni di gente, uomini e donne, si dirigono all’alba verso le grandi fazende di caffé, che si trovano nelle campagne di Tapiramutá. Se da un lato questo può presentare aspetti positivi, come la possibilità di un lavoro e di guadagnare due soldi, dall'altro il lavoro nelle grandi fazende di caffé produce una serie infinita di problemi sociali, primo fra tutti i lavori schiavi. Infatti, tutti i giorni si leggono notizie nei giornali locali, che riportano le condizioni penose in cui i lavoratori del café sono obbligati a subire. Le persone vengono adescate nei quartieri poveri e illuse con promesse di guadagni favolosi e poi, una volta raggiunta la fazenda, sono costretti a vivere in vere e proprie topaie, a pagarsi il cibo che sono obbligati a comprare nel mercato del padrone, il quale sconterà il tutto dal salario mensile. E così dopo cinque o sei mesi di lavoro a dieci, undici ore lavorative al giorno per sei giorni la settimana lavorando spesso al freddo e sotto la pioggia sono queste le condizioni climatiche che favoriscono la produzione del caffè, i lavoratori si trovano con un pugno di soldi in mano che a mala pena dà per pagarsi il biglietto di ritorno La commissione pastorale della terra della Bahia quest'anno ha deciso di svolgere un lavoro profondo su questo problema. Ha invitato una ricercatrice spagnola per cominciare un lavoro serio di ricerca sul territorio e, cosi, iniziare a mettere in rete le forze per tentare di arginare il problema del lavoro schiavo. In parrocchia abbiamo già invitato questa ricercatrice, che ha svolta un lavoro con i giovani della città, a conclusione della settimana della cittadadinanza. Oltre a ciò, stiamo organizzando la pastorale dei migranti per pensare alcuni progetti che possano, con il tempo, offrire alcune risposte concrete al problema. Questa situazione, come potete immaginare, ostacola abbastanza il 1avoro pastorale in generale. Infatti, é difficilissimo il lavoro della formazione dei lider delle comunità di base o dei servizi pastorali. Le persone che rimangono in città, riescono a trovare un lavoro solamente dal comune e ciò significa poi, impossibilità dì poter esprimere il proprio parere. Di fatto, nelle città dell'interno della Bahia, i sindaci sono dei veri e propri tiranni, che si eleggono creando delle reti di favori sopratutto tra gli strati più poveri della popolazione.. Una volta che la persona riesce ad ottenere un lavoro- chiaramente dal comune- si sente legata ad un dovere di gratitudine per tutta la vita, o per lo meno, sino a quando il sindaco rimane al potere. Siccome nella stragrande maggior parte dei casi i sindaci sono super corrotti, con casi di corruzione che svolgono alla luce del sole con una faccia tosta da fare pena, le persone legate a loro sono inaffidabili. Del resto la gente non ha molte alternative: o accetta un lavoro dal comune o é obbligata ad emigrare, anche perché chi si pone contro il sindaco viene perseguitato. Infatti, solitamente il gruppo politico al potere domina i centri nevralgici della intera città: commercio, ospedali, distributori di benzina, farmacie. Il mio vicino di casa del quartiere in cui vivevo in Miguel Calmon, nelle elezioni dello scorso anno, aveva le magliette con i candidati dei due partiti che si contendevano il potere. Mi ricordo benissimo che Jurandi- e questo il suo nome- andò a votare con la maglietta di un candidato e, il giorno dopo, sapendo che aveva vinto l’altro, indossò l’altra maglietta scendendo nelle strade gridando a squarcia gola slogan in favore del candidato vincitore. È la lotta della sopravvivenza. Se non vuoi morire di fame o di stenti, ti organizzi, sopratutto lasciando d'lato i valori e le idee, con le quali nessuno e mai ingrassato. Annunciare il Vangelo in questo contesto: è qui la grande sfida. Se per essere missionario bastasse celebrare qualche messa in giro nelle comunità, allora potrei considerarmi un ottimo missionario. Se, pero annunciare il Vangelo significa aiutare le persone a liberarsi dalle catene dell'oppressione morale e materiale, allora la valutazione cambia molto. Quante volte in questi anni di missione brasiliana mi sono chiesto che cosa stavo facendo, il senso delle messe che celebravo o degli incontri che organizzavo e continuo ad organizzare. La cosa, infatti, che può accadere a chiunque, non solo ad un missionario, é continuare a fare sempre le stesse cose come per forza di inerzia. È  chiaro che, quando queste "cose" sono i misteri di Dio, la situazione e più grave. Ciò che spesso mi accade é rimanere inchiodato per ore in ginocchio davanti al santissimo chiedendomi: perché? Perché Signore permetti tanta miseria, tanta sofferenza da non poterne più? Perché le famiglie che sto visitando nei settore 7 della città di Tapiramutà non hanno nulla? Perché i loro bambini dormono per terra, non hanno luce e acqua in casa? E soprattutto perché mentre vedo tutto ciò, i politici corrotti, che vivono rubando ai poveri perché é questa la schifosa verità; non si accontentano degli stipendi favolosi che guadagnano ingiustamente, ma rubano i soldi che lo stato stanzia per i progetti sociali che dovrebbero beneficiare i poveri-, se la passano bene, tranquilli sereni? Perché?

Assieme alle suore che lavorano qui con me- Marta Teresina e Veronica- abbiamo deciso di priorizzare nel nostro lavoro pastorale i giovani. E così, in poco tempo, abbiamo messo in piedi in tutti i settori della città gruppi giovani. Anche nelle comunità della zona rurale stiamo lavorando sodo per organizzare gruppi giovani. Ci vogliono idee, idee nuove per attirare i giovani e manifestare il nostro interesse, la preoccupazione della Chiesa per loro. In questa prospettiva stiamo organizzando degli incontri zonali di giovani. Oggi, per esempio, siccome qui in Brasile il 12 giugno é il giorno degli innamorati, ne abbiamo approfittato per organizzare uno di questi incontri. Siccome era il primo, eravamo tutti- soprattutto suor Veronica la suora più giovane, che si sta dedicando con tutte le forze ai giovani- un pò agitati. In ogni modo, grazie a Dio é andato benissimo. Alla mattina ci siamo dati appuntamento per le otto, accogliendo i giovani con canti e cartelloni con il tema del giorno: Gioventù e amore". Abbiamo poi diviso i giovani presenti in quattro gruppi per leggere e commentare il Vangelo del giorno. Subito dopo abbiamo celebrato la Santa Messa con la gente della comunità. È inutile dire che è stata una celebrazione animata, in cui i giovani presenti ce l'hanno messa tutta per esprimere la loro gioia per essere presenti a questo incontro. Verso le dieci i gruppi giovani hanno presentato canti, poesie e scenette, sempre facendo riferimento al tema del giorno.

 In seguito, due coppie di fidanzati di Miguel Calmon, hanno portato la loro esperienza sul tema dell'amore e dell'importanza di viverlo in Dio. Dopo pranzo caccia al tesoro "A gincana do amor"e poi... tutti a casa. Sostanzialmente sono abbastanza soddisfatto della risposta che i giovani di Tapiramutá stanno dando alle proposte che stiamo gettando Chiaramente non bastano proposte aggregative per annunciare il Vangelo ai giovani, ma in ogni modo sono importanti, anche perché in questo modo si riesce raggiungere tanti giovani che, in altro modo, rimarrebbero fuori dalla proposta di fede. Da parecchio tempo nella diocesi di Ruy Barbosa sto dicendo che e ormai ora di imparare sopratutto lavorando con giovani, a non rimanere ancorati a schemi fissi, con proposte radicate su principi inamovibili. In questo mondo sempre più postmoderno e frammentato anche qui nel nordest baiano le folate di vento postmoderno si attento sentire- é necessario un lavoro pastorale attento al tempo presente, per accompagnare l'evoluzione rapida degli eventi e così, alla luce della Parola di Dio, offrire proposte sempre più inculturate e attente agli interlocutori che se ha dinnanzi. In questa prospettiva, in occasione del decimo anniversario della mia ordinazione sacerdotale, ho organizzato un ritiro spirituale di tre giorni, aperto ai giovani del vicariato. Nei giorni 3,4 e 5 giugno hanno partecipato a questo ritiro spirituale una settantina di giovani. Anche questa è stata una esperienza estremamente ricca, da molti punti di vista. I1 primo é senza dubbio il fatto che, quando vedo dei giovani in ginocchio davanti al santissimo sacramento in silenzio, mi emoziono. La mente, infatti corre ai giorni decisivi della mia vocazione, in cui passavo ore, giorni davanti al Santissimo Sacramento, attratto dall’amore del Signore. Immagino, allora, che cosa il Signore stia combinando nella coscienza dí questi giovani, quanto amore, quanta vita, quanta allegria sta rovesciando nelle loro anime. In questi tre giorni di ritiro spirituale ho proposto alcune riflessioni sulla vocazione di Mosé, come modello della vocazione del cristiano. Ho concentrato la riflessione sulle domande che Mosé rivolge a Dio: chi sono io per una missione così difficile; chi sei Tu, Signore perché possa pronunciare il Tuo nome e che popolo Tu mi chiama a servire. Come di costume ho alternato le meditazioni a prolungati momenti di silenzio davanti al Santissimo Sacramento. Per molti giovani presenti é stata una specie di iniziazione alla preghiera Assieme ai giovani di Tapiramutà, Miguel Calmon, Mundo Novo e Pirítiba (sono le parrocchie del nostro vicariato), c'erano anche nove novizi del monastero benedettino di Jequitibá, assieme al loro formatore padre Pedro. Sia padre Pedro che io ci siamo messi a disposizione per le confessioni e, con grande sorpresa, abbiamo confessato quasi tutti i giovani. Ho scritto con grande sorpresa perché, dalle nostre parti, il sacramento della riconciliazione non é molto popolare. Se, infatti, pensate che nella settimana santa di quest'anno nella parrocchia di Tapiramuta, che solamente in città conta con tredici mila abitanti ho confessato una sola persona, potete fare voi le vostre considerazioni. Il ritiro spirituale é stato, allora, sotto tutti i punti di vista, un momento molto importante per il cammino spirituale dei giovani del vicariato. I giovani di Tapiramutá sono rimasti cosi ingasati che, domenica, subito dopo la messa, hanno voluto a tutti i costi che prendessi in mano la mia agenda per marcare subito e al più presto un altro ritiro. Per non parlare, poi dei giovani di Miguel Calmon loro non mi hanno chiesto nulla, ma mi hanno semplicemente comunicato che nelle ferie di giugno, arriveranno in Tapiramutá per pregare assieme a me per una settimana.

Spesso mi chiedo quali dovrebbero essere le priorità dei ministero sacerdotale. È una domanda che in un contesto sociale ed ecclesiale come quello in cui vivo è fondamentale. Noi preti che viviamo qui nel Nordest brasiliano, chiamati ad assumere parrocchie immense, corriamo il rischio costante di perderci tra le tante attività e iniziative che, parrocchie cosi grandi, esigono. Grazie a Dio e all'insegnamento di alcuni santi sacerdoti, sin dal seminario, ho imparato, a mettere davanti a tutto il Signore. Ho capito, allora' che tutto il tempo che passo con Lui nella preghiera, nella riflessione della Parola di Dio, nel silenzio di una cappella non e tempo perso. Se dopo dieci anni di sacerdozio mi sento con l'anima piena della grazia e dell'amore di Dio, lo devo senza dubbio al tempo che ho trascorso e ancora trascorro con Il Signore nella preghiera. È con la mente piena di Lui che scendo nelle strade dei quartieri poveri e sento che il mio posto di prete e li, in mezzo a loro, agli esclusi, ai poveri, alle vittime del sistema economico perverso e corrotto. Sono le ore di preghiera che trascorro in ginocchio davanti al Santissimo che mi aiutano a desiderare ció che il Signore desidera, a cercare ciò che Lui stesso cercava qui nella terra e cioè, la giustizia, la misericordia, la pace.

È questo rapporto di amore con il Signore .che cerco di coltivare nel ministero. Amore del Signore che incontro ogni volta che celebro l'Eucarestia; ed è stupendo celebrarla in case a lume de candela, immerso nella semplicità delle persone che vivono nelle comunità della zona rurale o dei quartieri poveri. In questo anno che la Chiesa sta dedicando all'Eucarestia, sto andando nelle comunità a svolgere piccole catechesi bibliche sul tema. Celebro la Santa Messa e poi commento uno dei passi biblici che fanno riferimento al mistero eucaristico, tentando di rispondere alle semplici domande che i fedeli hanno dentro di sé. Risposte il più possibili semplici, anche perché il Vangelo è un annuncio semplice e bisogna fare di tutto per non renderlo troppo complicato. Leggevo l’altro giorno su questo tema, un libro del professor Giorgio Campanini, il quale affermava che in questa epoca postmoderna sempre più complessa, la Chiesa e chiamata ad annunciare il Vangelo nella forma più semplice possibile. 

Credo che il professor Campanini abbia ragione. Questo sforzo di semplificazione la Chiesa è chiamata a svolgerlo non appena nei paesi cosi detti del terzo mondo, ma anche e soprattutto in Occidente. Nelle comunità che accompagno é il contesto sociale che esige semplicità non solo nelle parole, ma anche e soprattutto nello stile di vita Questo stile di vita semplice dovrebbe essere il segno caratteristico dei discepoli di Gesù, battezzati, in qualsiasi luogo essi si incontrino. Semplicità nello stile di vita significa libertà dai condizionamenti del mondo e questo condizionamento è da intendere in tutti i sensi, anche economico. Il fracasso del modello economico liberale è ben visibile a tutte le latitudini. Una economia che, in modo spudorato e sfacciato, privilegia le classi ricche a scapito dei poveri, non può essere accettato da chi si dichiara discepolo di Gesù. L'Italia sta sentendo sulla propria pelle il risultato di politiche economiche ingiuste. Ogni volta che in internet leggo le pagine dei giornali italiani, mi viene la pelle d'oca. Mi chiedo: ma com'è possibile che sia accaduto in così poco tempo, un fracasso di tali dimensioni? Perché è stato permesso questo e perché più nessuno si organizza per protestare contro questo sistema economico e politico che sta generando disperazione e povertà? Perché le parrocchie non si organizzano per protestare? In questo senso la Chiesa del primo mondo deve imparare molto dalla Chiesa del terzo mondo. Qui sono i vescovi, i preti le suore che, assieme ai laici scendono nelle strade per protestare contro qualsiasi forma di oppressione e di ingiustizia. A che serve infatti organizzare dei corsi di altissimo livello sulla dottrina sociale della Chiesa se poi questa dottrina rimane sui libri? Qui nella Bahia tre anni fa é stata la Chiesa che, con la sua organizzazione di base, é riuscita a far revocare la legge contro la privatizzazione dell'acqua che i signori della politica volevano imporre. Per non parlare poi della lotta che la Chiesa di tutta l'America Latina ha condotto e continua a condurre per impedire agli Stati Uniti di creare 1’ALCA l'organizzazione economica che dovrebbe riunire tutti i paesi delle Americhe, con 1'esclusione di Cuba. Se la Chiesa in nome di Gesù scende in campo per difendere la vita, per essere coerente deve farlo a tutti i livelli e sempre. Se infatti entra in campo contro l'aborto o per far fallire i referendum in materia di procreazione medicalmente assistita, deve farlo con la stessa forza e la stessa coerenza contro coloro che seminano guerra e morte in nome di strani ideali economici e democratici. Che democrazia é, infatti, quella che non rispetta la libertà di un altro stato o vuole imporre il proprio modello? Che modello economico é, quello che privilegia solamente i ricchi a scapito dei poveri?

È in questo anno eucaristico che la Chiesa a tutti i suoi livelli dovrebbe prendere coraggio per gridare contro tutte le forme di ingiustizia, violenza, oppressione e discriminazione. L'amore di Gesù che riceviamo nell'Eucarestia, ci deve spingere ad un'azione sempre più profetica, meno calcolatrice e più spontanea per metterci in modo immediato dalla parte giusta, che é quella degli esclusi, degli oppressi. Scrivendo queste riflessioni penso ai giovani che incontro nei quartieri, nelle comunità o nelle scuole. Incontrandoli penso dentro di me: " che cosa stanno vedendo in me, il rappresentante di una istituzione religiosa o una persona capace di amare, di ascoltare, di dialogare come faceva Gesù? Stanno vedendo un burocrate che svolge semplicemente il proprio mestiere senza disturbare nessuno o un prete totalmente appassionato di Gesù che no riesce a tacere le ingiustizie e i soprusi e per questo diventa motivo di persecuzione?".

Mentre sto scrivendo queste righe, ascolto un altoparlante che sta annunciando I'anniversario della Chiesa Universale del regno di Dio ”, che avrà come attrazione principale un ex-prete, che ora é pastore della suddetta Chiesa. Questo é uno dei tanti problemi che la Chiesa Cattolica dell'America Latina è chiamata ad affrontare. Nei primi mesi di permanenza in Tapiramutá, girando per le strade e per i quartieri ho contato circa trenta chiese differenti Ce né di tutti i tipi: si va dall'Assemblea de Deus" a "Deus è Amor", dalla "Chiesa primitiva" alla Chiesa quadrangolare". In ogni angolo della strada ci s'imbatte in una di queste chiese. L'altra sera, dopo aver celebrato la Messa ín uno dei quartieri della città, siccome avevo terminato prima del previsto, mi sono deciso di fare un giro di perlustrazione per vedere i1 tipo di movimento nel "settore7", ovvero il quartiere più scassato della città. Mi sono, cosi fermato davanti a varie chiese, per ascoltare che tipo di discorso pronunciavano. Ad un certo punto ho cominciato a sentire delle grida impressionanti, che presumibilmente uscivano da una di queste chiese. Mi sono, allora, diretto a tutta velocità con la mia bicicletta per vedere che cosa stava succedendo. Dentro la chiesetta, al centro, c’era una donna che gridava ad occhi chiusi parole indecifrabili. Mentre questa donna gridava al microfono in modo assordante, le poche persone presenti gridavano anche loro, ognuna di modo differente dagli altri. Insomma, una confusione spaventosa. Il bello, però, si fa per dire, doveva ancora arrivare. Infatti, ad un certo punto é intervenuto il pastore prendendo per i capelli una signora e gridando: "Esci da questa dorma, Satana! ”. La gente fuori della chiesa, nel frattempo, si era accalcata per assistere allo spettacolo e, soprattutto per capire che cosa nella realtà stava succedendo.

Tante chiese- chiamiamole così - vuole dire una quantità immensa di persone che, dalla mattina alla sera, passano nelle case per invitare le persone a partecipare del loro culto o per offrire corsi biblici in casa. Dall'altra parte, ci siamo noi i cattolici, una moltitudine di battezzati che non sanno quasi nulla del Vangelo. E allora, quando gli evangelici o i pentecostali arrivano nelle case, con la Bibbia nella mano parlando di Gesù, leggendo pagine di Vangelo o dell'Antico Testamento, molte persone rimangono a bocca aperta, dicendo: " nessuno ci aveva mai spiegato la Bibbia". Mi sembra questa una delle più grosse sfide che la Chiesa deve affrontare oggi e, cioè, l'evangelizzazione dei battezzati. Ne parlavo l'altro giorno al telefono con padre Vittorio Trevisi, che da qualche tempo sta sostenendo questa tesi: davanti ad un mondo sempre più scristianizzato- secondo padre Vittorio il fenomeno è generale, non appena nel mondo occidentale - è necessario che nella nostra azione pastorale concentriamo i nostri sforzi sull'evangelizzazione. Per fare ciò bisogna organizzare corsi e circoli biblici, preparare giovani e adulti all'incontro personale con il Signore. Non é che in questa direzione non si sia fatto nulla in questi anni. Al contrario, molte decisioni sono state prese per migliorare la conoscenza della Bibbia nelle nostre comunità. Forse occorrerebbe avere il coraggio di celebrare meno e stare di più con la gente condividendo la Parola di Dio, spiegando i riti, le parole della liturgia affinché possano assumere un significato per la vita reale non solo del popolo di Dio, ma anche per noi preti. Basterebbe credere un poco di più nella libertà del Signore che ha trascorso la maggior parte del suo tempo della vita pubblica, per le strade o nelle case, dialogando, ascoltando, spiegando la Parola.

Tutti i martedì pomeriggio, alle 14:30 prendo la corriera che mi porta a Feira de Santana, la città in cui si trova la facoltà teologica nella quale insegno filosofia. Sono duecentoventi chilometri di strade assurde, piene di buche. Queste strade sono uno dei tanti segni di una politica economica disastrosa, fedele alle esigenze del FMI e del Banco Mundial che prosciugano le cassaforti degli stati ai quali offrono prestiti. Purtroppo il Brasile, nonostante un governo di sinistra guidato da un lider carismatico e onesto come Lula, non é ancora riuscito a liberarsi da queste catene mortali.

Solitamente arrivo in Feira de Santana verso le 19/19,30 e poi mi dirigo a casa di padre Pedro Junior, il direttore della facoltà che mi ospita nei giorni in cui insegno. Al mercoledì mattina, verso le 5,45, prendo la bicicletta e, percorrendo dieci chilometri, mi dirigo alla facoltà per dare quattro ore di lezione. Al giovedì la scena è la stessa; I’unica differenza è che, terminata l'ultima ora di lezione, prendo la bicicletta e mi dirigo velocemente alla stazione delle corriere per tornare nella mia amata parrocchia di Tapiramutá. Vale la pena fare questo sacrificio? Non è una cosa assurda? Me lo sono chiesto tante volte. Ogni vota che ci penso, però mi vengono in mente le parole di padre Vittorio Trevisi che, dinnanzi alle mie perplessità sulla proposta, mi rispondeva con la sua proverbiale calma: “Se vogliamo che la Chiesa della diocesi di Ruy Barbosa diventi autonoma, con sacerdoti del luogo, noi dobbiamo essere disposti a fare adesso qualche sacrificio". Anche padre Vittorio tutte le settimane percorre lo stesso tragitto per accompagnare spiritualmente i seminaristi della nostra diocesi, che stanno studiando in Feira de Santana. Lavorare per la formazione dei futuri sacerdoti é diventato un impegno serio della nostra diocesi di Ruy Barbosa. Se si pensa che negli ultimi quarant’anni ha "sfornato'' due soli preti, uno dei quali si é sposato, potete immaginare 1'urgenza del problema. Per questo chiediamo le vostre preghiere.

Per ora è tutto. Saluto tutti coloro che riceveranno questa lettera. Ricordiamoci nella preghiera. Il Signore e la nostra forza. Con amicizia nel Signore


Pe Paolo Cugini.