giovedì 31 dicembre 2020

LA RELIGIONE E IL MALE (OPPURE: IL MALE DELLA RELIGIONE)

 



Paolo Cugini

 

 

Può sembrare paradossale e provocatoria questo parallelismo, ma tanto paradossale non è. Bisognerebbe prestare attenzione alla genealogia di ciò che chiamiamo religione per capire che non è proprio tutto positivo ciò che abbraccia l’ambito religioso. Prima di tutto, per comprendere il discorso, occorre definire il concetto. Con religione si indica un complesso di credenze, sentimenti, riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro, in particolare con la divinità.  E’, dunque, il complesso dei dogmi, dei precetti, dei riti che costituiscono un dato culto religioso (cfr. Treccani https://www.treccani.it/vocabolario/religione/ ). Religione indica ciò che l’uomo ha fatto di Dio, come gli uomini hanno strutturato l’esperienza di Dio. Il sacro, in questa prospettiva, è l’insieme delle strutture che gli uomini hanno installato per proteggersi dalla divinità, per mantenerla a distanza.

Questo aspetto sacrale della religione lo si comprende osservando la vita di Gesù, le sue polemiche con i rappresentanti della religione del tempio e del tempo. Gesù ha smascherato il vuoto della religione e l’ha indicata come la fonte originale del male. Gesù ha svuotato il sacro dall’interno, manifestando la presenza di Dio in mezzo agli uomini e alle donne. Se Dio è venuto ad abitare in mezzo a noi attraverso la presenza di suo Figlio Gesù, a cosa servono gli apparati sacrali?

Il problema si presenta quando nel cristianesimo troviamo dei residui della religione, delle sue forme.  C’è molta religione nel cristianesimo e questa non era volontà di Gesù. La religione è un male quando non permette all’uomo e alla donna di realizzare la loro umanità, quando li lega, li intrappola con delle leggi umane spacciate per divine, appesantendone la vita. La religione, così come emerge dal Vangelo, non è altro che una struttura umana spacciata per divina a servizio del potere politico di turno.  Chi vive la religione come qualcosa di positivo è il popolo, che ha bisogno di credere che la realtà non può identificarsi e finire con ciò che ha sotto gli occhi: sarebbe troppo crudele. La religione così come si è strutturata nel tempo sfruttando il sentimento religioso, è divenuta un potente strumento di controllo delle coscienze.



C’è anche una ritualità cultuale che risponde a criteri umani, vale a dire sacrali e religiosi, che servono per riprodurre nella liturgia un’immagine del Dio potente e distante, che incute paura agli uomini e alle donne. C’è una liturgia cattolica che, più che riprodurre i tratti del Vangelo, della misericordia di Dio manifestata nella vita di Gesù, del suo desiderio di avvicinarsi all’uomo e alla donna di ogni tempo e di ogni luogo, trasmettono freddezza, distanza, volontà di potenza. Se questo stile arrogante della liturgia del palazzo poteva funzionare nell’epoca dei palazzi, ora sta svuotando le chiese.



Paradossalmente sembra questo tempo postmoderno, indifferente alla religione, anche perché ne ha visti gli effetti nefasti sui popoli, un periodo più favorevole allo stile evangelico che quello del passato delle cattedrali e dei palazzi vescovili. Un periodo, quello che stiamo vivendo, meno propenso a lasciarsi trasportare dalle ideologie e più attento alla realtà presente. Proviamo a metterci in ascolto del presente per cogliere, forse, la presenza della trascendenza in mezzo a noi.

martedì 29 dicembre 2020

LO SGUARDO




Paolo Cugini

 


 

Ci sono sguardi e sguardi. Non tutti gli sguardi sono uguali.

Ci sono sguardi anonimi e altri che ti fanno emozionare. Sguardi che ti prendono e altri che ti lasciano. Sguardi che scivolano via come la pioggia sulle foglie, e sguardi che penetrano come la pioggia sulla terra riarsa. Ci sono sguardi che ti feriscono e altri che ti danno la vita. Ci sono sguardi che ti lasciano indifferente e altri che ti portano via.

Lo sguardo dell’altro è il balsamo nella vita. Senza lo sguardo dell’altro non so chi sono e rischio di essere avvolto dalle illusioni, dalle idee su me stesso e non dalla realtà. Senza uno sguardo sincero non divento ciò che posso essere. E se quello sguardo è carico d’amore, allora potrò divenire finalmente me stesso. Per favore, guardami.

Se nessuno mi guarda la solitudine uccide la vita. Se qualcuno mi guarda la vita torna a sgorgare nelle vene e provoca la voglia di organizzare il futuro, di fare progetti.

Il tuo volto io cerco: non lasciarmi senza il tuo sguardo.

lunedì 28 dicembre 2020

LA PREGHIERA DEI BAMBINI


 


Charles Péguy (da: Il mistero dei santi innocenti)

 


Nulla è bello come un bambino che s’addormenti nel dire la preghiera, dice Dio.
Vi dico, nulla è così bello al mondo.
E dire che ne ho viste di bellezze, nel mondo.
E me ne intendo. La mia creazione trabocca di bellezze.
La mia creazione trabocca di meraviglie.
Ce n’è tante da non sapere dove metterle.
Ho visto milioni e milioni d’astri ruotare sotto i miei piedi come le sabbie del mare.
Ho visto giornate ardenti come fiamme.
Giorni d’estate, di giugno, luglio, agosto.
Ho visto sere d’inverno distese come un mantello.
Ho visto sere d’estate calme e dolci come una pioggia di paradiso
Tutte disseminate di stelle.
Ho visto queste colline della Mosa e queste chiese che sono le mie case.
E Parigi e Reims e Rouen e cattedrali che sono i miei palazzi, i miei castelli.
Così belli che li conserverò nel cielo.
Ho visto la capitale del regno a Roma capitale della cristianità.
Ho sentito cantare la messa e i vespri trionfali.
Ho visto queste pianure e queste valli di Francia.
Che sono la cosa più bella.
Ho visto il mare profondo, e la profonda foresta, e il cuore profondo dell’uomo.
Ho visto cuori divorati d’amore
Durante l’intera vita
Estatici di carità.
Che bruciavano come fiamme:
Ho visto martiri così animati di fede
Saldi come roccia sul cavalletto
Sotto i denti di ferro.
(Come un soldato che resista da solo per tutta la vita
Per fede
Per il suo generale (apparentemente) assente.
Ho visto martiri in fiamme come torce
Prepararsi così le palme sempre verdi.
Ho visto stillare sotto gli uncini di ferro
Gocce di sangue splendenti come diamanti.
Ho visto stillare lacrime d’amore
Che dureranno più a lungo delle stelle del cielo.
E ho visto sguardi di preghiera, di tenerezza,
Estatici di carità
Che brilleranno in eterno per  notti e  notti.
Ho visto vite intere dalla nascita alla morte,
Dal battesimo al viatico,
Svolgersi come una bella matassa di lana.
Ora vi dico, dice Dio, non conosco nulla di così bello in tutto il mondo
Come un piccolo bimbo che s’addormenti nel dir la preghiera
Sotto l’ala dell’angelo custode
E che sorride da solo scivolando nel sonno.
E già mescola tutto insieme e non ci capisce più nulla
E arruffa le parole del Padre Nostro e le infila alla rinfusa tra le parole dell’Ave Maria


Mentre già un velo gli cala sulle palpebre,
Il velo della notte sul suo sguardo, sulla sua voce.
Ho visto i santi più grandi, dice Dio. Ebbene, io vi dico.
Non ho mai visto nulla di più buffo e quindi di più bello al mondo
Di questo bimbo che s’addormenta nel dir la preghiera
(Di quest’esserino che s’addormenta fiducioso)
E che mescola Padre Nostro e Ave Maria.
Nulla è più bello, e in questo perfino
La Santa Vergine è d’accordo con me.
Su quest’argomento.
E posso ben dire che sia il solo punto su cui andiamo d’accordo. Perché generalmente siamo di parere contrario.
Perché lei è per la misericordia.
E io, bisogna pure che io sia per la giustizia.


Così, dice Dio, come capisco mio figlio. Mio figlio l’ha detto e ridetto. (Perché bisogna intendere alla lettera ogni parola di mio figlio.) Sinite parvulos. Lasciate che vengano.
Sinite parvulos venire ad me. Lasciate che i piccoli vengano a me.
I piccoli bimbi.


Allora gli furono offerti dei piccini perché imponesse loro le mani e pregasse. Ora i discepoli li rimproveravano.
Ma Gesù disse loro: Lasciate i piccoli, e non impedite che vengano a me: talium est enim regnum coelorum. Infatti di costoro è il regno dei cieli. A loro, a quelli come loro appartiene il regno dei cieli.
E dopo avere imposto loro le mani, se ne andò.

 


LA CULTURA DELLA CURA COME PERCORSO DI PACE

 




MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

PER LA CELEBRAZIONE DELLA LIV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 1° GENNAIO 2021

 

Sintesi: Paolo Cugini

La vita e il ministero di Gesù incarnano l’apice della rivelazione dell’amore del Padre per l’umanità. Nella sinagoga di Nazaret, Gesù si è manifestato come Colui che il Signore ha consacrato e «mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4,18). Nella sua compassione, Cristo si avvicina ai malati nel corpo e nello spirito e li guarisce; perdona i peccatori e dona loro una vita nuova. Gesù è il Buon Pastore che si prende cura delle pecore; è il Buon Samaritano che si china sull’uomo ferito, medica le sue piaghe e si prende cura di lui (cfr Lc 10,30-37).

 

Le opere di misericordia spirituale e corporale costituiscono il nucleo del servizio di carità della Chiesa primitiva. I cristiani della prima generazione praticavano la condivisione perché nessuno tra loro fosse bisognoso (cfr At 4,34-35) e si sforzavano di rendere la comunità una casa accogliente, aperta ad ogni situazione umana, disposta a farsi carico dei più fragili. Divenne così abituale fare offerte volontarie per sfamare i poveri, seppellire i morti e nutrire gli orfani, gli anziani e le vittime di disastri, come i naufraghi.

 La diakonia delle origini, arricchita dalla riflessione dei Padri e animata, attraverso i secoli, dalla carità operosa di tanti testimoni luminosi della fede, è diventata il cuore pulsante della dottrina sociale della Chiesa, offrendosi a tutte le persone di buona volontà come un prezioso patrimonio di principi, criteri e indicazioni, da cui attingere la “grammatica” della cura: la promozione della dignità di ogni persona umana, la solidarietà con i poveri e gli indifesi, la sollecitudine per il bene comune, la salvaguardia del creato.

Ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica trova il suo compimento quando si pone al servizio del bene comune, ossia dell’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente. La solidarietà esprime concretamente l’amore per l’altro, non come un sentimento vago, ma come determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti.

Non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani. Pace, giustizia e salvaguardia del creato sono tre questioni del tutto connesse, che non si potranno separare in modo da essere trattate singolarmente, a pena di ricadere nuovamente nel riduzionismo.

La bussola dei principi sociali, necessaria a promuovere la cultura della cura, è indicativa per le relazioni tra le Nazioni, che dovrebbero essere ispirate alla fratellanza, al rispetto reciproco, alla solidarietà e all’osservanza del diritto internazionale. A tale proposito, vanno ribadite la tutela e la promozione dei diritti umani fondamentali, che sono inalienabili, universali e indivisibili. Va richiamato anche il rispetto del diritto umanitario, soprattutto in questa fase in cui conflitti e guerre si susseguono senza interruzione.

La promozione della cultura della cura richiede un processo educativo e la bussola dei principi sociali costituisce, a tale scopo, uno strumento affidabile per vari contesti tra loro correlati. Vorrei fornire al riguardo alcuni esempi. L’educazione alla cura nasce nella famiglia, nucleo naturale e fondamentale della società, dove s’impara a vivere in relazione e nel rispetto reciproco. Sempre in collaborazione con la famiglia, altri soggetti preposti all’educazione sono la scuola e l’università, e analogamente, per certi aspetti, i soggetti della comunicazione sociale. Le religioni in generale, e i leader religiosi in particolare, possono svolgere un ruolo insostituibile nel trasmettere ai fedeli e alla società i valori della solidarietà, del rispetto delle differenze, dell’accoglienza e della cura dei fratelli più fragili.

La cultura della cura, quale impegno comune, solidale e partecipativo per proteggere e promuovere la dignità e il bene di tutti, quale disposizione ad interessarsi, a prestare attenzione, alla compassione, alla riconciliazione e alla guarigione, al rispetto mutuo e all’accoglienza reciproca, costituisce una via privilegiata per la costruzione della pace.

 


In questo tempo, nel quale la barca dell’umanità, scossa dalla tempesta della crisi, procede faticosamente in cerca di un orizzonte più calmo e sereno, il timone della dignità della persona umana e la “bussola” dei principi sociali fondamentali ci possono permettere di navigare con una rotta sicura e comune. Come cristiani, teniamo lo sguardo rivolto alla Vergine Maria, Stella del mare e Madre della speranza. Tutti insieme collaboriamo per avanzare verso un nuovo orizzonte di amore e di pace, di fraternità e di solidarietà, di sostegno vicendevole e di accoglienza reciproca. Non cediamo alla tentazione di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli, non abituiamoci a voltare lo sguardo, ma impegniamoci ogni giorno concretamente per «formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri.

 

 

mercoledì 16 dicembre 2020

DOMANDE SULLA SCOMPARSA DEL CRISTIANESIMO



Paolo Cugini

 

 

È sotto gli occhi di tutti il progressivo sgretolamento del cristianesimo come religione che si è affermata e identificata in Occidente. Ogni evento di cambiamento radicale non può essere spiegato solamente da un punto di riferimento. Nel nostro caso, ci sono una serie di elementi che vanno tutti nella stessa direzione, vale a dire, la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Sappiamo che cosa sta per finire, ma non abbiamo ancora molti elementi per capire verso dove stiamo andando. Di certo, c’è un diffuso consumismo che si è esteso negli ultimi decenni nel mondo occidentale, che ci può far pensare ad una cultura che si modella su elementi materiali. Sembra che, anche in questo caso, venga confermata un’intuizione sull’evoluzione storica delle idee, vale a dire che ad ogni epoca spiritualista, ne segue una di matrice più materiale. È stato così, per esempio nei primi secoli della filosofia. All’epoca, infatti, dei grandi sistemi filosofici del VI secolo a. C., caratterizzati da uno spessore teorico e contemplativo come quello platonico o aristotelico, si è passati ad un’impostazione generale segnata più dalla materia, come ad esempio l’epicureismo o lo stoicismo.

Che cosa dovrebbe fare la Chiesa, in quest’epoca di cambiamento, per non perdere il contatto con la realtà? Quali scelte dovrebbe compiere per riuscire, ancora oggi, ad annunciare in modo autentico il messaggio di Gesù? A che cosa dovrebbe rinunciare in modo definitivo, per fare spazio alla novità che germoglia dalla storia?


giovedì 10 dicembre 2020

La dignità umana e il problema del fondamento dei diritti umani. Alcune prospettive del dibattito attuale

 



 

Paolo Cugini

 Il concetto di dignità umana è divenuto particolarmente significativo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, come frutto della riflessione sui tragici eventi che l’hanno caratterizzata. Da quel momento, il termine dignità umana appare non solo nei documenti internazionali come la dichiarazione universale dei diritti umani adottato dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nella sua terza sessione, il 10 dicembre 1948 a Parigi, ma anche in molte costituzioni nazionali, come quella italiana, e regionali. Certamente, sia in campo filosofico che giuridico il tema era già presente e dibattuto prima di questi tragici eventi, ma si è particolarmente acceso proprio a partire dalla necessità di chiarire i limiti e, allo stesso tempo i valori fondamentali, che potevano essere indicati come vincolanti l’agire umano. Tale riflessione, è divenuta ancora più urgente negli ultimi decenni su alcuni temi di bioetica come l’eutanasia, il fine-vita, l’aborto, tra gli altri. Il problema che viene sollevato è il seguente: quando parliamo di dignità dell’uomo, che cosa intendiamo? Nelle ricerche analizzate emergono, in linea generale, due correnti di pensiero: la teoria ontologica o della dotazione e la teoria utilitaristica o della prestazione.

La teoria ontologica fonda la dignità dell’uomo su Dio, per cui essendo l’uomo ad immagine di Dio, ogni aspetto della vita umana è sacro. La positività di questa teoria consiste nel proporsi come baluardo per ogni momento della vita umana, anche e soprattutto, in quei momenti in cui la persona è più debole come la nascita, la malattia e la prossimità della morte. Questa teoria si è sviluppata in occidente soprattutto grazie al cristianesimo, che trova nella Sacra Scrittura i fondamenti delle proprie posizioni. L’uomo ha una dignità che le è stata conferita da Dio, poiché lo ha creato a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26). La riflessione Patristica dei primi secoli della Chiesa e, soprattutto, la teologia Scolastica di Tommaso, hanno fornito una struttura metafisica a tale posizione. L’uomo ha una dignità che non solo gli è conferita da Dio, ma che è inscritta nella natura umana è, quindi, un “possesso originario”, ereditato dalla nascita e, di conseguenza, un dato oggettivo indiscutibile. Questa impostazione ontologica apre il cammino ai così detti valori non negoziabili, nel senso che non sono oggetto di discussione, perché protetti dalla sacralità della vita che viene da Dio e che trova un fondamento metafisico nella legge naturale. Il discorso sui diritti dell’uomo, in questa prospettiva ontologica, ha una valenza universale, perché non dipendono dall’agire umano, o da valori soggettivi e, proprio per questo, devono essere difesi universalmente. Questo modo di fondare il discorso della dignità umana, nel contesto secolarizzato in cui viviamo, incontra molti detrattori che, pur riconoscendone alcuni elementi fondamentali, come il valore della vita, non accettano una argomentazione di tipo religioso o metafisico, perché esclude un dibattito razionale che possa attualizzare e contestualizzare il discorso. In ogni modo, la prospettiva ontologica offre non pochi vantaggi sul piano della vita quotidiana. Infatti, come osserva Francesco Viola:

“vantaggio pratico della via ontologica, e della teoria della dotazione che è ad essa collegata, è quello della totale non discriminazione fra gli esseri appartenenti alla specie umana. La via ontologica non tollera alcuna discriminazione derivante dalla razza, dal genere, dallo stato di salute, dal grado di capacità in atto possedute, dallo sviluppo intellettuale e morale. Tutti coloro che appartengono alla specie umana hanno ipso facto quello status normativo particolare che viene solitamente designato come dignità”.



Al polo opposto, si pone la prospettiva utilitaristica che fa dipendere la dignità umana dal risultato dell’agire umano, “una conquista della soggettività umana che si costruisce una propria identità”. Merito, potere, virtù o censo possono essere elementi che determinano un grado di qualità di una persona rispetto alle altre. Nella teoria utilitaristica la tutela della dignità dell’uomo “è essenzialmente imperniata sul rispetto della sua volontà e, pertanto, può essere posa in essere solo quando l’individuo gode di piena autonomia”. In tale concezione, diventa fondamentale il principio di autodeterminazione, per il quale è necessario assicurare al soggetto il massimo grado di libertà e decisionalità sulle questioni che lo riguardano. C’è un’assolutizzazione della libertà di scelta soggettiva, che apre questioni delicate sul piano morale, lasciando scoperte di protezione proprio quelle situazioni umane più necessitanti di sicurezza da parte dello Stato o di organi competenti. Se, infatti, è degna la persona che per una serie di circostanze riesce a “meritarsi” una qualità della vita degna, che dire di tutto coloro che, per condizioni sociali o fisiche, partono svantaggiati non potendo, quindi, provvedere alla crescita qualitativa della propria esistenza? L’impostazione utilitaristica è alla base della cultura che considera le persone non tutte degne degli stessi diritti; è alla base della società divisa in classi che dichiara qualcuno più degno dell’altro, a partire non da qualità innate, ma da una posizione accidentale dovuta dal fatto di essere nato in una casa piuttosto che in un’altra. Sfogliando le pagine della storia occidentale e anche le pagine dei libri sacri, troviamo le impronte di queste civiltà che hanno giustificato la schiavitù, la superiorità di rango, la giustificazione di privilegi e di punizioni. Secondo Carminiani: “corollari di questa tesi sono: è più degno chi vive meglio, chi è in condizioni di poter perseguire il massimo grado di soddisfazione personale; in definitiva chi nella vita gode di più”. La giustificazione sul porre fine alla vita quando questa si trova in condizioni considerate indegne, trova il suo appoggio teorico nella prospettiva utilitaristica.



La domanda che, a questo punto del discorso, viene spontanea è la seguente: quando nei documenti del diritto internazionale o nazionale incontriamo l’affermazione della dignità umana, a che cosa si riferisce e che cosa s’intende? Quando c’imbattiamo in queste affermazioni generali entrano in gioco le nostre precomprensioni teoriche più o meno esplicitate, ma non sappiamo quali sono le intenzioni del redattore dei testi. Senza dubbio, c’è alla base il desiderio e la volontà di offrire strumenti giuridici in grado di garantire la massima protezione possibile alla vita umana in tutte le sue fasi e a tutte le latitudini. Nella conclusione proverò ad abbozzare una mia riflessione sul tipo di fondazione che oggi il diritto internazionale cerca per avvalorare le proprie posizioni.

Ripercorrere, se pur velocemente e con notevoli dimenticanze e lacune, alcune delle riflessioni che hanno segnato il pensiero occidentale sul tema della dignità della persona umana, permette di comprendere la profondità e la ricchezza culturale che ha segnato la nostra civiltà. C’è stato un lungo cammino in cui la filosofia e la teologia hanno dialogato, offrendo contenuti che per molti secoli si sono intrecciati per poi, ad un certo punto, intraprendere ognuno il proprio cammino. Questa separazione, seppur necessaria, ha lasciato a mio avviso qualche traccia negativa all’interno della cultura occidentale, perché, segnando negativamente la religione e la sua istituzione, spesso e volentieri non ha permesso l’obiettività di riconoscere i contenuti positivi e, per certi aspetti universali, di cui ancora oggi l’umanità necessita.

Il rifiuto di ogni fondazione metafisica da una parte e l’ambiguità dell’approccio utilitaristico dall’altra, obbligano a cercare quella che possiamo definire una terza via, per formulare criteri il più possibile condivisi, che aiutino le persone a prendere decisioni che sappiano salvaguardare la dignità della persona umana in tutti i momenti della vita. In questa prospettiva, a mio avviso, è possibile attivare il principio di responsabilità, così come indicato da Hans Jonas, solamente all’interno di un processo che sappia ascoltare e valutare le opinioni provenienti dalle diverse matrici culturali di un luogo. È la proposta elaborata da Jurgen Habermas nella sua teoria dell’agire comunicativosecondo il quale, per raggiungere il massimo possibile di obiettività, occorre che il linguaggio dei partecipanti del dibattito sia intellegibile per tutti. Per questo motivo, non è possibile argomentare facendo riferimento a codici religiosi o filosofici o di altra natura, conosciuti solamente da colui che prende la parola. Inoltre, la discussione non dev’essere viziata dal tentativo subdolo di voler a tutti i costi convincere e persuadere l’interlocutore su quello che si vuole affermare e, per questo, il dibattito deve avvenire sul piano della chiarezza e dell’autenticità. Questi criteri, secondo Habermas, sono il minimo che si possa richiedere in qualsiasi dibattito che ricerchi la verità su qualche aspetto della vita sociale, che cerchi risposte a problemi concreti della vita. In questa prospettiva, a mio avviso, viene superata la questione della formulazione di diritti universali della persona umana, perché ciò che importa è la ricerca di una decisione che interessa la comunità locale.





Una simile impostazione, anche se partendo da un punto di riferimento diverso, è quella di Gianni Vattimo. Venendo meno le narrazioni metafisiche per quel processo di dissoluzione dell’essere che la storia della metafisica porta con sé, non rimane altro che interpretare gli eventi per come appaiono sul piano della storia. L’ermeneutica diviene, allora, lo stile di coloro che, abbandonando la presupposta presunzione di chi crede di trovare verità assiomatiche in un percorso storico dominato dalla contingenza, diviene capace di accompagnare il manifestarsi della realtà per offrirne un’interpretazione. Chi è in grado, a detta di Vattimo, d’interpretare un evento dichiarando buono per il bene comune, è la comunità che lo valuta a partire da alcuni criteri condivisi come la vita e l’amore.

Habermas e Vattimo sono solamente alcune delle proposte emerse in questi ultimi decenni di crisi della metafisica classica e affermazione di una cultura che fa fatica a pensare oltre la soglia di casa. Forse possono apparire posizioni deboli, inconcludenti. A mio avviso, però, mostrano lo sforzo di pensare cammini nuovi in grado di offrire alcuni principi, capaci soprattutto di coinvolgere le comunità, vale a dire i diretti interessati dei problemi affrontati. Forse è questo aspetto, una delle maggiori lacune del pensiero forte, così forte da elaborare teorie che spesso e volentieri nella storia hanno scartato i più deboli.

 

sabato 5 dicembre 2020

Tra libertà e dignità: da Pico della Mirandola a Emmanuel Kant

 



 

Paolo Cugini

Pico della Mirandola, filosofo umanista, ci aiuta ad approfondire il concetto di dignità. Troviamo i contenuti significativi che fondano in modo nuovo il concetto di dignità nel: Discorso sulla dignità dell’uomo scritto nel 1486. Secondo Pico, la dignità dell’uomo non gli viene data da Dio, ma è relativa alla sua natura umana. Pico lavora in una dimensione multiculturale e cerca qualcosa che è comune a tutte le culture. Cos’è comune a tutte le culture? Dire che nulla è più splendido dell’uomo.  La differenza tra intelletto e ragione è che la ragione indaga (è argomentativa) e l’intelletto è intuitivo e dà luogo a delle evidenze. 



All’uomo sarebbe riconosciuto di essere elemento di temporalità, ma anche eterno. Pico pensa che l’uomo ha in sé tante caratteristiche importanti, ma non lo rende l’essere migliore al mondo: ci sono creature di gran lunga superiori ed ammirabili. Dopo aver dubitato, dichiara di aver intuito che cosa faccia dell’uomo un miracolo, una meraviglia tra i viventi. Pico convoca Mosè e Timeo, quindi Atene e Gerusalemme. La paterna potestà (Dio) non può venir meno al suo ultimo desiderio, che dev’essere di altissimo livello. “di natura indefinita”: non disponendo di un’altra cosa, di un altro luogo, di un altro archetipo, dà all’uomo tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. L’uomo dispone di tutto quello che hanno gli altri, ma gli dà una natura indefinita in questo modo. Tu te la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai Una natura indefinita vuol dire che non è determinato ad essere per sempre la stessa cosa. Una natura che può farsi, che rispetta sé stessa, nel suo farsi. Definire l’uomo di natura indefinita significa ampliare le sue possibilità. La natura indefinita vuol dire, dunque, un’estrema potenzialità. In altre parole, per Pico della Mirandola ciò che identifica la dignità dell’uomo è la sua libertà, la sua possibilità di determinarsi in ogni momento come vuole. O suprema liberalità di Dio padre! o suprema e mirabile felicità dell'uomo! a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole.

 


Arriviamo, così, a Kant, vale a dire in pieno illuminismo. La morale è auto-nomos (legge a se stessa), quindi deve trovare dei valori intrinseci, dei criteri che sono autonomi. In questo, Kant pone come uno dei doveri morali principali il fatto che l’uomo non deve mai essere mezzo, ma sempre fine. Sono le leggi assolute della morale autonoma, leggi che vengono dettate dalla ragione. Il criterio della morale non è più qualcosa di eteronomo, ma è la ragione che detta alcune regole, tra cui la più importante è: agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo. Questa legge fa sì che in Kant la dignità, il fatto che l’uomo non sia mezzo ma fine, implica un rispetto reciproco, una reciprocità. L’aspetto significativo per il nostro discorso è il fatto che reciprocamente ci si deve rispettare e fare carico dell’altro come un fine. È soltanto nel rispetto della dignità propria e altrui, ovvero nella moralità della propria condotta, che a ciascun essere umano è dato di realizzare pienamente sé stesso e la propria libertà. Questo fatto mette in campo il termine dell’uguaglianza tra gli uomini: nessuno è superiore agli altri, nessuno può usare un uomo come mezzo per raggiungere un fine, ogni uomo è sempre un fine a sé stesso. Kant sostiene che, mentre il dovere negativo e il dovere giuridico sono vincolanti, il dovere positivo è un punto di arrivo che può essere guadagnato dall’umanità. Se in Pico la libertà era il focus, nei testi kantiani recuperiamo il fondamento dell’uguaglianza. Per Kant il termine della dignità è fondamentale per garantire il progresso: non c’è progresso se non nel rispetto della dignità dell’uomo.

 

mercoledì 2 dicembre 2020

Il tema del soggetto a partire dalla riflessione sul cogito proposta da Descartes

 


Paolo Cugini

Soggetto lo usiamo molto spesso come sinonimo di uomo. Il termine soggetto non compare nell’antichità neanche latina in quanto si tratta di una produzione della modernità, esito della filosofia di Descartes. C’è in Descartes la ricerca di un processo conoscitivo che assicuri l’evidenza delle asserzioni e lo fa attraverso una serie di regole. Regola dell’evidenza: accogliere come vero solo ciò che risulta evidente; regola dell’analisi: suddividere ogni problema nelle sue parti elementari; regola della sintesi: risalire dal semplice al complesso; regola dell’enumerazione: enumerare tutti gli elementi individuati mediante l’analisi e rivedere tutti i passaggi della sintesi. Secondo Descartes, occorre dubitare di tutte le cose che non appaiono chiare e coerenti e, portato all’estremo, diventa un dubbio iperbolico in cui si dubita di tutto: dei sensi, della ragione, dell’esistenza della materia e perfino delle stesse verità matematiche. In ogni modo, sostiene Descartes, di tutto posso dubitare, tranne che del fatto stesso di dubitare, quindi di esistere. La proposizione “io esisto” equivale dunque alla proposizione” io sono un soggetto pensante”. L’atto di dubitare è, di conseguenza, indubitabile. Ma dubitare significa pensare, sia pure per mettere in dubbio il contenuto pensato. Di qui, l’intuizione di Descartes: penso, dunque sono, esisto (cogito, ergo sum). È questa la prima verità fondamentale. 



Nella ricerca di una conoscenza certa, il corpo rimane escluso perché è fonte di dubbi, perché il corpo lo conosco attraverso i sensi ed i sensi ingannano. La prospettiva gnoseologica aperta da Descartes riporta sul piano antropologico non solo quella svalutazione del corpo tipica della riflessione platonica, ma anche il dualismo tra razionalità e corporalità che, in parte, Tommaso aveva tentato di sanare. Nonostante che sin dall’apparizione del Discorso sul metodo non mancarono le critiche de suoi detrattori, è indubbio che l’intuizione proposta dal cogito cartesiano provocasse un radicale novità nel panorama gnoseologico della filosofia occidentale. Come giustamente ha sostenuto la prof.ssa Bonicalzi: “Più che a Galileo è a Descartes che dobbiamo la nascita del linguaggio delle scienze. La struttura della logica della scienza va a Descartes […] Non se ne esce dal cogito, il cogito ha posto talmente una novità di modo di ragionare, su cui si è costruita tutta la scienza e la tecnica”. Si passa, infatti, dalla fondazione teologica del soggetto umano che ha caratterizzato tutto il dibattito filosofico medievale, al soggetto come punto di partenza per la ricerca della verità. D’ora innanzi, è il soggetto il grande protagonista della cultura occidentale, al punto da essere la chiave di valutazione della stessa realtà, che potrà valere nella misura in cui corrisponde all’idea elaborata dal soggetto. Il cogito cartesiano apre la strada alla netta separazione tra fede e ragione, indicando il cammino di una conoscenza certa basata sulla fiducia nella ragione. A mio avviso, si tratta di una forma meno mistica di platonismo, che rivela la struttura portante della cultura occidentale, che ha iper-valorizzato il dato razionale a detrimento delle sensazioni e dei sentimenti. Il cogito cartesiano è il punto di partenza di una forma di pensiero unidirezionale, che non potrà che provocare sistemi rigidi incapaci di accogliere e spiegare la molteplicità della realtà.



Di questo parere è Michel Foucault, che accusa Descartes di aver escluso e buttato fuori l’animale dal corpo umano, mentre sul versante della ragione ha emarginato la follia. Il cogito cartesiano è esclusione dell’altro quando l’altro è il diverso. Foucault lavora sulle istituzioni che sono segregazioni dell’altro universo (prigione, manicomio) e scrive una storia della follia in cui recupera la figura del folle come partecipe della vita nel mondo medievale e si interroga sul che cosa significhi lasciar esistere il folle tra di noi, il matto del villaggio, come qualcuno con cui dobbiamo continuamente relazionarci e rinchiuderlo però, in modo da togliercelo dalla vista. Foucault è un acerrimo critico del cogito cartesiano, responsabile della costruzione di un modo di pensare escludente, che ha strutturato percorsi sociali fatti per pochi, provocando l’esclusione di quei settori della società considerati marginali rispetto ad un’idea di realtà predeterminata. Quando un pensiero non è in grado di accogliere la differenza significa che presenta delle aporie al suo interno, aprendo il varco a cammini d’intolleranza, che possono sfociare nella violenza nei confronti del diverso.  



Mentre Foucault risponde al cogito cartesiano con la prospettiva della morte dell’uomo, Jacques Derrida sostiene che il cogito cartesiano permette un altro percorso (della soggettività) che è l’io auto-biografico. L’io è colui che narra e scrive la sua vita, recuperando quell’aspetto di auto-riflessività già presente, come abbiamo visto, nella filosofia di Mounier. Derrida aveva denunciato che il cogito si costruisce nell’esclusione della corporeità, ma che recuperava dall’interno dell’operazione cartesiana, “la possibilità di una soggettività che lui chiama io, un io capace di narrare la sua propria vita (lo chiama “io autobiografico”). Deridda insiste su questo aspetto forte della soggettività, su un punto di individualità che ci connota nell’identità personale: la firma”.



Sulla linea di Deridda anche se con sfumature diverse si pone Jean Luc Marion, il quale si accosta a Descartes in prospettiva fenomenologica. Se Descartes ha a che fare con la fenomenologia, ciò trova innanzitutto giustificazione nel fatto che egli porta a compimento il progetto della metafisica fino a farne emergere le possibilità e i limiti, o, meglio, “fino addirittura alla possibilità stessa di fare del limite la soglia che apre – e richiede il passaggio – alla fenomenologia”. Per Marion, quello che entra in gioco nell’articolazione del rapporto tra metafisica e fenomenologia, “è un modello di razionalità che non va abolito ma destituito, non perché inutile, ma perché potenziabile e fecondabile”. Alle origini tanto della nozione di io, quanto di quella di Dio sta, secondo Marion interprete di Descartes, la fenomenologia della donazione: non è comprensibile l’io se viene distaccato da Dio, ma neppure se ad esso viene sovrapposto; solo la donazione nel momento stesso in cui rivela l’esatto rapporto tra Dio e l’io, rivela anche chi sia Dio e insieme chi sia l’io. Di qui l’importanza, per Marion, di collocare l’indagine antropologica e in generale filosofica, all’interno di un’esplicita filosofia della religione, “che viene a fungere da articolazione tra la prima indagine storico-filosofica su Descartes e la successiva esplicita fenomenologia della donazione”.

 

lunedì 23 novembre 2020

Persona nella riflessione filosofica: dai padri della Chiesa al personalismo di Emmanuel Mounier



Paolo Cugini

 

Nel percorso intrapreso per comprendere il significato filosofico della dignità umana, uno posto di riguardo va dato al termine persona. L’origine etimologico di questo concetto non trova d’accordo gli studiosi, in ogni modo sembra fuori discussione che faccia riferimento all’utilizzo della maschera nel teatro greco, che serviva a dare all'attore le sembianze del personaggio che interpretava. Nel mondo latino con Seneca soprattutto, il termine persona si allargherà assumendo il carattere di ruolo, mentre Cicerone lo utilizzerà per indicare la carica ed il ruolo sociale che un individuo riveste. Questo aspetto di persona come articolazione di un’identità, viene ad essere assunto nel mondo cristiano per rispondere a due grandi problematiche di tipo teologico: la Trinità e la natura umano-divina di Cristo. Il problema della Trinità è stato oggetto di molti concili e dibattiti teologici con la costante preoccupazione di non accentuare troppo la distinzione tra le persone ma, d’altra parte, di conoscere le caratteristiche proprie di ciascuna delle tre. Il concetto di persona, da Agostino in poi, nel dibattito trinitario, aiuta a comprendere meglio l’unità nella diversità e la relazione tra le persone che rimangono unite pur mantenendo ognuna una propria identità. Lo stesso discorso vale sul tema delle due nature di Gesù in un’unica persona. Del resto, come dall’uno si possa dare il molteplice e come spiegare la diversità dei fenomeni in corrispondenza del principio unico della realtà, è un tema centrale del pensiero filosofico occidentale, che segna tutti i grandi sistemi filosofici dell’antichità dal platonismo al neoplatonismo di Plotino, passando anche per i grandi sistemi dell’epoca ellenistica. L’identità di Gesù Cristo viene definita come una persona e due nature, in cui la natura divina viene manifestata nelle scelte, nei gesti e nelle parole di Gesù. Sarà Massimo il Confessore nel VII secolo d. C. ad affermare che: “Cristo opera umanamente ciò che è divino e divinamente ciò che è umano”.

Un contributo significativo nel cammino filosofico alla ricerca di ciò che rende specifico l’uomo rispetto agli altri esseri viventi è quello di Tommaso d’Acquino, il quale cerca di dar significato al termine persona in relazione all’uomo. Mentre uomo starebbe ad indicare la specie, con una dimensione più di tipo universale, il termine persona viene ad indicare l’individuo concreto. Per Tommaso il termine persona chiarisce il dato essenziale e caratteristico di questi enti particolari (gli uomini) e cioè quello di intrattenere un diverso rapporto con se stessi. Persona è quell’ente che ha una diversa capacità da tutti gli altri enti naturali di relazionarsi con se stesso: l’uomo ha una capacità riflessiva, ha una coscienza di sé e sa quel che fa. L’uomo è essere pensante con la libertà di rapportarsi consapevolmente con gli altri e, in una certa misura, creativamente, nei confronti della propria natura. L’uomo crea cultura, arte, civiltà e questa è una caratteristica specifica rispetto agli altri enti. Il termine persona sta ad indicare l’individuo, ma quell’individuo la cui capacità di apertura agli altri e il cui rapporto di relazione a sé lo rende un unicum nel mondo e tra tutti gli elementi della natura.

Nel cammino della filosofia contemporanea si deve ad Emmanuel Mounier fondatore della rivista Esprit e della corrente filosofica denominata Personalismo, il recupero nel dibattito culturale del termine persona, mediato anche dalla riflessione di Tommaso d’Acquino, grazie anche all’influenza esercitata su Mounier dal filosofo tomista suo contemporaneo Jacques Maritain. Secondo Mounier, la persona è segno di differenza all’interno dell’uomo (come concetto). Essa è quella parte del soggetto che lo distingue da tutti gli altri enti contingenti. La persona, essendo soggettività ed oggettività, sfugge alla completa percezione. Per questo carattere indefinibile ed impercepibile nella totalità, Mounier afferma che "la persona non è un oggetto". In contrapposizione con le correnti filosofiche che esaltano un aspetto dell'universo personale a scapito dell'altro, Mounier afferma, in sintonia con la prospettiva tomista che: "l'uomo è un corpo allo stesso titolo che è spirito, tutto intero corpo e tutto intero spirito". La caratteristica della persona consiste nella sua capacità non solo di essere in relazione con il mondo circostante – natura e società -, ma anche di tornare in se stessa, di riflettere. “la vita personale – scrive Mounier- comincia con la capacità di rompere i contatti con l’ambiente, di riprendersi, di ripossedersi per riportarsi ad un centro e raggiungere la propria unità”. Nel percorso riflessivo la persona ha la possibilità di scoprire la dimensione trascendete, la possibilità di comprendere di fare parte di un progetto maggiore di quello pensato. Per questo motivo Mounier afferma che: “il nostro spirito, sebbene finito ed in grado di conoscere e di concepire solo in modo finito, già da sempre mira all’illimitatezza dell’essere in generale, significa che l’orizzonte dell’essere gli è per principio aperto”.

 

I MOTORI DEL CAMBIAMENTO SOCIALE (annotazioni)

 



 

Paolo Cugini

 

Demografia

Sta cambiando a livello mondiale con conseguenze molto importanti.

Se guardiamo la situazione nel 1950 in Asia 55% della popolazione, in Europa 21% della popolazione mondiale (dato importante perché nel 2010 l’Europa ha il 10% della popolazione mondiale e questo perché sono cresciute Africa e Asia).

La crescita asiatica ha comportano anche mutamenti politici e sociali.

 

Nel 2100 Europa 6,7% la situazione a livello politico non può più essere detto che c’è una priorità che può esistere a livello europeo, l’Africa al 35% popolazione globale, Asia un po’ in diminuzione ma rimane la maggioranza della popolazione globale. Quando non ci sono misure adeguate in questi continenti, automaticamente ci saranno degli spostamenti da questi continenti. Oggi la politica nazionale va più nel senso della autosufficienza e nella auto-protezione, con volontà di diventate autosufficienti, soprattutto i paesi europei.

 

Età della popolazione tra i 15 – 24 anni in Africa 43 milioni, adesso 2010 205 milioni, alla fine nel 2100 saranno mezzo miliardo, e sono giovani e si muovono alla ricerca di soluzioni, hanno iniziative economiche e altro e quindi ci sarà sia sviluppo dell’Africa sia emigrazione.

In Asia la crescita è meno importante ma anche l’asia andrà verso i 500 milioni di giovani.

L’Europa invece è un disastro: 94.000 nel 1950, nel 2100 76.000, una riduzione al di sotto del livello odierno (adesso siano circa a 93.000).

 

Nei paesi con povertà alta ci sono più bambini in famiglia, nelle nazioni economicamente più avanzate i bambini sono meno: In Italia siamo a un bambino per ogni donna fertile, cresce il numero degli anziani ma non ci sono i giovani per rispondere alla totalità della popolazione. Nel 2100 ci saranno 150.000 al lavoro e gli altri studenti o disoccupati.

America caraibica: l’economia adesso non sta in progresso ma in regresso, ci si aspetta una riduzione di natalità, nel 2100 ci saranno meno giovani.

 


USA e Canada avevano 25 milioni nel 1950 e diventeranno 63 milioni.

Nel 2050 saremo circa 9 miliardi in tutto il mondo.

Per l’Europa vediamo un problema che sta crescendo, a livello mondiale nel 1950 60 milioni, in futuro saranno molti di più e ci sarà mobilità oppure un conflitto che in realtà è già cominciato.

Guardiamo le diverse regioni tra il 2000 e il 2050 soprattutto USA e Canada vanno verso una diminuzione della popolazione senza immigrazione, se c’è migrazione normale e continuativa ci sarà una differenza di 77 milioni di persone. Il cambio di popolazione in Africa e in Europa, l’Europa avrà un calo di natalità che sarà compensato con la migrazione.

 

La gente di Arabia Saudita non lavorano tanto, lavorano i migranti in condizioni cattive, non possono nemmeno guardare il datore di lavoro, devono lavorare ad orari impossibili senza alcuna protezione eppure sono l’84% del mercato del lavoro. In Australia il 30% sono migranti.

 

Il problema delle percentuali è che non si sa esattamente quanto tempo un migrante rimane nelle statistiche della migrazione, come sono registrati, ma ci sono stati che dopo 5 o 10 anni di residenza non li considera più come migranti, così come talvolta non contano i migranti che non lavorano.

 

UK crescita negli ultimi 14 anni, che è normale perché c’è il common whealth e quindi c’è una mobilità molto alta, es. indiani che non sono necessariamente guardati come migranti. In genere nei paesi dell’UE c’è il 10% della popolazione attiva sono migranti da lungo termine. C’è una crescita.

 

Altro aspetto importante, quello della popolazione rurale e della popolazione che vive in città. Popolazione che inizia a vivere nelle città e persone che vivono nelle zone rurali. L’aumento delle persone nelle città rispetto alle zone rurali è il risultato di questo motore.

 

Es. Manila ha più o meno 16 milioni di persone, in parte già migrate dall’interno delle Filippine, non trovano lavoro a Manila e quindi si spostano all’estero.

 

La prima tappa della migrazione è interna dalla campagna alla città, poi la seconda tappa è all’estero.

In Europa nel 2030 aspettiamo una crescita inferiore rispetto ad altri paesi.

 


Studenti

Ci sono più stranieri che studiano in Italia rispetto agli italiani che studiano all’estero.

In Cina ci sono 38 – 48 milioni di studenti e cresce di circa 2 milioni di studenti in più (devono costruire ogni settimana una nuova università per rispondere alla richiesta di studenti), per questo ci sarà una mobilità di studenti verso l’Europa. Le università devono prepararsi a questo perché ci saranno meno italiani e più stranieri. Gli studenti italiani vogliono studiale all’estero perché non trovano lavoro in Italia, gli immigrati invece vogliono rimanere in Italia e questo modificherà il mercato del lavoro. Le università devono cercare di essere più attrattive per gli italiani e in gradi di integrare gli studenti migranti.

 

Rimesse

Sono il terzo motore, molto importante per il cambiamento. Una rimessa è un trasferimento di denaro come un pagamento o un dono. Questa è una definizione ma non è facile da capire.

 

Quanto vediamo nel 2018: 600 miliardi di dollari USA, i paesi che ricevono le rimesse sono Messico, Argentina e Filippine.

 

Le rimesse verso i paesi in via di sviluppo, nel 2010 340 milioni e 2019 579 milioni, quindi, stanno crescendo. Ora c’è una diminuzione, perché il 13% in meno è dovuto al fatto che dal 2019 molte persone sono dovute rientrare al paese d’origine, poi ci sono le persone che hanno perso il lavoro e non vogliono tornare a casa e non possono mandare soldi perché vivono in povertà.

 

I paesi che ricevono soldi: India, Cina, Filippine e Francia. Francia riceve molti soldi dalle rimesse è ciò è dovuto per l’economia. Messico, Egitto Pakistan, anche l’Italia ha ricevuto rimesse nel 2014 circa 9 milioni e mezzo ma in questi paesi Italia, Francia e Germania va in diminuzione per questa idea di autosufficienza e di non delocalizzare le aziende. In India 78 milioni, in Cina 67 milioni, nelle Filippine anche, in Messico 35 milioni. In tutti i paesi in sviluppo sono aumentate le rimesse.

Incidenza delle rimesse sul PIL, in Tagikistan avevano il 37% del PIL era dato dalle rimesse, il che significa che se cessano le rimesse, crolla l’economia e quindi si forma un conflitto interno che diventa un conflitto esterno e ciò vale anche per altri paesi caratterizzati da questo fenomeno. Ci sono paesi che dipendono dalle rimesse, se le rimesse cessano aumenta la povertà, le rimesse sono uno strumento di sviluppo.

 


I soldi arrivano dai paesi sviluppati USA, Arabia Saudita, Svizzera ecc. c’è un ammontare impressionante di soldi in movimento attraverso la gente.

Questione dei costi: quando una persona invia alla sua famiglia dei soldi deve pagare delle commesse e ciò che si è tentato di fare è di ridurre detti costi per non gravare sulle persone che le ricevono, adesso i costi sono circa il 7 – 8%, in Africa è ancora il 9%, sono percentuali importati per le banche che le stesse non vogliono perdere.

Ci sono state diverse politiche proposte di tassare di più tutti i trasferimenti di soldi a livelli internazionale per poi investirli nello sviluppo ma è una cosa che non è mai passata. Ci sono proposte anche per introdurre le tasse sulle rimesse, è una idea sbagliata perché si traduce in una seconda tassazione sul denaro, i migranti hanno già pagato le tasse sul denaro che ricevono dal loro lavoro. Le tasse vanno ad aumentare anche i soldi delle rimesse con impatto negativo per le famiglie che le ricevono.

 

Canale informale, sono i canali più pericolosi, perché non c’è certezza che i soldi arrivino a destinazione.

 

Gli USA hanno fatto una legge che vietava di inviare soldi in Iran, gli iraniani, quindi, li hanno inviati attraverso l’Europa, sono movimenti finanziari che variano a seconda delle leggi sulla tassazione e che li regolano.

 

Ci sono tante domande sulla diaspora, i migranti fanno anche dei risparmi e i risparmi stanno crescendo, le banche hanno i dati, c’è un risparmio annuale dei migranti. A volte offrono questi risparmi ai paesi di origine e in modo disordinato e non organizzato. Questione molto difficile quella di migliorare gli investimenti dei risparmi. I migranti poi usano i risparmi per comprarsi casa, ad esempio in Italia molti marocchini hanno comprato casa. Le rimesse sono un legame concreto tra immigrazione e sviluppo, ma non possiamo dimenticare che le rimesse sono soldi privati e sono soggette alla decisione dei privati non sono soldi che possono essere utilizzati dai governi anche se vorrebbero. L’utilizzo delle rimesse che vengono da fuori dell’Africa, come sono utilizzate in Africa nei vari paesi, studio del 2016.

 

Burkina: soldi sono stati utilizzati per cibo (23% ma non si sa di che tipo di cibo si tratta), salute, acquisto casa o terreni e per fare affari.

Kenya: affitto (perché le case sono più care), meno soldi per il cibo.

Nigeria: educazione riceve il 22% delle rimesse, vuol dire che i nigeriani vogliono che i loro figli abbiano l’opportunità di una educazione più alta, 24% passano a comprare un terreno, 21% affari, c’è attività commerciale, iniziare una attività è una sicurezza così come l’acquisto del terreno e la cultura dei figli.

Senegal: 52% cibo, 1,3% per affari anche se Senegal è abbastanza conosciuto per la sua economia ma la povertà e tanta, può essere perché molti poveri emigrano per far rientrare i soldi.

Uganda: situazione più equilibrata.

Le rimesse è vero che riducono la povertà, ma c’è anche una crescita di dipendenza da questa entrata sia per i privati, sia per gli stati. Se la rimessa cessa ci sono conseguenze. Le rimesse aumentano gli investimenti a lungo termine (acquisto casa e terreno) ma anche la consumazione immediata.

Le rimesse aumentano i servizi, specialmente a livello di salute ed educazione, ma ci sono oggi tante società europee e americane che si sono imposte in Africa per vendere cose che possono essere pagate solo con le rimesse, quindi, le rimesse cono anche un disturbo della realtà sociale. Ad esempio crea conflitto sociale perché alcune famiglie hanno le rimesse e altre no. Questo è un problema che deve essere affrontato anche se le rimesse cono comunque risorse private.