giovedì 22 giugno 2017

FESTA DELLA MISSIONE






ARCHIVIO MISSIONE


TAVOLA ROTONDA IN PREPARAZIONE AL IV CONVEGNO MISSIONARIO NAZIONALE
Paolo Cugini
Sabato 20 settembre 2015 al centro parrocchiale di Baragalla il Centro Missionario Diocesano ha organizzato la Festa della Missione. E bisogna proprio dire che è stata una vera e propria festa, soprattutto per la presenza di tanti missionari, sia di quelli rientrati da tempo, che di quelli ancora sul campo.  Non ci sono state danze o musiche, ma un serrato confronto sulle significative provocazioni di Papa Francesco, che ci stimola a pensare la parrocchia in un modo nuovo, a ripensare il modo di evangelizzare, non partendo esclusivamente dalle strutture del centro, ma dalle periferie. Il Papa c’invita ad abbandonare il criterio pastorale del “si è sempre fatto così”, per avere il coraggio di osare, di cercare e pensare strade nuove per riuscire a portare il vangelo dove ancora non è arrivato. In questa prospettiva la Diocesi di Reggio Emilia non ha bisogno di sfogliare i libri di missiologia per cercare qualche idea sul tema, ma gli basta ascoltare la ricca esperienza maturata in decenni di presenza missionaria in vari punti caldi del pianeta. E’ esattamente su questa linea che si è mosso il  Centro Missionario Diocesano , che ha voluto preparare il  IV convegno Missionario Nazionale, che si terrà a Roma dal 20 al 23 novembe, con un incontro che ha cercato di raccogliere le esperienze dei missionari, soprattutto in relazione al modo di evangelizzare a partire dalle periferie. Per questo, non c’è stata nessuna relazione iniziale e la parola è stata subito offerta alle tante persone presenti, che non si sono fatte pregare per prenderla. Per circa due ore, infatti, laici, laiche, suore, frati e preti, giovani, adulti e anziani si sono scambiati esperienze, attività realizzate in missione, coscienti che non si tratta di riprodurre in Italia quello che si è realizzato in missione, ma che è necessario condividere ciò che è stato fatto e che ha contribuito ad arricchire il cammino della chiesa locale.  Parrocchia come chiesa in uscita, come chiesa pensata e vissuta a partire dalle periferie, da quelle situazioni esistenziali nelle quali il Vangelo non arriva perché difficilmente la parrocchia pensa dei percorsi di evangelizzazione decentrando il proprio sforzo pastorale. D’altronde, siamo troppo abituati a fare le cose in casa, a gestire l’annuncio del Vangelo come un’attività da realizzare tra le mura costruite da noi e per noi. Una cosa è, infatti, pensare e vivere la fede a partire dalle nostre strutture, aspettando le persone. Tutt’altra storia è uscire, andare incontro, cercare quella maggior parte di persone che non frequentano i nostri territori, e non entrano nelle nostre strutture. Sappiamo bene che la sfida lanciata dal Papa s’inserisce nel cammino della chiesa italiana che da alcuni anni sta cercando di ripensare la parrocchia in una prospettiva missionaria. Una cosa, comunque è pensare, e tutt’altra cosa è provare, verificare sul terreno se le idee hanno una consistenza a contatto con la realtà. Che cosa è emerso, allora, da questo scambio di esperienze?

Sia da coloro che sono stati in Africa che in America Latina è stata evidenziata l’esperienza delle piccole comunità di base, piccole realtà a dimensione comunitaria, nelle quali l’ascolto della Parola di Dio settimanale, o anche la semplice recita del rosario, diviene momento fondante e illuminante di tutta la comunità. Le comunità rappresentano lo sforzo di una chiesa che si decentra (altra idea molto cara a Papa Francesco), che porta il Vangelo nelle case, recuperando quella dimensione familiare e più umana, che a volte perdiamo negli schemi della pastorale ordinaria. Le piccole comunità divengono anche lo strumento privilegiato per suscitare vocazioni laicali, persone che sentono il desiderio e la responsabilità di aiutare la comunità a crescere nella fede e nell’attenzione ai più poveri. Nelle piccole comunità di base è inoltre più facile curare le relazioni, l’attenzione alle singole persone e raggiungerne di nuove. In questa prospettiva, molto interessante è stata la condivisone di un’esperienza messa in atto in Madagascar, dove la parrocchia ha suscitato la presenza di responsabili che nei diversi quartieri si prendono cura dei più poveri e li segnalano alla comunità. E così, la fede che si celebra va di pari passo con la vita, e le liturgie celebrate nelle comunità si aprono ai problemi reali delle stesse. Molti degli interventi hanno sottolineato questo aspetto e cioè dell’attenzione nelle piccole comunità di base, per i più poveri. Altra esperienza significativa, tra le tante segnalate dai missionari intervenuti, è la visita alle famiglie fatte da gruppi di laici debitamente preparati. Non è quindi solo il prete che visita le famiglie, ma è la comunità che esce per annunciare il Vangelo. Questa, forse sarebbe un’iniziativa da riprendere anche nella nostra realtà e provare a trasformarla in azione pastorale permanente. Aiuterebbe anche a cogliere e vivere la missionarietà non più identificata come un’attività specifica per pochi professionisti, ma come il modo normale di vivere la fede. Una parrocchia che si organizza per uscire dalla canonica e dalle sale parrocchiali e andare ad incontrare le famiglie là dove vivono, produrrebbe senza dubbio idee nuove e stimolerebbe il Consiglio Pastorale parrocchiale a ripensare la presenza della chiesa sul territorio. Una di queste potrebbe essere, com’è stato suggerito durante l’incontro, la possibilità di celebrare la messa quotidiana non solamente ed esclusivamente nella chiesa, ma anche nei quartieri, radunando assieme le persone incontrate. La chiesa in uscita, che s’interessa di annunciare il Vangelo a tutti, entrando in contatto con le tante periferie esistenziali delle nostre parrocchie, potrebbe anche avere un riflesso sul modo in cui pensiamo e gestiamo tante altre iniziative, tra le quali le nostre sagre.


Spesso ci si chiede a che cosa serve andare in missione o a che cosa servono mandare tanti preti, suore e laici in tante parti del mondo se poi, una volta tornati, è richiesto un rapido reinserimento in un cammino pastorale molto diverso. Spesso e volentieri al missionario ritornato dopo tanti anni di missione viene ricordato - non sempre in modo delicato -che non è più là, come se andare in missione fosse stata una colpa, uno sfizio personale e non invece una scelta diocesana. In molti casi sembra quasi che l’esperienza missionaria sia stata una bella esperienza, molto personale di chi l’ha vissuta, ma che poi, una volta tornati, bisogna rapidamente mettere da parte. Bastava essere presenti sabato a Baragalla per capire che tesoro di grazia, di vita, di amore al Vangelo e alla chiesa l’esperienza missionaria ha prodotto in coloro che l’hanno vissuta e che desiderano trasmetterla nelle loro comunità. Bastava esserci a quell’incontro per vedere i volti allegri e pieni di gioia di tanti missionari contenti per aver incontrato il Signore nelle tante situazioni di vita quotidiana, fatta di condivisione con i più poveri, nelle periferie del mondo. Ed è di questa testimonianza che la nostra chiesa ha bisogno, per uscire dalle strettoie di una pastorale ordinaria, che spesso fa fatica a pensare l’annuncio del Vangelo a partire dalle nuove sfide che il mondo sta presentando sotto i nostri occhi. 

lunedì 19 giugno 2017

LA SORPRESA



APPUNTI SULL'EDUCAZIONE IN OCCIDENTE

Paolo Cugini

Nascono in famiglie ordinate e per questo devono essere ordinati, puliti, stenchi. Imparano a non lasciare spazio all’improvvisazione, per cui tutto dev’essere programmato in anticipo, affinché non ci siano sorprese, affinché la realtà non li sorprenda. Perché è questo il problema: la sorpresa. Se la tranquillità è il criterio di vita, allora la sorpresa dev’essere a tutti i costi arginata, perché destabilizza, mette in crisi. In questo contesto diventare adulti significa imparare l’arte di pianificare il reale in modo tale da non permettere il benché minimo spazio per l’imprevedibile, per qualcosa che possa mettere in discussione la vita così com’è stata pianificata. In altre parole, tutto dev’essere così pianificato per fare in modo che la vita che sgorga dalla realtà non produca il suo effetto dirompente. Difendersi dalla vita: è questo il programma, difendersi dalla realtà, è questo l’obiettivo. Come se la vita facesse male, come se la realtà fosse contro la vita, come se la realtà fosse irreale, come se ci fosse bisogno di difendersi dalla realtà. Eppure, osservando all’indietro la storia dell’educazione in Occidente, è proprio questo che insegniamo ai nostri ragazzi, alle nostre ragazze: a difendersi dalla vita. E così sono bravi quei ragazzi e quelle ragazze che sanno fare a modo il compito, che sanno riprodurre fedelmente il passato nei minimi particolari e, soprattutto che non mettano nulla di nuovo nel presente. Il nuovo destabilizza, provoca una riflessione, obbliga a modificare gli schemi, gli orizzonti. Genitori bravi nel mantenere il sistema delle cose ricevute in ordine, hanno figli bravi, ordinati, che fanno le cose così come gli sono state trasmesse. Se infatti, le cose fatte nel passato andavano bene, perché cambiarle? Se la realtà è stata sempre così bene controllata, perché ascoltarla?

Che cos’è la realtà? Come si manifesta? Reale è quello che viene al nostro incontro nel tempo presente. Reale è ciò che i nostri sensi colgono. La realtà non s’identifica, però con la materia. Ci sono, infatti, eventi che vengono al nostro incontro e che non possiamo ascrivere al mondo materiale. Pensiamo alle emozioni, alle passioni, ai sentimenti di dolore, di allegria, solo per citarne alcuni. Certamente ci sono le idee che la coscienza elabora per fare in modo che in seguito sappia riconoscere l’oggetto che le si presenta. La memoria ha questo valore importante di riconoscere un oggetto a partire dall’esperienze precedenti. Il problema, che è un problema formatiivo, vale a dire del tipo di formazione che abbiamo ricevuto, consiste nel mantenere la coscienza aperta per fare in modo di poter integrare i dati nuovi che la realtà manifesta sugli oggetti conosciuti. Proprio perché la realtà non è un dato finito, ma è in continuo movimento evolutivo, esige una coscienza capace di modificare velocemente i dati ricevuti per adattarsi ai cambiamenti. L’educazione rigida, quel tipo di educazione elaborata nel mondo Occidentale a partire da uno schema di valori precostituiti, classifica ogni aspetto della vita affinché nulla sia lasciato fuori. Educare, in questa prospettiva, significa condurre verso l’ordine prestabilito e il bambino, la bambina brava è quella ordinata, quello che ha imparato a fare le cose esattamente come gli è stato trasmesso, senza sbavature, senza cioè provare a inserire nulla di nuovo. Ordine che significa nel mondo Occidentale, una disposizione delle cose conforme ad idee e ad una visione del mondo orientata da coloro che fanno di tutto per mantenere i loro privilegi, a scapito della maggior parte della popolazione. L’ordine che insegnano è quello del sistema rigido voluto per mantenere l’ordine delle cose, l’ordine di quel mondo di privilegi che beneficia solo qualcuno. Quest’ ordine prevede anche una lettura della storia orientata dalla visione del mondo di coloro che decidono come devono andare le cose. In questa visione del mondo i poveri non c’entrano nulla, sono considerati come una piaga, uno scarto necessario nel processo di ciò che s’intende ottenere. È questo ordine, che è in realtà un grande disordine, il più grande disordine sociale e morale, che i signori della storia vogliono mantenere a tutti i costi e per questo sono estremamente esigenti a tramandarlo ai loro figli di generazione in generazione.

Ogni aspetto della realtà viene coinvolto in questo sistema rigido di conservazione del mondo dei privilegi, anche la religione. Esiste, infatti, in tutte le epoche e in ogni luogo, una religione, una classe religiosa, una gerarchia religiosa che entra a far parte del potere istituito. Ne entra a far parte, è bene ricordarlo, non in modo gratuito, ma ad un prezzo molto alto, il prezzo che riceva dall’istituzione per mantenere i propri privilegi di religione ufficiale del sistema che serve. Come c’è un’educazione che serve per mantenere inalterato il gioco delle cose, educazione che viene trasmessa in modo meticoloso alle future generazioni. che in modo mirabile apprendono rapidamente che se vogliono mantenere inalterati i privilegi ricevuti dai genitori devono rispettare l’ordine delle cose e, di conseguenza, non osare mai nulla di nuovo, c’è anche un’educazione religiosa che va nella stessa direzione. Se lo Stato borghese offre privilegi alla religione che, così diventa religione di Stato, allora la religione si organizza alla svelta per fare in modo di mantenere per sempre questi privilegi. E allora, se la presenza di Cristo nella storia ha manifestato la forza dirompente di Dio che scardina i sistemi di morte, mostrando il senso autentico della Legge mosaica incatenata dall’osservanza rigida della religione di Stato, quando il cristianesimo diviene con Costantino religione di Stato, tutta la forza creativa di Cristo viene disattivata, incanalata nella tranquillità di riti asfittici. Il prezzo salato che la religione cristiana ha pagato ai privilegi offerti dallo Stato, lo si percepisce molto bene nella trasformazione avvenuta a tutti i livelli della vita religiosa. E così quello che doveva essere il granello di senape, il fermento che avrebbe dovuto fermentare la storia, si è lentamente trasformato in un alleato del potere istituito e, in molti casi, in uno strumento di morte. Lo dicono le quasi settecento persone uccise per eresia, o le migliaia di donne uccise per stregoneria, o le tante migliaia id persone torturate sempre per eresia. Il mantenimento dei privilegi ha un costo altissimo, non solo in vite umane, ma anche sulle nuove generazioni. Eppure Gesù è entrato nella storia ed è venuto all’incontro dell’uomo e della donna nell’oggi della realtà presente. Ciò significa che il nostro rapporto con la realtà è decisivo sul tipo di persone che diventeremo. Per questo non qualsiasi educazione è positiva e non qualsiasi educazione rispetta lo stile e la modalità che Dio ha scelto di venire all’incontro di ogni uomo e di ogni donna.


Poveri rampolli delle famiglie borghesi. Abituati ad impacchettare la vita, ad un certo punto non la sanno più riconoscere, perché la considerano una minaccia. Poveri rampolli borghesi obbligati ad assistere passivamente a riti religiosi che non dicono nulla della vita che vivono, perché sono per lo più riti che puzzano di passato, di medioevo. Come fanno a sopportare quelle celebrazioni pompose, fatte di vesti sgargianti, di turiboli, di pizzi e cotte, retaggio di un passato che non tornerà più, ma che lo si vuole mantenere in piedi ad ogni costo? Se vogliono sopravvivere alla noia insopportabile della religione di stato, questi poveri ragazzi borghesi imparano presto ogni tipo di antidoto. Capiscono subito che quello che gli offre quel tipo di religione, quel tipo di ritualità passiva, quegli incontri tipicamente religiosi, non dicono nulla alla vita che intendono vivere. Il dramma più grande, che è allo stesso tempo, il più grande disastro umanitario che questa religione di Stato provoca nelle nuove generazioni, è che le rende incapaci di osare, di creare qualcosa di nuovo, di ribellarsi. A dire il vero ci provano soprattutto nell’adolescenza, ma c’è attorno a loro un apparato coercitivo così forte, così ben organizzato e strutturato, che difficilmente riescono a superare illesi l’adolescenza. Ci sono tutti quegli adulti attorno a loro, quei genitori, sacerdoti, maestri e altro pronti ad intervenire non appena si manifestano i sintomi del nuovo, della ribellione al vecchio. Povere anime intrappolate, manipolate, saccheggiate! Chi le salverà? Si stratta di scardinare dal di dentro dell’anima i meccanismi di morte inoculati dall’educazione ricevuta e impartita. Si tratta di aiutarli ad entrare nel deserto, ad ascoltare il sapore della realtà presente, sapore di libertà e di vita capace di risuscitare i morti. Certamente le masse di giovani non entreranno in questo cammino, ma se solo qualcuno ci entrasse il mondo cambierebbe. La forza, infatti, dell’amore che sperimentiamo quando incontriamo il Signore nell’oggi della nostra vita reale è così forte da essere incontenibile. 

sabato 10 giugno 2017

LA COERCIZIONE DEI MIGRANTI FORZATI ALLA LUCE DEI PRINCIPI SOVRAORDINATI






CONVEGNO NAZIONALE ESCAPES 2017 PARMA 8-9 GIUGNO 2017



IL TRATTENIMENTO DEL MIGRANTE DEL MIGRANTE DOPO IL DECRETO LEGGE n 13 del 2017 NEL PRISMA DELLA CONVENZIONE EUROPEA

Relatore: Fabio Salvatore Cassibba (Università di Parma)
Sintesi: Paolo Cugini

Necessità di dare base legale a un primo momento d’intrattenimento dei migranti regolari. Pretesa del legislatore non soddisfatta.
Considerazioni generali: secolo dei diseredati, era un’espressione di Hanna Harendt. Le cifre spaventose: 330 mila sbarchi in Italia negli ultimi anni. Più di 5 mila morti nel 2016 sulle coste italiane. Nessuna norma sovranazionale contempla un diritto del migrante a soggiornare nell’UE. L’UE ha la legittimazione all’espulsione. La legislazione protegge il soggetto particolarmente vulnerabile, il migrante. Protezione da ogni forma di aggressione. Regolamentazione della conduzione giuridica dello straniero. La normativa s’illude di dare attuazione all’articolo 10 della costituzione italiana. Varie ONG si occupano di queste tematiche, dicono il rischio di situazioni arbitrarie è molto altro. Il monitoraggio degli organismi indipendenti che permette di capire la situazione. Il migrante reclama una situazione giuridica che non è sostenuta. Due decreti legge del 2017 contrappongono la sicurezza urbana con l’arrivo dei migranti. Ci troviamo dinanzi ad una vera e propria detenzione amministrativa. Per queste ragioni occorre essere attenti.
La procedura penale è tutela dei diritti umani sul campo. La detenzione amministrativa riveste un luogo centrale nella gestione dei flussi migratori. La legislazione attuale è emblematica. L’Italia era stata condannata dalla Camera della Corte Europea. Il primo trattenimento del migrante avveniva in assenza di provvedimenti formali e legislativi. Il legislatore nel febbraio 2017 pretende di dare valore amministrativo, li riconosce ma non li regolamenta. La corte europea è sempre stata netta dicendo che una delle esigenze è la certezza del trattamento del soggetto. Il cittadino che subisce una privazione della libertà personale deve sapere le finalità del trattenimento. Tutto questo manca nel diritto italiano. Decreto Puglia 1995 individuava alcune esigenze dei punti di accoglienza senza regolamentarli. La legge attuale quando rimanda a quelle leggi il rimando è vuoto. La scelta è in linea con la natura intrinseca dello Hotspot perché è inteso non strumento giuridico, ma come metodo che può essere lasciato alle prassi. Detenzione mascherata anche nel lessico, perché non è nemmeno chiamato trattenimento. Quali sono i momenti tensioni nella disciplina. La legge italiana indica le caratteristiche delle strutture di trattenimento. Non si capisce se il luogo dev’essere aperto o chiuso. Manca un qualunque strumento di controllo indipendente rispetto alla giustificazione dell’intrattenimento. Manca per i primi giorni un provvedimento formale il trattenimento. Tutto avviene sulla base delle regole di condotta della prassi come procedure standard di accoglienza. Manca lo speculare controllo giurisdizionale.
Altro problema: durata del trattenimento. Non c’è una durata massima. Lo smistamento dovrebbe avvenire in un lasso di tempo che la legge non determina. Nemmeno si potrebbe dire che un intervento del questore successivo alla prima accoglienza possa garantire il migrante. Per la corte europea detenzione di 4 giorni è detenzione illegale. Vulnerabilità e diritto dell’informazioni del migrante che deve sapere il perché viene trattenuto. In poche ore il migrante subisce il suo destino, perché viene indirizzato o verso l’espulsione o verso il riconoscimento (pochi casi). La riforma del 2017 cerca d’implementare le strutture di supporto informativo, ma è ancora tutto molto superficiale. Tutta la disciplina normativa non garantisce alcuna esigenza del migrante tale da metterlo nelle condizioni per proteggere la sua condizione. Occorre ripensare all’approccio il tema delle migrazioni forzare pensando il rimpatrio volontario del migrante. Le condanne a molti paesi europei dovrebbero aiutare a mettere a posto la legislazione italiana in materia.

Prospettive di riforme.
Relatore: Salvatore Fachile (ASGI)
Lo Hotspot è imposto dall’Unione Europea che decide cocme l’Italia deve comportarsi. Primo atto impone all’Italia di utilizzare l’ Hotspot che non ha nessun tipo di ancora giuridica del nostro ordinamento. Viene utilizzata la forza per l’identificazione. Maggio 2015 primi passi per rivoluzionare il diritto d’asilo nell’ottica dell’UE. La priorità dell’Europa non è più quello di garantire il diritto d’asilo ma la difesa delle frontiere. Occorre diminuire il numero delle persone che arrivano. Da una parte è la politica di accordi con paesi terzi e spinge l’Italia a fare accordi di riammissione: paghiamo affinché paesi terzi possano rimpatriare. E poi ci sono accordi con i paesi perché possano bloccare le persone che vogliano venire verso l’Italia (Sudan). C’è anche un accordo con la Turchia. Rinvio in termini di richiedenti asilo. Stiamo pagando molti soldi, armi con il Sudan, per riprendersi i sudanesi. Lo abbiamo fatto con la Nigeria e con la Libia. L’idea è quello di riuscire a rallentare i flussi. Questo è il quadro attuale. Ci son accordi anche con l’Afghanistan. L’Europa ha abbandonato la retorica dei diritti umani. Cerca di legittimare i paesi terzi come paesi sicuri. Poi cerca di mettere in campo una riforma strutturale del diritto di asilo. Maggio 2016 L’UE presenta una serie di regolamento che visa a sostituire il diritto di asilo classico. L’Europa quello che fa è prendere la normativa DEL DIRITTO D’ASILO E PROPORRE UN CAMBIO ORGANICO. Cambio integrale. Lo strumento non è più la direttiva, ma con un regolamento che è precettivo nei confronti dei singoli stati. Questo nuovo progetto di riforma è al vaglio del Parlamento Europeo. Stiamo per assistere ad uno stravolgimento del diritto d’asilo perché la figura del diritto del richiedente d’asilo sarà totalmente mutato. Regolamento procedure: modalità con cui una persona per accedere alla domanda di richiesta d’asilo. Occorre intervenire su tre punti: rinuncia implicita; mancata identificazione. Secondo pilastro: il nuovo modo di concepire il paese terzo. Viene considerato sicuro un paese che potrebbe offrire alla persona un appoggio sufficiente. Procedura di frontiera, sposta tutti sulla frontiera. Procedura di frontiera: fino a 4 settimane dentro un Cie. La persona ha l’obbligo di mettersi a disposizione.