ARCHIVIO MISSIONE
TAVOLA ROTONDA IN PREPARAZIONE AL IV
CONVEGNO MISSIONARIO NAZIONALE
Paolo
Cugini
Sabato
20 settembre 2015 al centro parrocchiale di Baragalla il Centro Missionario
Diocesano ha organizzato la Festa della
Missione. E bisogna proprio dire che è stata una vera e propria festa,
soprattutto per la presenza di tanti missionari, sia di quelli rientrati da
tempo, che di quelli ancora sul campo. Non ci sono state danze o musiche, ma un
serrato confronto sulle significative provocazioni di Papa Francesco, che ci
stimola a pensare la parrocchia in un modo nuovo, a ripensare il modo di
evangelizzare, non partendo esclusivamente dalle strutture del centro, ma dalle
periferie. Il Papa c’invita ad abbandonare il criterio pastorale del “si è sempre fatto così”, per avere il
coraggio di osare, di cercare e pensare strade nuove per riuscire a portare il
vangelo dove ancora non è arrivato. In
questa prospettiva la Diocesi di Reggio Emilia non ha bisogno di sfogliare i
libri di missiologia per cercare qualche idea sul tema, ma gli basta ascoltare
la ricca esperienza maturata in decenni di presenza missionaria in vari punti
caldi del pianeta. E’ esattamente su questa linea che si è mosso il Centro Missionario Diocesano , che ha voluto
preparare il IV convegno Missionario
Nazionale, che si terrà a Roma dal 20 al 23 novembe, con un incontro che ha
cercato di raccogliere le esperienze dei missionari, soprattutto in relazione
al modo di evangelizzare a partire dalle periferie. Per questo, non c’è stata
nessuna relazione iniziale e la parola è stata subito offerta alle tante persone
presenti, che non si sono fatte pregare per prenderla. Per circa due ore,
infatti, laici, laiche, suore, frati e preti, giovani, adulti e anziani si sono
scambiati esperienze, attività realizzate in missione, coscienti che non si
tratta di riprodurre in Italia quello che si è realizzato in missione, ma che è
necessario condividere ciò che è stato fatto e che ha contribuito ad arricchire
il cammino della chiesa locale. Parrocchia
come chiesa in uscita, come chiesa pensata e vissuta a partire dalle periferie,
da quelle situazioni esistenziali nelle quali il Vangelo non arriva perché
difficilmente la parrocchia pensa dei percorsi di evangelizzazione decentrando
il proprio sforzo pastorale. D’altronde, siamo troppo abituati a fare le cose
in casa, a gestire l’annuncio del Vangelo come un’attività da realizzare tra le
mura costruite da noi e per noi. Una cosa è, infatti, pensare e vivere la fede
a partire dalle nostre strutture, aspettando le persone. Tutt’altra storia è
uscire, andare incontro, cercare quella maggior parte di persone che non
frequentano i nostri territori, e non entrano nelle nostre strutture. Sappiamo
bene che la sfida lanciata dal Papa s’inserisce nel cammino della chiesa italiana
che da alcuni anni sta cercando di ripensare la parrocchia in una prospettiva
missionaria. Una cosa, comunque è pensare, e tutt’altra cosa è provare,
verificare sul terreno se le idee hanno una consistenza a contatto con la
realtà. Che cosa è emerso, allora, da questo scambio di esperienze?
Sia da
coloro che sono stati in Africa che in America Latina è stata evidenziata
l’esperienza delle piccole comunità di base, piccole realtà a dimensione
comunitaria, nelle quali l’ascolto della Parola di Dio settimanale, o anche la
semplice recita del rosario, diviene momento fondante e illuminante di tutta la
comunità. Le comunità rappresentano lo sforzo di una chiesa che si decentra
(altra idea molto cara a Papa Francesco), che porta il Vangelo nelle case,
recuperando quella dimensione familiare e più umana, che a volte perdiamo negli
schemi della pastorale ordinaria. Le piccole comunità divengono anche lo
strumento privilegiato per suscitare vocazioni laicali, persone che sentono il
desiderio e la responsabilità di aiutare la comunità a crescere nella fede e
nell’attenzione ai più poveri. Nelle piccole comunità di base è inoltre più
facile curare le relazioni, l’attenzione alle singole persone e raggiungerne di
nuove. In questa prospettiva, molto interessante è stata la condivisone di
un’esperienza messa in atto in Madagascar, dove la parrocchia ha suscitato la
presenza di responsabili che nei diversi quartieri si prendono cura dei più
poveri e li segnalano alla comunità. E così, la fede che si celebra va di pari
passo con la vita, e le liturgie celebrate nelle comunità si aprono ai problemi
reali delle stesse. Molti degli interventi hanno sottolineato questo aspetto e
cioè dell’attenzione nelle piccole comunità di base, per i più poveri. Altra
esperienza significativa, tra le tante segnalate dai missionari intervenuti, è
la visita alle famiglie fatte da gruppi di laici debitamente preparati. Non è
quindi solo il prete che visita le famiglie, ma è la comunità che esce per
annunciare il Vangelo. Questa, forse sarebbe un’iniziativa da riprendere anche
nella nostra realtà e provare a trasformarla in azione pastorale permanente.
Aiuterebbe anche a cogliere e vivere la missionarietà non più identificata come
un’attività specifica per pochi professionisti, ma come il modo normale di
vivere la fede. Una parrocchia che si organizza per uscire dalla canonica e
dalle sale parrocchiali e andare ad incontrare le famiglie là dove vivono,
produrrebbe senza dubbio idee nuove e stimolerebbe il Consiglio Pastorale
parrocchiale a ripensare la presenza della chiesa sul territorio. Una di queste
potrebbe essere, com’è stato suggerito durante l’incontro, la possibilità di
celebrare la messa quotidiana non solamente ed esclusivamente nella chiesa, ma
anche nei quartieri, radunando assieme le persone incontrate. La chiesa in
uscita, che s’interessa di annunciare il Vangelo a tutti, entrando in contatto
con le tante periferie esistenziali delle nostre parrocchie, potrebbe anche
avere un riflesso sul modo in cui pensiamo e gestiamo tante altre iniziative,
tra le quali le nostre sagre.
Spesso
ci si chiede a che cosa serve andare in missione o a che cosa servono mandare
tanti preti, suore e laici in tante parti del mondo se poi, una volta tornati,
è richiesto un rapido reinserimento in un cammino pastorale molto diverso. Spesso
e volentieri al missionario ritornato dopo tanti anni di missione viene
ricordato - non sempre in modo delicato -che non è più là, come se andare in
missione fosse stata una colpa, uno sfizio personale e non invece una scelta
diocesana. In molti casi sembra quasi che l’esperienza missionaria sia stata
una bella esperienza, molto personale di chi l’ha vissuta, ma che poi, una
volta tornati, bisogna rapidamente mettere da parte. Bastava essere presenti
sabato a Baragalla per capire che tesoro di grazia, di vita, di amore al
Vangelo e alla chiesa l’esperienza missionaria ha prodotto in coloro che
l’hanno vissuta e che desiderano trasmetterla nelle loro comunità. Bastava
esserci a quell’incontro per vedere i volti allegri e pieni di gioia di tanti
missionari contenti per aver incontrato il Signore nelle tante situazioni di
vita quotidiana, fatta di condivisione con i più poveri, nelle periferie del
mondo. Ed è di questa testimonianza che la nostra chiesa ha bisogno, per uscire
dalle strettoie di una pastorale ordinaria, che spesso fa fatica a pensare l’annuncio
del Vangelo a partire dalle nuove sfide che il mondo sta presentando sotto i
nostri occhi.