domenica 29 maggio 2016

BENVENUTI RIFUGIATI











Segnalo sul mio blog un'importante e significativa esperienza in atto in Italia sul tema dei rifugiati. 

Potete accompagnare sul sito: http://refugees-welcome.it/


Perché in Italia i rifugiati non possono vivere condividendo una casa con altri e non solo in un centro di accoglienza? Ci siamo fatti questa domanda e abbiamo trovato un modo per renderlo possibile!
Crediamo che accogliere le persone in casa consenta di attivare risorse e legami di comunità, favorendo reali percorsi di inclusione e di convivenza pacifica. Refugees Welcome è al momento attiva nei territori di Roma, Milano, Torino e Bologna. Ci stiamo adoperando per raggiungere chi di voi ci contatta da altre parti d'Italia.
Come funziona?
1. Registra la tua casa
Ospitando un richiedente asilo o un rifugiato avrai l’opportunità di entrare in contatto con una cultura diversa dalla tua e potrai aiutare concretamente una persona che si trova in difficoltà. Se sei interessato a partecipare registrati sul sito ( http://refugees-welcome.it/). Quando registrerai la tua stanza libera ti faremo alcune domande sulla tua situazione abitativa: quanti siete in casa? Quali lingue parlate? In quale città vi trovate? Queste informazioni saranno utilizzate per abbinare ospitanti e ospiti. Gli ospiti avranno la possibilità di trovare una sistemazione adeguata, imparare meglio la lingua e comprenderanno più facilmente il nuovo contesto sociale in cui vivono. Ci occuperemo di metterti in contatto con una persona con cui possiate trovarvi a vostro agio e che possa trovarsi bene con voi e nella vostra casa.

2. Vi mettiamo in contatto
Quando ti sarai registrato, un’organizzazione che si occupa di rifugiati nella tua città ti aiuterà a trovare un/a coinquilino/a idoneo/a per voi. In seguito vi metteremo in contatto per farvi conoscere. Se l’incontro sarà andato a buon fine, la persona ospite si trasferirà il prima possibile a casa vostra. Nell’ elenco delle domande più frequenti spieghiamo perché è importante che il trasferimento avvenga subito dopo l’incontro.

3. Iniziamo il finanziamento
Ci sono vari modi per finanziare il percorso di inclusione sociale, molto dipende dalla posizione legale del migrante . Attiveremo delle campagne di micro crowdfunding per sostenere le nuove convivenze, ma abbiamo bisogno anche della tua collaborazione e della tua generosità. Noi consigliamo le micro-donazioni: attivando una rete di amici e famigliari che vogliono aiutarti e sentirsi parte di questa esperienza, raccoglieremo piccole donazioni mensili per aiutati a sostenere le spese dell’affitto. Mandiamo delle richieste via mail ad amici e conoscenti ed entro l’arco di due settimane l’affitto per il primo anno sarà garantito. I contributi mensili variano dai 3 € ai 50€ e saranno versati attraverso bonifici bancari o donazioni anticipate.

4. Si comincia!
Dopo che vi siete conosciuti, il/la vostro/a nuovo/a coinquilino/a si trasferirà a casa vostra. Noi continueremo ad assistervi in ogni momento e ad essere reperibili per eventuali vostre domande. Alla vostra famiglia e al vostro ospite sarà assegnato un volontario a cui rivolgervi per ogni questione, se poi ci sono problemi, il referente locale o quelli nazionali saranno sempre a vostra disposizione. Infatti avete in ogni momento la possibilità di rivolgervi all’associazione per i rifugiati che ha reso possibile l’incontro. L'ente gestore, infatti, resta responsabile e referente del rifugiato: sia per tutti gli aspetti legati al suo iter legale, sia per il sostegno e la facilitazione del suo inserimento nella società e l'accesso alla formazione.


Fonte: http://refugees-welcome.it/#come-funziona

domenica 22 maggio 2016

LE PROVOCAZIONI DI FRANCESCO


Paolo Cugini

Papa Francesco ci stimola a pensare la parrocchia in un modo nuovo, a ripensare il modo di evangelizzare, non partendo esclusivamente dalle strutture del centro, ma dalle periferie. Il Papa c’invita ad abbandonare il criterio pastorale del “si è sempre fatto così”, per avere il coraggio di osare, di cercare e pensare strade nuove per riuscire a portare il vangelo dove ancora non è arrivato. Parrocchia come chiesa in uscita, come chiesa pensata e vissuta a partire dalle periferie, da quelle situazioni esistenziali nelle quali il Vangelo non arriva perché difficilmente la parrocchia pensa dei percorsi di evangelizzazione decentrando il proprio sforzo pastorale. D’altronde, siamo troppo abituati a fare le cose in casa, a gestire l’annuncio del Vangelo come un’attività da realizzare tra le mura costruite da noi e per noi.

Una cosa è, infatti, pensare e vivere la fede a partire dalle nostre strutture, aspettando le persone. Tutt’altra storia è uscire, andare incontro, cercare quella maggior parte di persone che non frequentano i nostri territori, e non entrano nelle nostre strutture. Sappiamo bene che la sfida lanciata dal Papa s’inserisce nel cammino della chiesa italiana che da alcuni anni sta cercando di ripensare la parrocchia in una prospettiva missionaria. Una cosa, comunque è pensare, e tutt’altra cosa è provare, verificare sul terreno se le idee hanno una consistenza a contatto con la realtà.
Sia da coloro che sono stati in Africa che in America Latina mettono spesso in evidenza l’esperienza delle piccole comunità di base, piccole realtà a dimensione comunitaria, nelle quali l’ascolto della Parola di Dio settimanale, o anche la semplice recita del rosario, diviene momento fondante e illuminante di tutta la comunità. Le comunità rappresentano lo sforzo di una chiesa che si decentra (altra idea molto cara a Papa Francesco), che porta il Vangelo nelle case, recuperando quella dimensione familiare e più umana, che a volte perdiamo negli schemi della pastorale ordinaria. Le piccole comunità divengono anche lo strumento privilegiato per suscitare vocazioni laicali, persone che sentono il desiderio e la responsabilità di aiutare la comunità a crescere nella fede e nell’attenzione ai più poveri. Nelle piccole comunità di base è inoltre più facile curare le relazioni, l’attenzione alle singole persone e raggiungerne di nuove. E così, la fede che si celebra va di pari passo con la vita, e le liturgie celebrate nelle comunità si aprono ai problemi reali delle stesse. Una parrocchia che si organizza per uscire dalla canonica e dalle sale parrocchiali e andare ad incontrare le famiglie là dove vivono, produrrebbe senza dubbio idee nuove e stimolerebbe il Consiglio Pastorale parrocchiale a ripensare la presenza della chiesa sul territorio ed elaborare proposte nuove. Una di queste potrebbe essere la possibilità di celebrare la messa quotidiana non solamente ed esclusivamente nella chiesa, ma anche nei quartieri, radunando assieme le persone incontrate. La chiesa in uscita, che s’interessa di annunciare il Vangelo a tutti, entrando in contatto con le tante periferie esistenziali delle nostre parrocchie, potrebbe anche avere un riflesso sul modo in cui pensiamo e gestiamo tante altre iniziative, tra le quali le nostre sagre.


Spesso ci si chiede a che cosa serve andare in missione o a che cosa servono mandare tanti preti, suore e laici in tante parti del mondo se poi, una volta tornati, è richiesto un rapido reinserimento in un cammino pastorale molto diverso. Spesso e volentieri al missionario ritornato dopo tanti anni di missione viene ricordato - non sempre in modo delicato -che non è più là, come se andare in missione fosse stata una colpa, uno sfizio personale e non invece una scelta diocesana. In molti casi sembra quasi che l’esperienza missionaria sia stata una bella esperienza, molto personale di chi l’ha vissuta, ma che poi, una volta tornati, bisogna rapidamente mettere da parte. Io credo che la nostra chiesa ha oggi bisogno più che mai di questi missionari per aiutare le comunità ad uscire per ritrovare se stesse; a mettersi in movimento per scrollarsi di dosso la polvere di secoli di tradizioni umane che hanno soffocato la Parola. La Chiesa ha bisogno dei missionari per ritrovare se stessa. 

domenica 15 maggio 2016

TENTAZIONI POSTMODERNE DEL CRISTIANESIMO





Paolo Cugini

Uscito dall'ubriacatura idealista del mondo moderno, il cristianesimo può guardare con occhi nuovi non tanto al proprio futuro, ma al proprio presente. In questo caso, però, dovrà guardarsi allo stesso tempo da alcune tentazioni che possono trasformarsi in altrettante crisi.
 La prima tentazione è quella di non accettare il presente, il cambiamento in atto e di conseguenza, rifugiarsi nel passato. Questa tentazione la si coglie a differenti livelli. Nella vita pastorale quotidiana, che non cambia nulla nei suoi programmi, che sembra non voler ascoltare le sfide che la postmodernitá sta proponendo creando, così, involontariamente spesso e volentieri una separazione tra fede e vita, tra il mistero che celebra e la storia nella quale è inserita. Smarrimento e svuotamento di senso, in questa prospettiva, non sono solamente frutto di una filosofia anti metafisica che nega nella sua essenza i fondamenti del discorso sull'essere, ma soprattutto il risultato di una vita che non trova più spazio nella liturgia, di un mondo che non é più espresso nel culto. L’esodo dei giovani fuori dal tempio può essere forse il risultato di questa tendenza. La crisi delle ideologie che la cultura postmoderna sta vivendo, sta provocando una concentrazione sul tempo presente, la vita nel frammento. Mi sembra che a questo punto del problema non si possa più continuare solamente demonizzando quello che é ormai considerato uno stile di vita. Si tratta forse di considerare il problema a partire dal dato di fatto e non solo nonostante questo. La vita nel frammento, schiacciata per così dire nel presente, non presenta solamente aspetti negativi. In fin dei conti viviamo la nostra vita nel tempo presente. L’epoca postmoderna forse ci può aiutare a guardare al tempo presente con più attenzione, a guardare al quotidiano non solo come momento di passaggio, o come meta di un fine, ma come il momento scelto dal Signore del tempo e della storia per manifestarsi. Il mistero dell’Incarnazione, centro di tutto il mistero cristiano, ha forse più di ogni altra epoca, la possibilità di essere compreso nella sua profondità. La carne, il tempo, il vissuto quotidiano sono elementi imprescindibili per coglier e accogliere il senso del mistero dell’Incarnazione. Sempre in questa prospettiva, e cioè di una maggiore attenzione al vissuto quotidiano come chiave ermeneutica per cogliere il mistero del Verbo Incarnato, si possono offrire alcune osservazioni sul mistero celebrato, vale a dire il legame imprescindibile tra liturgia e vita.

Questo nuovo quadro culturale che stiamo vivendo ormai da alcuni decenni potrebbe offrire l’opportunità di riflettere in una nuova prospettiva questo legame così importante tra la liturgia e la vita. E', infatti, una sensibilità nuova che si sta sviluppando, ben visibile nelle nuove generazioni, una sensibilità che dovrebbe trovare riscontro anche nella liturgia. Di che sensibilità si tratta? L’ho già accennato poco sopra, vale a dire un’attenzione preponderante sul tempo presente, su ciò che l’oggi può offrire, sull'utile che si può ricavare nell'immediato. Non basta a questo punto demonizzare, gridare contro il relativismo. Se si vuole condurre lo schiacciamento nel presente, la vita nel frammento, ad un’apertura verso il futuro, é necessario inculturarsi, mettersi in ascolto, capire che cosa sta avvenendo. Solo così potrà avvenire quell'incontro significativo nel quale il Vangelo potrà produrre i suoi frutti più maturi. Questo incontro, questa inculturazione, questo ascolto attento della cultura postmoderna dovrebbe essere visibile nel centro della vita cristiana, vale a dire nella celebrazione liturgica. E' al suo interno, infatti, che la storia viene assunto per essere trasformata, per partecipare del mistero della ricapitolazione in Cristo di tutto il creato e di tutta la storia. Liturgie, allora, meno asfittiche, meno preoccupate con i fronzoli, e più attente agli interlocutori e alle loro vite. Chi entra in una celebrazione eucaristica dovrebbe immediatamente capire che quello che si sta celebrando ha qualcosa in comune con ciò che si sta vivendo, con il vissuto, con i problemi che si affrontano nella vita quotidiana. Quando entriamo in Chiesa per partecipare ad una celebrazione Eucaristica dovremmo poter capire che il centro di tutto è Gesù Cristo, che non è appena il Signore della storia, ma della nostra storia una, della nostra esistenza chiamata ad essere trasformata in amore. Se non avviene questo incontro delle due umanità, quella di Cristo e la nostra,  in pericolo è tutto il progetto di Dio di ricapitolare in Cristo le cose.  Non si tratta di schiacciare al ribasso la liturgia, ma permettere al vissuto quotidiano di questo mondo sempre più postmoderno, di essere trasformato dal Vangelo. Compito della pastorale è portare Cristo al mondo e, allo stesso tempo, condurre il mondo a Cristo. ciò dovrebbe essere chiaramente visibile nella liturgia eucaristica. Mi sembra questo il significato di un’attenzione alla cultura postmoderna, anche nei suoi risvolti più negativi come il relativismo e la vita frammentata, che la pastorale ordinaria deve prendere sempre più a cuore.
É chiaro che queste affermazioni ci conducono verso un nuovo tipo di riflessione che é, allo stesso tempo, una nuova sfida che la cultura postmoderna sta dirigendo implicitamente al cristianesimo. Mi riferisco al modo d’intendere e di realizzare la pastorale ordinaria. Il nuovo quadro culturale che si sta sempre più delineando ci costringe ad uscire non solo dai nostri centri pastorali, dal tempio, ma anche e soprattutto dai nostri schemi pastorali. Non possiamo più permetterci di pensare la pastorale solamente a partire dai problemi interni: catechesi, liturgia. La parrocchia dovrebbe divenire sempre di più aperta al dialogo con le culture, le religioni, le forze sociali presenti sul territorio.

 La tentazione di rifugiarsi nel passato per difendersi dalla novità del presente la si coglie anche nelle forme spiritualiste che stanno accompagnando l’esperienza religiosa in questi ultimi tempi.  La fuga dalla storia, da tempo presente si traduce, sul piano spirituale, nella presa di distanza dall'impegno per la trasformazione della società nella quale si vive. É questa la caratteristica delle tante chiese  neo-pentecostali che s’incontrano in Africa e in America Latina, caratterizzate da una predicazione diretta soprattutto al singolo e non alla comunità. É la salvezza individuale la grande preoccupazione delle chiese neo-pentecostali, preoccupazione per una salvezza imminente, che produce il disinteresse per tutto ciò che riguarda la terra, il mondo. Questa fuga dalla storia la incontriamo anche in alcune forme spirituali della chiesa cattolica in Occidente, forme che si manifestano nell'identificazione dell’esperienza religiosa con l’ambito strettamente liturgico e devozionale. La ricaduta di questo atteggiamento di fuga la si trova anche qui nel disinteresse  per un impegno più attivo nella vita politica e civile.

Una’altra tentazione che accompagna il cristianesimo postmoderno è quella di non accettare il cambiamento in atto. Come già dicevo poco sopra, nei documenti ufficiali della Chiesa si coglie la percezione del cambiamento epocale in atto, ma poi non si compie il passo successivo di un dialogo impostato con criteri nuovi. Il mondo postmoderno sta ponendo da diversi anni nuove sfide al cristianesimo a differenti livelli: etico, politico, culturale, sociale. Le risposte che, però, incontra non sono ancora all’altezza della situazione. L’Istituzione non è più la voce unica alla quale tutti si sottomettono, come accadeva nella cristianità. Ci si attende dalla Chiesa una parola di carità, di comprensione, di amore. Ciò non significa lasciare andare, dire di si a tutto e a tutti. Quello che dalla Chiesa il mondo sta aspettando e sperando é una parola di misericordia, che purtroppo non sempre arriva. Come questo possa esprimersi nei documenti ufficiali é quello che deve essere scoperto nella pratica quotidiana dell’amore, nello sforzo di pensare in modo nuovo problemi antichi. É chiaro che con queste osservazioni non sto affermando la necessità di modificare i contenuti del dogma: ci mancherebbe altro. Solamente mi sembra opportuno un cambiamento di modalità, si potrebbe dire di stile. La cultura postmoderna ha bisogno di parole nuove non nel contenuto, ma nella forma. Abbandonare i discorsi e i documenti ufficiali per tentare di dire qualcosa di più personale, di più vero alle persone che vivono in un determinato contesto sociale e che necessitano di una parola misericordiosa, meno carica di fermezza e più attenta alla circostanza. Per questo tipo d’incontro forse sarebbe necessario decentrare sempre di più il potere ecclesiale, affinché appaia sempre meglio il significato di servizio del potere della Chiesa.

 Anche la teologia fa fatica ad uscire da un’impostazione classica, di tipo deduttivo e sistematico, per una più induttiva e, per certi aspetti, narrativa. Non è un caso allora, che dinnanzi a queste sfide irrisolte, gli interlocutori non procurino più i teologi ma bensì i filosofi. Se grande spazio hanno trovato nel dibattito scientifico contemporaneo le tesi di  Appel, Habermas, Rorty, solo per fare alcuni nomi, é forse anche perché in campo teologico, al di là di eccellentissime sintesi, non si trovano più degli spunti in grado di aprire il dibattito in forme nuove.  Si sente la necessità di una elaborazione del pensiero antropologico alla ricerca di un’idea di persona che possa offrire spunti nuovi al dibattito scientifico contemporaneo, spesso e volentieri impaludato in vecchi schemi ormai obsoleti. La cultura postmoderna ha bisogno di dialogare con idee teologiche che nascono dal contatto con la realtà, idee intuitive, dunque, e non mere elaborazioni concettuali che non riescono ad esprime più nulla di significativo, se non una semplice riproduzione del passato. Per dialogare con una cultura nichilista e relativista come è quella attuale, non servono più delle reiterate condanne, che si presentano come chiusure: occorre un cammino teologico nuovo. 

Oggi più che mai c’è bisogno di una riflessione teologica che riesca a discutere sui valori fondamentali dell’esistenza con un apparato concettuale legato al contesto storico, alle nuove categorie ermeneutiche, ai nuovi schemi di riferimento facilmente individuabili per coloro con i quali s’intenda dialogare. In parole semplici, oggi più che mai la cultura contemporanea ha bisogno di una riflessione teologica che venga dal basso, dalla terra. Affinché questo avvenga è necessario quello sforzo d’inculturazione simile a quello avvenuto nei primi secoli della storia della Chiesa, quando i grandi padri, per esprimere le verità di fede, utilizzavano i concetti della filosofia greca,modificandoli, riempendoli di nuovi significati. La crisi delle ideologie provocata dalla fine delle meta narrazioni, ha aperto lo spazio ad un vuoto culturale che se non verrà riempito con contenuti significativi nuovi, potrà produrre azioni in campo sociale e politico devastanti.