Paolo
Cugini
Lo
abbiamo sempre chiamato così: Dio. Sono secoli, millenni che il nome Dio
risolve i problemi. Tutto ciò che non è possibile spiegare razionalmente o
ragionevolmente può essere trasferito immediatamente alla parola Dio. Tutto ciò
che di misterioso si è presentato nei secoli all’essere umano è stato risolto
facendo appello a questa semplice parola: Dio. Quando gli eventi sono
misteriosi, incomprensibili, difficili da spiegare, allora non ci resta altro
che rifugiarci in Dio. Accade così anche oggi. Invochiamo Dio affinché ci aiuti
in una determinata situazione della nostra vita divenuta complicata. Dio è un
nome che se è vero, come vedremo, appartiene all’ambito religioso, ma è
altrettanto vero che è sulla bocca di tante persone che non s’identificano con
una specifica religione. È un aspetto così normale e spontaneo invocare il nome
di Dio che, qualche filosofo, è arrivato a sostenere che è una idea innata, che
troviamo dentro di noi al momento della nascita. Può darsi, anche, che a forza
di pronunciare il nome di Dio da migliaia di anni, sia divenuto qualcosa di
talmente presente alla nostra coscienza da renderlo reale.
Non
c’è solamente, comunque, un’esperienza esterna di ciò che è misterioso che ci
spinge a invocare Dio. Ci sono anche percorsi interiori dell’animo umano, che
sperimenta la percezione di una realtà che non può essere classificata con i
soliti criteri che mettiamo in atto nella vita quotidiana. Accade, per esempio,
quando la malattia passa vicino a persone che amiamo e che ci spingono ad
invocare quella forza che sembra essere capace di intervenire nella realtà
modificandone l’orizzonte. Sono gli eventi estremi che ci spingono a pensare
che esita una forza amica che può sistemare le cose, una forza nell’universo che
ci conosce, sa cosa pensiamo e cosa sentiamo. Questa forza la chiamiamo Dio
perché è il nome che abbiamo trovato nella nostra cultura e che viene
utilizzato proprio in questi casi.
Il
problema è che questo nome attraverso i secoli ha subito un tale rivestimento
di significati da non riuscire più a coglierne l’essenza. Mi chiedo allora: è
possibile dire Dio senza Dio? Sembra un gioco di parole, ma esprime una realtà
molto profonda. È possibile provare a dire che cosa esprime il contenuto della
parola dio mettendo da parte ciò che di Dio dicono le religioni? C’è una forza nell’universo che, come tale, è
immanente, cioè non è nel cielo così come l’hanno pensato gli antichi. Il
cielo, di fatto, appartiene alla realtà immanente, perché fa parte
dell’universo. è possibile dire Dio senza fare ricorso alla dimensione
trascendente? Può sembrare blasfema una simile operazione anche perché da
sempre Dio è stato pensato in questo modo: un essere trascendente che abita il
cielo. Famose sono le parole di Aristotele che arriva a definire Dio come la
causa di tutto, il motore immobile, che muove il mondo con la forza di
attrazione. Un Dio, quello di Aristotele, così fuori dal mondo e dalla
prospettiva immanente, da non poter pensare ciò che a lui è inferiore e da
essere considerato come pensiero di pensiero. Interessante è notare che,
proprio questa struttura filosofica, che è arrivata ad elaborare una concezione
di Dio così mostruosa, è stata utilizzata dalla Chiesa cattolica per definire
in modo sistematico i contenuti della propria esperienza di Dio: san Tommaso
docet.
Ancora.
È possibile dire Dio sganciandolo dalla prospettiva metafisica elaborata dalla
filosofia greca? C’è un desiderio di liberazione, il desiderio, cioè, di
liberare Dio dalla prigione dell’essere. Solo così, forse, è possibile iniziare
una ricerca che riesca non tanto a dare un nome, ma un contenuto a quelle
esperienze che possiamo definire spirituali, che vengono immediatamente associate
ad una religione e, in questo modo, interpretata dai sistemi di concetti messi
in atto da secoli. Per questo tipo di ricerca non ci si può affidare ai libri
di teologia, ma a quelli di mistica e di spiritualità, anche se anche questi
possono essere contaminati negativamente dalle scuole di pensiero teologico
dell’epoca in cui sono stati scritti. E se andassimo da soli alla ricerca del
senso di Dio? E se provassimo a liberarci in un colpo di tutti gli scaffali di
libri che parlano di lui e provare a dire ciò che percepiamo con parole nostre,
senza paura di essere giudicati? Solo a pensarci mi dà un brivido intellettuale
spaventoso.
Articolo provocatorio, direi. Non resisto dal commentarlo.
RispondiEliminaParto dal fatto che il Mistero ci supera e ogni paradigma - compreso quello scientifico - è limitato e limitante. Spesso e volentieri condizionato dal tempo stesso in cui è scritto. Ne facciamo esperienza tutti i giorni, quando con schemi rigidi o aspettative miopi, vediamo che la realtà ci supera: la realtà, espressione del Mistero, per fortuna, è più grande dell'idea.
Ciò però non toglie che il Mistero 'parli' anche all'idea, alla ragione, al pensiero.. quindi non solo possa, ma debba essere avvicinato, senza mai ridurlo, a degli schemi interpretativi, che permettano anche alla psiche di intenderlo. Non è obbligatorio, ma può giovare, specie ai 'piccoli'. Credo ci sia una pedagogia in questo.
In ultimo, condivido che il tomismo è obsoleto, come sistema filosofico onnicomprensivo.
Grazie della riflessione!