lunedì 26 dicembre 2022

TRADIZIONE

 

 


Paolo Cugini

Agosto 1986

 

 

È l’eredità culturale, cioè la trasmissione da una generazione all’altra di credenze o di tecniche. Nel dominio della filosofia l’appello alla tradizione implica il riconoscimento della verità della tradizione stessa. La tradizione diventa, da questo punto di vista, una garanzia di verità e talvolta l’unica garanzia possibile. (U.T.E.T. voce curata da N. Abbagnano).

 

Ogni singolo uomo è situato all’interno di una tradizione che, nel suo senso etimologico significa consegnare, porgere. Il consegnare indica al contempo due elementi: un essere che porge e un contenuto che è posto da. Conseguenza immediata di ciò, è che lo studioso della tradizione deve porre l’attenzione speculativa su due direzioni diverse, una attenta ad analizzare i modi in cui il contenuto della tradizione viene consegnato, l’altra capace d’indagare sull’origine del contenuto che viene tramandato. Noi ci soffermeremo su questo secondo aspetto. Come nascono gli elementi che vengono a costituire il nucleo della tradizione? Quali sono i criteri che vengono adottati per selezionare il materiale? Di che natura sono questi criteri: razionali o qualcosa d’altro?

Prima di addentrarci all’interno del problema occorre fare ulteriori precisazioni. In primo luogo, dev’essere chiaro che un’epoca è costituita da un insieme di diverse tradizioni. Inoltre, queste ultime non sempre sono facilmente individuabili a causa della complessità della realtà in cui viviamo. Infatti, se per un verso ci è semplice comprendere la diversità tra la tradizione filosofica e quella scientifica, per un altro, a volte ci è difficile distinguere gli elementi dell’una e dell’altra tradizione. Questo lo affermiamo perché riteniamo la realtà, cioè il vissuto storico, non diviso in scomparti ben determinati, ma un tutt’uno cresciuto assieme.

È possibile affermare che la realtà in cui viviamo è tutta tradizione? Proporre l’identità tra realtà e tradizione può sembrare avventato e assai discutibile, in quanto anche il nostro senso comune interviene ad informarci che, il termine realtà, sta ad indicare un insieme di aspetti non completamente e totalmente riconducibili a quello di tradizione. Quando, infatti, noi parliamo di realtà ci possiamo trovare in vari universi di discorso: è reale la pianta, una montagna, il mare. Al contempo, però, è altresì reale Paolo o Pietro. In definitiva tutto ciò che appartiene al mondo materiale, sia esso minerale, vegetale o animale è reale.

Che ne è, allora, di tutto il resto? Per tutto il resto, vista la selezione previa, intendiamo il frutto della elaborazione intellettuale da parte dell’uomo. A questo punto, diventa estremamente interessante soffermarci sul procedimento conoscitivo elaborato dall’idealismo. Difatti, la distinzione sopra effettuata tra mondo materiale e mondo ideale, tipica di una certa tradizione filosofica, può essere messa in discussione proprio dall’idealismo. Quando discorriamo intorno al tavolo o alla sedia, non affermiamo solo realtà appartenenti al mondo materiale. Sedia o tavolo stanno, infatti, ad indicare anche una organizzazione e un ordine che solo un essere dotato d’intelletto poteva effettuare. Di conseguenza, il mondo che ci circonda possiamo a ragione considerarlo il frutto di una lunga e sofferta elaborazione concettuale prodottasi nell’arco del tempo: la tradizione. Occorre, però, precisare che affermare il mondo come il risultato di una lunga elaborazione concettuale non porta in sé l’esigenza di negare al mondo materiale una propria indipendenza rispetto al soggetto che la percepisce. Entità materiale e soggetto (che è materiale anch’esso) sono posti da altro. È il loro incontro e ciò che ne consegue, vale a dire il mondo umanizzato, che è frutto esclusivo dell’operazione intellettiva.

A questo livello, si può chiarire anche il discoro religioso. L’uomo è posto da Dio assieme alle cose. Il mondo che si formerà attraverso le capacità intellettive dell’uomo, porterà costantemente con sé l’impronta divina. Il cammino dell’uomo con Dio acquista, in questa prospettiva, nuovi significati depauperati da quei misticismi mantenuti per troppo tempo all’interno della tradizione. Ritorniamo, però, sui nostri passi. Stiamo cercando di delineare le caratteristiche che ci permettono di tematizzare ciò che intendiamo con il termine tradizione.

Ciò che viene tramandato deve avere come elemento peculiare, una certa durata nel tempo. Più un elemento dura alle “intemperie” del tempo più è tradizionale. Il tradendum ha, quindi, valore solo ed esclusivamente in quanto è antico.  L’elemento che in seguito diventerà tradizionale, ha, però, un momento iniziale nuovo. Problema: come fa questo elemento nuovo a diventare tradizionale? L’elemento che poi verrà a far parte di una tradizione non nasce nel nulla, ma da un contesto ben strutturato. In definitiva, ciò che in seguito si chiamerà tradendum nasce all’interno di una tradizione. Sembriamo in un circolo chiuso per cui per spiegare una parte abbiamo bisogno della definizione dell’altra e viceversa. La tradizione vive costantemente in un presente ed è il continuo procedere di quest’ultimo, il tempo, che ci permette di parlare di tradizione in modo non astratto. Infatti, la tradizione non è qualcosa di dato, bensì è una realtà posta costantemente dall’uomo. Questo è perlomeno il processo che avviene dal punto di vista teorico. Nel presente dove costantemente abbiamo visto formarsi la tradizione, quest’ultima è sentita dall’uomo come qualcosa di dato, di posto da altro. Il tradendum è sentito come una forza immateriale che incute timore e alla quale va riservata una incondizionata obbedienza. Tutto questo è disumano proprio perché è una chiara distorsione delle capacità dell’uomo. Il compito di quest’ultimo, da un punto di vista teorico, sarebbe quello di passare al setaccio del proprio intelletto tutte le informazioni che ogni giorno e ogni istante gli presentano. Che cosa in realtà avviene? Al posto della personalizzazione delle cose, subentra la passività di fronte ad esse. Invece di farsi promotore attivo del suo mondo, diventa succube di ciò che dovrebbe dominare. Va, comunque, specificato che la personalizzazione del mondo è posta sul piano esigenziale e, di conseguenza, trova non poche difficoltà ad affermarsi nella concretizzazione storica. In questa prospettiva, la tradizione arriva all’individuo come patrimonio genetico già dato e posto da altro. Quando il senso comune parla di tradizione si riferisce ad una realtà oggettiva già stabilita, che dev’essere assunta. Il rifiuto della tradizione da parte dell’individuo pone quest’ultimo ai margini del sociale, del mondo al quale appartiene.

I criteri per cui un nuovo elemento può diventare appartenente al patrimonio genetico della tradizione, sono contenuti nella stessa. Questo implica che, il nuovo elemento, per passare alla storia deve costantemente subire il giudizio della verità che viene attribuita ad essa. Infatti, dire tradizione significa implicitamente riferirsi ad un determinato concetto di verità. Che cos’è che è più vero? Che cosa del mondo nel quale ci troviamo vale di più? Vale di più ciò che corrisponde maggiormente agli elementi che la tradizione della cultura dominante possiede. Noi così affermiamo la maggiore o minore validità di una cosa rispetto ad un’altra in base a dei criteri oggettivi contenuti nella tradizione. Al soggetto non rimane altro che farsi portatore di un insieme di elementi mai posti o scelti da lui. Sembra un’affermazione paradossale, ma, a nostro avviso corrisponde alla realtà nella quale viviamo. Perché, infatti, affermiamo che una cosa è più bella di un’altra? Oppure, perché critichiamo alcune manifestazioni come non sensate o fuori luogo? Le nostre tanto decantate capacità di scelta, in questa prospettiva, vengono ridotte a ben poca cosa. Noi non siamo nient’altro che i fedeli portatori di un materiale non mai scelto da noi, e in base a questo giudichiamo, valutiamo, viviamo. A che cosa è dovuta questa nostra evidente passività? A questa importante domanda risponderemo in seguito. Ora ci interessa soffermarci più attentamente sulla forza che la tradizione esercita sul singolo.

La tradizione è diventata una potenza irresistibile. Non è assolutamente possibile pronunciare un giudizio senza riferirsi ad un contesto tradizionale. L’uomo è uomo solo in quanto è capace di farsi fedele portatore della tradizione. La forza di quest’ultima si è venuta a costituire gradualmente nel tempo. Occorre precisare che, ogni epoca e ogni società, ha avuto e ha una propria tradizione. La comunità degli uomini ha sempre posto in un nucleo di proposizioni i criteri di veridicità per la propria epoca. La tradizione filosofica ci dice che fa parte della struttura antropologica dell’uomo il bisogno di verità. È una esigenza irrinunciabile, pena la disintegrazione del sé. Possedere dei costanti punti di riferimento per vagliare qualsiasi esperienza umana è una condizione fondamentale. La tradizione è proprio questo schema di riferimento. Com’è possibile, però, che lo schema di riferimento di un’epoca possa valere anche per quelle successive? Come mai gli elementi di una tradizione resistono alla prova del tempo, rimanendo per parecchi secoli inalterati? Spesso, noi uomini del duemila, valutiamo situazioni o cose utilizzando gli stessi criteri che venivano presi in considerazione da persone e, quindi, società vissute parecchi secoli fa. Non sarebbe più opportuno formulare uno schema di riferimento per ogni epoca? Alla luce di questi interrogativi, possiamo considerare l’uomo piuttosto lento nel cambiare le proprie abitudini. Per certi versi, l’uomo di oggi è lo stesso di quello di ieri. Le capacità riflessive non servono che a confermare quello che gli avi avevano pensato.

Se la tradizione ha sempre avuto una tale potenza, come si è venuta a costituire? Come nasce, ad esempio, il criterio per cui una cosa è più bella di un’altra? Quando osserviamo un oggetto e intendiamo valutarlo con la categoria del bello, non facciamo un’invenzione, ma ci serviamo di strumenti già dati (occorre studiare la genealogia della formazione dei criteri valutativi: perché un quadro è più bello dell’altro? Che cosa mi spinge ad affermare ciò? Per rispondere a questa domanda occorre conoscere la tradizione artistica e più specificatamente quella pittorica): in fin dei conti che cosa vogliamo dimostrare con queste affermazioni sulla tradizione? Vogliamo soprattutto trovare due risposte: una riguardante il grado di libertà di scelta del singolo; l’altro la possibilità di riscoprire un cristianesimo essenziale, liberato, cioè, da tutti i residui ricevuti dalla tradizione.

Rispetto alla tradizione, la libertà del singolo si situa ad un secondo livello di complessità. Noi, infatti non creiamo mai nulla di nuovo, ma continuamente scegliamo in base a cose già date, già poste dalla tradizione. Alla mattina quando ci alziamo possiamo scegliere se metterci la camicia rossa o gialla, ma mai potremo optare per il kimono. Il nostro unico compito verso il quale indirizziamo il nostro bagaglio intellettivo è valutare gli elementi posti dalla tradizione. A questo punto, sarebbe estremamente interessante indagare sui motivi che hanno portato ad affermarsi un elemento anziché un altro, comprendere quali fattori sono intervenuti per far si che la nostra realtà sia strutturata in un modo anziché in un altro. In fin dei conti c’è molta soggettivismo nei contenuti della tradizione, che vengono spacciati come contenitori di valori oggettivi […].

 

 

giovedì 22 dicembre 2022

Caso Rupnik: non basta più l’indignazione!

 



 Siamo determinate ancor di più a condurre una battaglia senza sconti per denunciare le “strutture di peccato” in cui si radica tale “caso”: un impianto di cui la chiesa cattolica è artefice e protagonista.

Troppo spesso abbiamo constatato che nei movimenti ecclesiali/congregazioni/culti ci si serve surrettiziamente di alcune categorie ecclesiologiche per usare e manipolare persone (quasi sempre donne) che si avvicinano a tali contesti religiosi in nome di una chiamata spirituale. Queste donne sono limpide, fiduciose, ignare degli “adescamenti” che troppo spesso - oramai lo abbiamo verificato nella nostra non più breve esperienza- si compiono.

 La logica è quella del dominio del chierico maschio “ontologicamente superiore” e in nome dell’“obbedienza”, “umiltà”, “segretezza delle procedure”, “perdono”, del “non infangare una santa istituzione”, della “adorazione verso chi incarna il sacro” e altre categorie “dello spirito”, si cattura la persona in una rete di soprusi, abusi, macchinazioni perverse, dove le logiche della sudditanza e dell’omertà sono la regola.

La minaccia è solo allusa: quella di subire le conseguenze di un potere androcentrico totalitario e quindi la condanna all’infamia, oltre che al baratro esistenziale in caso di dissenso conclamato e all’ isolamento senza nessuna via d’uscita percorribile. La cultura dello stupro (che non è solo fisico, ma anche spirituale) passa di qui.

Non ci intratteniamo sui dettagli del caso Rupnik, degno perpetratore di tale cultura. Vogliamo puntualizzare però alcune osservazioni.

Rupnik è sì uno tsunami, ma è solo la punta dell’iceberg: non è la mela marcia dentro a un paniere di mele sane, non è il criminale mentre i suoi sodali sarebbero innocenti. Si tratta di una malattia endemica che pervade il sistema ecclesiastico tutto e che in Italia, in particolare, si tende a occultare. Sono complici i mezzi di informazione, per lo più muti - tranne alcune lodevolissime eccezioni, a cui riconosciamo di essersi da tempo impegnate seriamente su tali fenomeni, per aver lanciato campagne di stampa e approfondito con inchieste: la agenzia di stampa Adista, la rivista Left, il quotidiano Domani; complici sono anche i /le cattolici/che che preferiscono non vedere e non sapere. Colluso è anche lo Stato che si mostra indifferente verso la sorte dei suoi/delle sue cittadini/e quando sono violati/e nei loro diritti.

La Compagnia di Gesù non può credere di salvare la faccia dicendo che le vittime si rivolgano a lei e saranno ascoltate e accolte a braccia aperte. È la stessa logica che percorre la CEI, logica che nasconde la strategia del “sopire e tacere”, di manzoniana memoria. Tali atteggiamenti non sono credibili: esigiamo che ci sia una azione giuridica legale pubblica.

Chiediamo altresì che si aprano gli archivi rendendoli accessibili a una commissione indipendente.

E soprattutto affermiamo che il caso Rupnik non deve essere trattato secondo gli stili discorsivi cari alla cronaca scandalistica. È fondamentale che, nella pubblicizzazione di tali eventi, sia invece messa in luce la struttura che permette tali abusi, che li copre con l’omertà dell’istituzione stessa, che per secoli è stata complice, se non prima responsabile, di un habitus androcentrico. È la struttura misogina gerarchica clericale che inferiorizza donne e laici, considerandoli a “propria diposizione”.

Firmato

Re-in-surrezione: per S-velare e fermare ogni abuso (il gruppo Re-insurrezione è una rete di persone appartenenti a: Donne per la Chiesa, Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne). 22 dicembre 2022

mercoledì 21 dicembre 2022

COME POTEVA?

 




Il Tuo mistero, Signore, rimane sempre nascosto, incomprensibile alla logica umana. Hai deciso di nascere in questo modo: è assurdo umanamente. Ti adora chi non ha nulla, chi non sente di avere grandi cose, di essere chissà chi.

Davanti al presepio non possiamo che rimanere sconvolti: che cosa ci vuoi dire?  Non sei forse il figlio di Dio, non sei Dio? E, allora, perché sei entrato nel mondo in questo modo? Se sei entrato nel mondo, in questo modo, vuole dire che tutti coloro che ti vogliono conoscere dovrebbero fare lo stesso percorso silenzioso, nascosto, di spogliazione, umiliazione. Il Mistero si manifesta nella povertà. Per chi nasce e vive nel benessere questa indicazione non può che essere motivo di scandalo e, quindi, rifiutata.

Sì, Signore, Tu non appena sei venuto al mondo sei stato rifiutato: e non poteva essere diversamente. Di fatto come potevano le tenebre accogliere la luce? Come poteva la menzogna accogliere la verità? Come poteva il ricco accogliere il povero? Come poteva? (Dai diari, 24 dicembre 2002).

martedì 13 dicembre 2022

ABUSI SESSUALI DEL CLERO E GRAVIDANZE: IL PRIMO STUDIO ACCADEMICO

 









Condivido sul mio blog questo articolo apparso su Adista di quest'anno

Ludovica Eugenio

Tratto da: Adista Documenti n° 00 del 26/02/2022

ROMA-ADISTA. Obbligate a nascondersi, ad abortire, spesso in condizioni disperate, o a partorire in contesti non sicuri, dopo gravidanze prive di qualsiasi assistenza medica, dando poi subito in adozione i neonati; condannate a non fare mai il nome del padre, a mentire a tutti, a subire la stigmatizzazione sociale, a portare interamente da sole, tra difficoltà indicibili, il peso di un abuso e di esperienze disumane, il cui responsabile resta sempre impunito, protetto, garantito dall’istituzione: sono le donne, spesso ragazzine adolescenti, vittime di abusi sessuali che sfociano in una gravidanza, perpetrati da preti cattolici. Nel quadro degli abusi clericali, forse il versante più oscuro di tutti, non ancora studiato ed esaminato. Ora, a metterlo sotto la lente d’ingrandimento, colmando questo vuoto di attenzione e analisi, è la teologa tedesca Doris Reisinger, del Dipartimento di Teologia cattolica della Goethe Universität di Francoforte, lei stessa vittima di abusi , in un articolo accademico “open access” (quindi aperto a tutti) pubblicato sulla rivista Religions (13, 198; appartenente alla piattaforma open access MDPI), frutto di due anni di ricerca e che aveva preannuciato la scorsa estate. La ricerca è partita dalla constatazione che in un numero significativo di casi, i preti abusatori causano gravidanze e obbligano le loro vittime a essere invisibili, a ricorrere all’aborto, o a partorire per poi far adottare il neonato o la neonata: è il fenomeno che la ricerca definisce come “abuso riproduttivo”. È evidente che molte delle vittime sono donne adulte, ma anche tra le minorenni che hanno vissuto l’abuso di preti pedofili una percentuale che varia dall’1 al 10% può essere stata vittima di abuso riproduttivo. Reisinger si basa su numerose fonti e su materiale d’archivio che riguarda decine di accuse di abuso riproduttivo nel contesto della Chiesa cattolica statunitense. Oltre a cercare di fare una stima della frequenza globale del fenomeno, essa distingue tre diversi tipi di abuso riproduttivo nonché un’analisi dell’interazione tra misoginia clericale e secolare, prima responsabile del silenziamento delle vittime, trattate come oggetti e stigmatizzate, e dell’impunità degli abusatori, sempre protetti dall’istituzione; aspetti che spiegano l’invisibilità del fenomeno, ancora più paradossale se si pensa all’importanza attribuita dal magistero ecclesiale alle tematiche bioetiche e alla morale sessuale. Proponiamo il testo integrale dell’articolo, rendendolo disponibile a tutti i lettori, - secondo lo spirito con cui è stato concepito e pubblicato -, in un numero speciale “extra” online, che potete scaricare dal sito, in una nostra traduzione dall’inglese. 

 

lunedì 5 dicembre 2022

GRATITUDINE E DONAZIONE - MASSIMO RECALCATI

 




Sintesi: Paolo Cugini

 

Come inizia una vita? Noi tutti sismo figli. Possiamo evitare di essere padri, madri, ma nessuno di noi può evitare l’opzione di essere figlio. Cosa significa essere figlio? Innanzitutto, significa essere stati fatti, portati nel mondo da un altro. Significa non essere padroni delle nostre origini. Se non incontrassimo nel mondo nessun altro che risponde alla nostra presenza, non saremmo nulla. La vita nasce dal grido. Nella risposta al grido troviamo la forma prima della riconoscenza. Questa è la prima forma della solidarietà. Abbiamo sempre a che fare con delle grida e la risposta è la prima forma di riconoscimento della vita.

Il nostro tempo si nutre di una grande menzogna: è pensare che la vita si costituisca da sé, mito della libertà come assoluto e puro arbitrio. Mito di riuscirsi a farsi un nome da sé. Nessuno di noi ha scelto il suo nome. Tutti portiamo il nome che i genitori hanno scelto. Tutti portiamo il nome di una altro. Ci facciamo sempre attraverso gli altri. Nella psicoterapia quando il cliente parla di sé inizia a parlare degli altri, delle persone che ha intorno. Non riusciamo a parlare di noi stessi se non parlando dell’altro. La vita è sempre rapporto con l’altro. La gratitudine è la forma più alta che assume una relazione.

Goethe amava l’Italia. Una volta si trovava sul lago di Garda, nella parte trentina, vicino a Monte baldo. Ad Arco di Treno si osserva tutto il lago. In un punto di questo passaggio, chiede di fermarsi e ha un gesto di stizza: nessun amico con cui condividere tutto questo, Quando siamo dinanzi allo spettacolo del mondo esigiamo che ci sia qualcuno con cui condividere la bellezza.

Into the wild: il ragazzo morirà solo in un camion abbandonato in Alasca. L’ultima frase che scrive è: la felicità è condivisione.

La gratitudine è esperienza di condivisione. È il contrario dell’invidia. Alda Merini diceva che non sopportiamo la vita felice degli altri. Guardiamo con invidia la vita che cresce. L’invidia è godere della disgrazia della vita felice, ricca ed è un sentimento che impoverisce, perché l’invidioso gode della disgrazia dell’altro. La gratitudine arricchisce la vita.

Nell’odisse abbiamo un doppio ritratto della giovinezza. I proci sono ragazzi che sprecano la loro vita. Ulisse li ammazza tutti. Qual è la colpa dei proci? Questi ragazzi hanno commesso per il mondo greco è non avere rispetto dell’ospitalità. L’odissea ci dà il ritratto anche della generazione Telemaco, che è il figlio di Ulisse. L’Odissea si apre con il viaggio di Telemaco, che assume con coraggio l’assenza del padre e si mette in viaggio, sulle orme del padre. Telemaco rischia la vita in questo viaggio. Il viaggio del figlio è sempre pericoloso. Dopo il viaggio del figlio ritorna anche il padre nelle forme di un mendicante e c’è l’incontro con Telemaco. Sono il padre e il figlio che si guardano per la prima volta e in quell’abbraccio c’è la gratitudine di entrambi. Quando nel rapporto tra genitori e figli non c’è gratitudine si genera l’odio. Quando riusciamo a mostrare l’umanità, la debolezza, il figlio si apre alla gratitudine. Riconoscimento della fragilità della vita.

Donare. Cosa differenzia un dono dalla carità? Quando facciamo la carità noi diamo all’altro quello che noi abbiamo in più, quello che è superfluo. La donazione ha a che fare con l’amore. Il vero dono è dare all’altro quello che non abbiamo. Per una madre dare il latte del proprio seno può non essere un atto d’amore, ma di necessità. Diverso è il caso di una madre in Africa dove non c’è pane. Immaginiamo doni un pezzo di pane al proprio figlio: questo è amore, perché dà quello che non ha, si priva di qualcosa.

L’anoressia infantile e adolescenziale: l’altro dell’anoressica è un altro che ha sempre dato cose, oggetti, ma le cose non sono un dono. Spesso i veri doni non sono cose. La bambina dice no, non voglio l’oggetto, la pappa, perché voglio da te quello che tu non hai, il dono della tua mancanza. Il dono è sempre particolareggiato. Il dono spesso esige anche le parole che lo accompagnano. Il dono della nostra presenza apre la vita. Una grande menzogna è pensare che la vita matura è autonoma, indipendente. In realtà è vero il contrario e cioè che senza l’altro non siamo nulla. La vita matura, riconoscendo la dipendenza è vita che sa amare. Il nostro tempo inaridisce le vite con il mito dell’indipendenza.

Gli amori che resistono nel tempo sono amori fatti da due solitudini, dove ciascuno dei due sa stare solo. Pensare che il legame che abbiamo non è mai confusione con l’altro, perdersi nell’altro. L’amore non è empatico. Littell boy: storia di un bambino che sposta le montagne. È la forza del desiderio di un bambino che sposta le montagne.

Accoglienza. La vita si umanizza solo se qualcuno risponde al grido. Noi tutti siamo grazie all’ascolto del nostro grido. Il grido dell’altro. Il nostro tempo è il tempo della chiusura, della non risposta al grido, perché ciò che vale è la nostra identità individuale. Rispondere al grido comporta aprire l’identità all’altro. Se la vita non si apre all’altro ed è accogliente, la vita muore. Abbiamo bisogno di confini, ma se questo comporta la costruzione di mura, allora l’identità ci fa morire, perché abbiamo bisogno dell’altro. I gruppi classe più produttivi sono quelli più eterogenei. Il problema è come ospitare l’altro senza perdere la propria radice.

 

giovedì 1 dicembre 2022

IL CREDO DELLE DONNE: E' IN LIBRERIA

 



Paolo Cugini

 

È uscito in questi giorni, edito dalle edizioni san Lorenzo di Reggio Emilia, un importante volume che ci tengo a segnalare: Il credo delle donne. Qui di seguito una breve presentazione.

 

 

L’interesse delle edizioni San Lorenzo e, in modo specifico, della collana Cammini diversi, nei confronti del pensiero teologico femminile, ha condotto a seguire in questi ultimi anni diversi percorsi di teologia delle donne, alcuni dei quali già pubblicati. Il primo di questi – Uno sguardo diverso su Dio. La teologia delle donne, Ed. San Lorenzo, Reggio Emilia 2021 – raccoglieva contributi di teologhe, bibliste e teologi sul delicato tema dell’omosessualità visto in una prospettiva di fede. Proprio in questo contesto e grazie ai contributi di coloro che avevano partecipato, abbiamo compreso l’importanza e la profondità di uno sguardo diverso, quello del pensiero femminile, sui problemi della vita illuminato dallo sguardo della fede. Pensiero diverso per troppo tempo silenziato e che esige di essere ascoltato, condiviso.

Il “Credo delle donne” nasce come proposta pastorale voluta da alcune parrocchie della bassa bolognese, ma esteso a tutti. Gli incontri, infatti, si sono realizzati nella modalità meet, permettendo, così, un’ampia partecipazione. Perché questo interesse per lo sguardo femminile sugli articoli del credo? La teologia cattolica, plasmata sin dalle origini dal modello patriarcale è, a nostro avviso, troppo sbilanciata sul modo di vedere maschile della fede. C’è la necessità di trovare un equilibrio, di proporre cammini di pensiero capaci di recuperare non solo il tempo perduto, ma anche di condividere la ricchezza di uno sguardo diverso su Dio, la Chiesa, il mondo. È quello che si sta cercando di fare con la pubblicazione di testi che riprendono conferenze e che, di conseguenze, hanno già avuto un primo riscontro positivo con il pubblico. Il desiderio, dunque, è la condivisione di un pensiero che può aiutare ad allargare i nostri orizzonti e a leggere in modo diverso e, crediamo, più profondo, i contenuti della nostra fede. I primi tre articoli di fede affrontati sono stati affidati alla biblista Soave Buscemi e alle teologhe Selene Zorzi e Cristina Simonelli. Ne seguiranno altri per completare un percorso dalla durata di tre anni e che le edizioni San Lorenzo hanno deciso di accompagnare e sostenere.

La speranza di questo progetto editoriale non è solo quello di condividere un’esperienza ritenuta positiva, ma anche di provocare un interesse nei lettori e, allo stesso tempo, stimolare percorsi simili. Dare spazio nella Chiesa alle donne non può essere solo uno slogan, una moda del momento. Ragionare sulla cultura patriarcale che ha plasmato la cultura occidentale, significa porre in atto dei processi di decostruzione, in grado di aprire spazi nuovi e costanti all’interno dei quali il pensiero femminile possa finalmente esprimersi. Fare spazio alle donne è il primo passo di una logica che si pone in controtendenza, anche nei confronti dei proclami altisonanti sul ruolo delle donne nella società, ma che poi, rimangono lettera morta. Secoli di cultura patriarcale hanno lasciato un segno profondo all’interno della cultura e non saranno delle parole a provocare il cambiamento radicale, ma delle scelte quotidiane capaci di proporre un cammino.

È in questa prospettiva che è nata la proposta di dar voce al pensiero teologico e biblico femminile, per accompagnare il cammino formativo dei fedeli di alcune parrocchie. L’azione è la concretizzazione di un pensiero che esce dallo spazio teorico, per incunearsi nei meandri della storia e, in questo modo, modificarla dall’interno. Le edizioni san Lorenzo sono liete di accompagnare da vicino queste proposte per condividerle e fare in modo che si trasformino in passi di un cammino.

Oltre che nelle librerie Paoline e in quelle cattoliche in tutta Italia, lo potete richiedere direttamente dall'editore:

Ed. San Lorenzo:

https://www.edizionisanlorenzo.it/collections/frontpage/products/il-credo-delle-donne-di-maria-soave-buscemi-selene-zorzi-cristina-simonelli

Oppure su Amazon: https://www.amazon.it/credo-delle-donne-Maria-Buscemi/dp/8880713302/ref=sr_1_11?qid=1670423328&refinements=p_27%3APaolo+Cugini&s=books&sr=1-11