giovedì 29 febbraio 2024

Alcuni aspetti della spiritualità sciamanica

 




ALLA RICERCA DI UNA LITURGIA INCULTURATA NELL’AMAZZONIA


 

Paolo Cugini

 

Da alcuni messi abbiamo messo in piedi in parrocchia un piccolo gruppo di ricerca liturgica. Ogni sabato ci troviamo al pomeriggio per leggere e commentare alcune pagine del materiale che la Conferenza Episcopale Amazzonica (CEAMA) ha elaborato per mettere in pratica le indicazioni del Sinodo sull’Amazzonia. Abbiamo già analizzato il ruolo di grande importanza che le donne hanno all’interno delle comunità indigene e ci siamo interrogati sulle modalità di coinvolgimento delle donne nelle nostre comunità cristiane.  Il percorso è continuato prendendo in coniderazione le esperienze spirirtuali dei capi religiosi indigeni, le cui capacità riconosciute dalle comunità indigene, consentono loro di comunicare con le potenze superiori presenti nella natura. Questi personaggi sono chiamati: sciamani. 

L'espressione “sciamanico” non riduce la questione alle esperienze e alla vita dello sciamano, ma si riferisce a un modo per trovare il mondo profondo dello spirito che risiede in tutte le cose. Un punto di partenza fondamentale è riconoscere che la giungla è un essere vivente. Per i popoli amazzonici, la natura non è qualcosa che è a nostra disposizione, ma uno spazio vivo, animato e, chi la vive in questo modo, percepisce la presenza degli spiriti che la abitano: gli xapiris. Dobbiamo tenere presente che ciò non significa che foresta (giungla) abbia un animus autonomo, come sosterrebbe una posizione di tipo animista. Il sacro abita nella giungla, ma non è solo quello. Lo tiene, dentro c'è il linguaggio di un mondo a cui non si accede dominandolo, ma trasformandosi In lui. “La giungla ha una densità sacramentale. Questa presenza sacra è il risultato di un momento dell'origine in cui tutto era caos” (tra virgoletto metto alcune parti del testo in portoghese del documento della CEAMA, che non è ancora pubblicato).

C'è nella giungla un'armonia che dev’essere decifrata per ritrovare la saggezza presente nelle cose. Per riconoscere il mistero presente nella natura è necessario trasformarsi in essa; solo diventando la sua realtà lo si può comprendere. Qui occupano un posto decisivo le cosiddette “erbe allucinogene”, che in realtà, dal punto di vista occidentale, vengono descritte come sostanze che provocano uno stato di trance simile a quello degli alcaloidi. Tuttavia, il modo più appropriato è chiamarle “erbe maestre”. Consentono, infatti, l'accesso al linguaggio, alla chiave della saggezza presente nella natura della giungla. Esiste, quindi, una rivelazione sacra a cui si accede attraverso le piante maestre. È qui che lo sciamano ha una missione speciale. “È qualcuno che si è preparato attraverso un percorso di purificazione. Non basta consumare la pianta, ma è fondamentale purificare l'organismo per poter entrare in contatto con la verità che la natura racchiude”. Questa rivelazione si comunica con canti e danze che non hanno dimensione decorativa o estetica, ma sono il modo in cui la saggezza si fa conoscere. Lo sciamano, in questo senso, non ha una missione sacerdotale, ma profetica; il senso della sua attività non è quella di mediare l'efficacia del sacro, ma di farne conoscere il messaggio.



Quando si fa un'interpretazione teologia dei miti ancestrali indigeni, è essenziale interrogarsi sul modo in cui viene articolata: rivelazione in senso cristiano con la comunicazione divina nelle pratiche rituali indigene. Perciò, è essenziale pensare al rapporto tra il cosmo e Gesù Cristo e al ruolo della mediazione umana del cosmo. La logica sciamanica ha una propria struttura che non dovrebbe a tutti i costi costringere ad entrare nella ritualità cristiana. Tuttavia, potremmo chiederci se uno sciamano cristiano può contribuire al cammino di una comunità ecclesiale. Per fare questo, è necessario riconoscere che la natura ha una vita che contiene saggezza per vivere meglio. Pertanto, la rivelazione di Gesù Cristo contenuta nei testi canonici non è in conflitto con la presenza creata di un logos in tutta la creazione. C’è, dunque, un contenuto sacro nella natura, che lo sciamano può cogliere e comunicare alla comunità.

Le cristologie cosmiche dei Padri della Chiesa, in particolare di Massimo il Confessore, non sarebbero in conflitto con l'idea che, l'essere delle cose, ci insegna una vita più integrale. Possiamo concludere, in questo senso che, se lo sciamanesimo contribuisce in qualche modo alla logica ministeriale nella vita della Chiesa, è più legata ad un carisma profetico che sacerdotale. A questo proposito, dobbiamo rivedere un'altra questione, ovvero pensare alla profezia solo in connessione con la storia. “La nozione di storia sviluppata in Occidente è stata collegata all’esercizio della libertà umana sulla creazione”. In questo senso, fare storia significa incidere trasformando la natura. Al carisma sciamanico ciò che viene insegnato non ha nulla a che vedere con un modo di agire nei confronti delle cose, ma con l'apprendimento dalle cose. In questo senso, la profezia sarebbe la rivelazione di una sapienza nascosta in tutto ciò che esiste, come il fiume, la giungla, il giaguaro o gli uccelli: rivela una sfera sacra piuttosto che un tipo di comportamento, che dovremmo raggiungere. Tuttavia, per vivere questa esperienza è necessaria una purificazione che incide sul comportamento. Non puoi bere ayahuasca senza digiunare e, ancor più, senza astenersi dai rapporti sessuali. Prima, ma anche dopo, qualcuno diventa ciò che mangia o sperimenta. È necessario, dunque, riconsiderare il modo di intendere l'ontologia, le relazioni con Dio e l’esperienza della natura oltre i processi deduttivi, dando maggiore spazio alla sensibilità.



Nella logica sciamanica c’è un insegnamento fondamentale, in merito alla relazionalità che sfugge alla costruzione della verità meramente deduttiva, e che cede il posto alla dimensione della coscienza emotiva e concreta. Qualsiasi ministero progettato per l’Amazzonia, deve farlo riconoscendo questa questione centrale, per proporre la verità del Vangelo: non lo si può fare nel formato della prospettiva della conoscenza, che ha prevalso in Occidente. “La sfida, quindi, non è assumere la ritualità sciamanica per l’organizzazione del rito cristiano, ma assumendo la forma relazionale in cui tutto viene vissuto e dove i sensi, come spazio in cui avviene l'intelligenza della realtà, hanno una dimensione centrale”. È anche il primo passo per evitare la stigmatizzazione di queste forme di connessione con la saggezza della natura, per iniziare a riconoscere che esiste un modo per connettersi con l'essere, in cui si conosce attraverso l'emozione, la comunione e l'unione con gli esseri che abitano la giugla. 

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