venerdì 5 febbraio 2016

PERCHÉ ANDIAMO A MESSA?








Le due tradizioni dell’ultima cena: un confronto

Testo dell’intervento di don Enrico Mazza all'incontro nell'oratorio di Regina Pacis- Reggio Emilia
Venerdì 5 febbraio 2016


Nel Nuovo Testamento ci sono due tradizioni del racconto dell’ultima cena: una è rappresentata da Mc 14,17-26 e da Mt 26,20-30 e l’altra da 1Cor 11,23-26 e da Lc 22,14-20 (tradizione della Chiesa d’Antiochia). Ci sono delle diversità tra le due tradizioni nonostante che ci siano degli elementi che fanno vedere che c’è un rapporto tra le due.
Ma chi dipende da chi? È uno dei problemi che dovremo esaminare. Bisogna far emergere la redazione più arcaica per comprendere come si è sviluppata la celebrazione eucaristica già in epoca neotestamentaria.

1            Il vangelo di Marco è il più arcaico

Concordano i biblisti nel ritenere che il vangelo di Marco sia il vangelo più arcaico che ha addirittura creato il genere del vangelo: «Che ne fu della trasmissione del messaggio di Gesù e su di lui quando non ci furono più gli apostoli che egli stesso aveva incaricato di trasmetterlo? Durante i primi decenni, non si annunziava Gesù raccontando in maniera ordinata la sua vita, o anche solo la sua attività pubblica. Vi erano brevi e pregnanti enunciati che esprimevano in poche parole l’essenziale della fede»[1] e che servivano come formule di fede o formule liturgiche. «Per quanto possiamo vedere, il primo a concepire una narrazione organica dell’attività di Gesù fu l’autore del libro che la tradizione, al più tardi dagli inizi del secondo secolo, attribuisce a Marco».[2] La versione di Matteo dipende da quella di Marco, con poche modifiche,[3] e quindi non entra nella questione della tradizione più antica e dell’indagine storica sull’ultima cena di Gesù.[4] Un discorso analogo vale per la versione di Luca che dipende da 1Cor 11.[5] Restano solo Marco e Paolo come testimoni autonomi.[6] Aveva ragione Francis Crawford Burkitt che sosteneva che se si fosse trovata la spiegazione dei dati contenuti in Marco, a proposito dell’ultima cena, il problema sarebbe stato risolto.[7]
Posto questo, è naturale rifarsi a Marco per comprendere meglio l’ultima cena. Ed è proprio ciò che ho fatto nel primo capitolo per stabilire che l’ultima cena fu una cena pasquale celebrata non secondo il calendario ufficiale giudaico ma secondo quello esseno.

2           La pericope dell’ultima cena è un testo autonomo?

Il Prof. Rudolf Pesch nel suo ampio commento, che riassume suoi scritti precedenti, afferma con forza che il racconto di Marco non solo precedette tutti gli altri ma anche che fu alla base del racconto paolino di 1Cor 11,23-26 che è databile con buona approssimazione dato che la prima lettera ai Corinzi è del 53-57. Il racconto di Marco sarebbe sicuramente anteriore. Esso, infatti, non mostra particolari interventi redazionali, propri di questo autore, ma coinciderebbe con la redazione premarciana della passione, scritta presumibilmente all’epoca del sommo sacerdote Caifa (dal 18 al 37); questa redazione avrebbe avuto origine con ogni probabilità in Gerusalemme, nell’ambito dalla prima comunità di lingua aramaica.[8]

2.1          Per R. Pesch la pericope ha origine nel racconto premarciano della passione

Questo autore, poi, elabora alcuni criteri per decidere quali unità narrative facciano parte del blocco unitario del racconto premarciano della passione e quali, invece, siano unità autonome che abbiano avuto una storia redazionale loro propria. «Il carattere non autonomo della maggior parte dei brani narrativi contraddice però l’idea che la storia della passione sia stata composta partendo da tradizioni singole originariamente destinate ad un uso autonomo».[9] Solo queste sarebbero debitrici del lavoro redazionale di Marco che viene qualificato come «redattore conservatore  legato alla tradizione».[10] Il racconto dell’ultima cena viene esplicitamente considerato una parte del racconto della passione premarciano: ma non un inserimento successivo bensì una parte che è costitutiva e che è nata assieme e contemporaneamente al racconto stesso della passione.[11] Il racconto della passione sarebbe stato preso da Marco come fonte per costruire la seconda metà del suo vangelo.[12]

2.2         Per altri autori la pericope appartiene a una tradizione autonoma

Il Prof. Joachim Jeremias era di parere opposto e concludeva dicendo: «Il racconto dell’istituzione della Cena del Signore circolava inizialmente come tradizione autonoma».[13] Ma già nel 1911 Marie-Joseph Lagrange, nel suo commento a Marco, sosteneva che le due pericopi che trattano del tradimento di Giuda (Mc 14,18-21) e dell’ultima cena (Mc 14,23-26) hanno due incipit paralleli, come se le due pericopi avessero avuto un’esistenza distinta.[14] Esse avrebbero avuto un’origine autonoma e poi sarebbero confluite nel racconto della passione.
Anche il domenicano Pierre Benoit sta in questa linea poiché suppone che tanto il testo di Marco quanto il testo di Paolo, provengano dalla tradizione liturgica;[15] in tal modo, seppure indirettamente, egli afferma che questi testi hanno avuto un'origine e una vita autonome dal racconto della passione e che, di conseguenza, siano state inseriti successivamente in tale contesto. Egli aggiunge che bisogna riconoscere che sotto la penna di Marco o di Paolo ci sono le formule stesse che le prime comunità usavano per celebrare l'eucaristia: e tale fatto conferisce un singolare valore di autenticità e di autorità[16] a questi testi. Il loro grande valore, dunque, deriverebbe non tanto dall’appartenenza al racconto della passione, quanto piuttosto dalla loro origine liturgica.

2.3         Come trattare la questione

Ci stiamo occupando di Mc 14,1-26 che risulta composto da tre unità letterarie: Mc 14,1-11 (decisione dei sacerdoti; cena da Simone il lebbroso; Giuda dai sacerdoti), Mc 14,12-16 (due discepoli sono inviati a preparare la Pasqua), Mc 14,17-26 (cena pasquale).
Bisogna riconoscere a R. Pesch il merito di aver posto una questione che merita di essere studiata per se stessa e che ha un peso non indifferente per l’interpretazione dell’ultima cena. Dico subito che le mie conclusioni si oppongono a quelle di Pesch.

2.3.1         Il genere letterario di Mc 14,22-26

Pesch distingue il genere letterario del racconto marciano dell’ultima cena dal genere letterario di quello paolino. Il primo avrebbe valore informativo, volendo documentare e narrare che cosa accadde all’ultima cena,[17] mentre il secondo sarebbe una eziologia liturgica[18] che vuole rendere ragione della celebrazione della cena rituale a Corinto. Da questa distinzione, però, non si può evincere che il racconto dell’ultima cena del vangelo di Marco – visto il suo carattere narrativo – appartenga al racconto premarciano della passione.

2.3.2        Sul rapporto tra Mc e il racconto premarciano della passione

Si può accettare la concezione di Pesch sul rapporto tra il vangelo di Marco e il racconto premarciano della passione, ma alla fine resta da spiegare la natura composita di certi punti di quest’ultimo come nel caso delle tre pericopi di Mc 14,1-26. R. Pesch insiste nel dire che la distinzione delle tre pericopi è più apparente che reale e che esse costituiscono un unico testo narrativo.[19] Egli dice: «Il carattere non autonomo della maggior parte dei brani narrativi contraddice però l'idea che la storia della passione sia stata composta partendo da tradizioni singole originariamente destinate ad un uso autonomo».[20] Nel caso delle tre pericopi in questione, io noto che deve trattarsi di tre diverse unità narrative dato che – nettamente distinte tra loro – non sono state armonizzate l’una con l’altra. Si consideri, ad esempio, il tema pasquale: esso appartiene in modo massiccio al brano della preparazione del banchetto ma non all’annuncio del tradimento di Giuda e nemmeno al rito della cena pasquale, ad eccezione del canto finale che dovrebbe essere il canto dello Hallel.[21]

2.3.3        Come si distinguono le tre pericopi

L’elemento che fa da cesura tra le tre unità letterarie è l’incipit della seconda (v. 18) e della terza unità (v. 22); quello della terza unità ripete quasi alla lettera l’incipit della seconda. Ecco i due testi.
v. 18: «e mentre giacevano e mangiavano (kai anakeimenōn autōn kai esthiontōn)»;
v. 22: «e mentre mangiavano (kai esthiontōn autōn)».
Si tratta di due genitivi assoluti di origine redazionale dato che non hanno l’equivalente nel caso di retroversione aramaica.
Dicendo che il tradimento di Giuda e la cena sono entrambi un “avvenimento particolare” dell’unico banchetto, Pesch riunisce la seconda e la terza pericope in un unico racconto,[22] mentre Marie-Josepf Lagrange afferma che «esthiontōn autōn è in parallelismo con il v. 18, come se le due pericopi avessero un’esistenza distinta. In ogni modo siamo già abbastanza avanti con il pasto, soprattutto in Marco che ha posto all’inizio l’annuncio del tradimento di Giuda».[23] Il Prof. Jeremias, nel capitolo secondo, dedica un intero settore[24] alla dimostrazione che il racconto dell’ultima cena è un settore autonomo del racconto della passione.
Questo – dice Jeremias – si sviluppa in quattro tappe a partire dall'antico Credo di 1Cor 15,3b-5. Lo sviluppo avviene utilizzando dei racconti che provengono da svariate tradizioni. Uno di questi è il racconto dell'ultima cena che appartiene alla tradizione liturgica. Ogni comunità ha il suo modo di formularlo e ha il suo modo di introdurlo. Paolo dice: «Nella notte in cui veniva tradito» (1Cor 11,23), mentre Mc dice: «Mentre cenavano (esthiontōn autōn)» (Mc 14,22). In questo quadro, Joachim Jeremias rileva che l'incipit del v. 18 è praticamente identico e lo definisce "concorrente".[25] Dobbiamo aggiungere che per Jeremias i tre settori che compongono il racconto della cena del vangelo di Marco appartengono a tre strati differenti della tradizione.[26]
Si deve convenire con Pesch che il racconto della passione nasce nella comunità aramaica; ma io aggiungo che le lingue semitiche non conoscono il genitivo assoluto e che, di conseguenza, bisogna concludere che questo è frutto di un intervento redazionale, operato sia nella pericope sul tradimento di Giuda (Mc 14,18) sia nella pericope del racconto dell'ultima cena propriamente detto (Mc 14,22). Questo intervento è avvenuto prima dell’ultima redazione del racconto dell’ultima cena. Ne segue, dunque, che le due pericopi hanno un'origine e una storia autonome l'una dall'altra. Quindi ha ragione J. Jeremias a sostenere che le tre unità che in Marco compongono il racconto della cena «appartengono a strati molto differenti della tradizione».[27]
R. Pesch spiega la presenza dei due incipit simili in base alla struttura della liturgia pasquale e descrive il procedere del banchetto dall'antipasto al pasto principale, preceduto dalla preghiera sul pane azzimo.[28] Il banchetto pasquale avrebbe una prima parte – antipasto – e un «piatto principale, inframmezzati dalla liturgia pasquale».[29] Questa prima parte, che può essere chiamata ‘antipasto’, per R. Pesch non è la cena vera e propria, mentre è solo nella cena vera e propria che avvengono le azioni di Gesù che istituisce l’eucaristia.[30] Ecco come viene descritta l’ultima cena: «L'esordio nel v. 22a […] indica il procedere del banchetto dall'antipasto (attraverso la liturgia pasquale) al pasto principale, preceduto dalla preghiera sul pane azzimo (cfr. il comm. a 14,20)».[31] Nella cena pasquale questa parte principale sarebbe la terza e si concluderebbe con il cosiddetto terzo calice.[32] Alla p. 517 del suo ampio commento il Prof. Pesch riporta lo schema della Pasqua ebraica – tratto alla lettera da Joachim Jeremias[33] – che, poi, applica pari pari al rito dell’ultima cena, ottenendo il risultato che ho appena descritto. Effettivamente il suo ragionamento sembra logico: se l’ultima cena fu una cena pasquale, e la Pasqua giudaica si articola in tutta una serie di riti, ne segue che l’ultima cena si è anch’essa articolata in tutti questi riti.[34]
Ma qui dobbiamo osservare che il Qiddush comporta non solo il rito del calice che apre la cena, con il racconto celebrativo della festa e la lavanda delle mani (con le relative benedizioni), ma anche il rito del pane, che comporta una corta “benedizione” (berakaheulogia), seguita dall’azione dello spezzare e dalla distribuzione.[35] Dato che il Rito del pane, ora descritto, appartiene al Qiddush, ne segue che la descrizione dell’ultima cena ricostruita da Pesch sulla base di Jeremias, non è corretta.
Dobbiamo riconoscere che l’istituzione dell’eucaristia all’ultima cena appartiene tanto al rito del Qiddush quanto al rito della Birkat ha-Mazon, una preghiera che accompagna l’ultimo calice, posto a conclusione del pasto rituale. Ma questa affermazione non sarebbe pacifica dato che si scontra con Joachim Jeremias che ci mette in guardia a proposito delle date, dicendo che il Qiddush compare solo verso l’epoca dei Tannaim o addirittura degli Amorraim.[36] A questo si deve obiettare che questo vale per la struttura organica e definitiva del rito del Qiddush, non per il rito del pane e del calice, accompagnati dalle rispettive benedizioni (attestate in questa successione), pronunciate da un sacerdote all’inizio del pasto, che fanno già parte della liturgia essena. Le attestazioni sono sia nei rotoli del Mar Morto sia in Giuseppe Flavio, come abbiamo visto nel primo capitolo. Questo basta per rispondere alle obiezioni di Jeremias.

2.4         Come spiegare la successione delle tre pericopi in Marco

Il confronto tra il racconto dell’ultima cena di Mc 14,22 e il racconto della moltiplicazione dei pani di Mc 8,7 fa vedere una differenza stilistica: mentre qui il verbo benedire ha il complemento oggetto[37] (come pure in Mc 6,41[38]), nel racconto della cena il verbo benedire è usato in senso assoluto. Questo mostra che il racconto dell’ultima cena appartiene a una tradizione diversa da quella cui appartengono questi altri testi marciani.
Il racconto dell’ultima cena, di tradizione liturgica, non appartiene alla stessa tradizione narrativa racconto della passione. Il redattore del vangelo di Marco ha narrato gli eventi dell’ultima cena iniziando con una pericope sulla preparazione della cena pasquale. Qui il carattere pasquale dell’ultima cena è fortemente sottolineato. Subito dopo c’è l’inizio dell’ultima cena con la pericope che annuncia il tradimento di Giuda; questa inizia con il genitivo assoluto (kai anakeimenōn autōn kai esthiontōn). Poi c’è la cena propriamente detta: per narrarla Marco attinge alla tradizione liturgica che raccontava l’ultima cena iniziando con un genitivo assoluto praticamente identico (kai esthiontōn autōn). Evidentemente, in quella Chiesa, il racconto della cena iniziava con il genitivo assoluto: e se il racconto apparteneva a due diverse tradizioni, il genitivo assoluto era conservato in entrambe. Entrambe appartenevano alla tradizione della Chiesa. Entrambe iniziavano in modo quasi uguale, dato che erano due testi simili aventi il medesimo oggetto se pure con due diverse funzioni.
La prima tradizione, di genere narrativo-informativo, narrava l’evento dell’ultima cena all’interno del racconto della passione. La seconda, di genere liturgico, aveva la funzione eziologica di spiegare e fondare la pratica liturgica della Chiesa: l’una è storico-informativa e l’altra è eziologico-liturgica ma entrambe narrano l’ultima cena. Il redattore di Marco, quindi, le ha conservate entrambe e ha inserito il racconto della cena, di tradizione liturgica, subito dopo quello di tradizione narrativa, senza eliminare il secondo genitivo assoluto che introduce la pericope; una pericope di tradizione liturgica, infatti, fa corpo unico con la sua introduzione proprio perché è di tradizione liturgica e non se ne può distaccare. Ecco la spiegazione dei due genitivi assoluti, così simili da essere definiti ‘concorrenti’, che introducono le due pericopi sull’ultima cena, senza che ci sia stata rifusione o armonizzazione.
Questo dimostra quanto fosse importante il racconto dell’ultima cena – anche quello  di tradizione liturgica – per il redattore del vangelo di Marco.

2.5         Il carattere pasquale dell’ultima cena

Il carattere pasquale di questa cena è chiaramente espresso solo nel racconto della sua preparazione (Mc 14,1-2; 14,12-16): nel racconto del banchetto stesso, infatti, non ci sono riferimenti alla Pasqua, come dice Jeremias,[39] ma vedremo che c’è l’eccezione del riferimento a un inno conclusivo. Già nel 1908 Francis Crawford Burkitt si era reso conto che, in Marco, il racconto dell’ultima cena era per lo meno neutro se non addirittura incompatibile con il rito della cena pasquale.[40] In mancanza di riferimenti alla Pasqua, per sapere come si svolse l’ultima cena bisogna rifarsi ai dati rituali contenuti nel racconto di Mc 14,17-26 ossia ai gesti compiuti sul pane (benedire, spezzare, dare, dicendo) e sul calice (rendere grazie, dare, bere; e successivamente dire). J. Jeremias ha considerato che, se quella cena era una cena pasquale, bisognava comprendere i dati rituali narrati da Marco in base al rito della Pasqua giudaica. Egli, quindi, ha descritto il rituale della Pasqua suddiviso in quattro parti:[41] (1) Antipasto; (2) Haggadah; (3) Pasto principale; (4) Conclusione,[42] e poi lo ha utilizzato come griglia di lettura del racconto di Marco. R. Pesch mutua questa impostazione da Jeremias e la ripete alla lettera.[43] Vedremo ora che non è corretto questo metodo di usare il seder della Pasqua per interpretare lo svolgimento dell’ultima cena e che, quindi, bisogna uscire dall’interpretazione sia di Jeremias sia di Pesch.

2.6         Il ‘seder’ ebraico nasce dopo il 70 d.C.

C’è discussione se all’epoca di Gesù la liturgia pasquale avesse già la struttura descritta nel rabbinismo, quella descritta dai nostri due autori, Jeremias e Pesch. Louis Finkelstein aveva sostenuto che la Haggadah pasquale era molto antica e poteva essere collocata verso la fine terzo secolo a.C. L’antichità sarebbe basata sul fatto che i Midrashim citano la Haggadah.[44] Sul versante opposto c’è Daniel E. Goldschmidt che parla di una data recente[45] poiché è la liturgia di Pasqua che cita i Midrashim[46] e non viceversa. Frédéric Manns ha esaminato le posizioni di Finkelstein e di Goldschmidt e sottolinea che, in fondo, entrambi utilizzano lo stesso argomento pur giungendo a conclusioni opposte. Egli conclude dicendo che, in questi casi, oltre a dire che A dipende da B o viceversa, si può anche dire che A e B dipendono da una fonte comune: «Ma forse il Midrash e la Haggadah dipendano entrambi da una stessa tradizione orale comune».[47] Dobbiamo aggiungere che è molto importante anche la ricerca di S. Stein che ha mostrato che esiste un rapporto preciso tra la liturgia pasquale e il Symposion greco.[48]
Completiamo il quadro con Joshua Kulp[49] che ha potuto dimostrare che nel periodo del Secondo Tempio non c’era ancora il seder di Pasqua così come è descritto nelle fonti rabbiniche, tra le più importanti delle quali c’è Tosefta Berakhot 4,8.
Mi pare che si debba aggiungere che, anche prima del 70, doveva pur esserci qualcosa che distinguesse una normale cena rituale festiva dalla cena pasquale, anche se non era il seder della letteratura rabbinica. A giudizio di Kulp, questo non riusciamo a saperlo con precisione anche se, tutto considerato, dovevano esserci degli elementi che erano molto vicini ai dati biblici.
Penso di poter concludere con Kulp: «Questa schiacciante tendenza degli storici e critici dei testi rabbinici, giunge alla conclusione che l’ultima cena di Gesù, quantunque celebrata nel tempo pasquale, non fu un seder dato che non c’era il seder nel periodo del Secondo Tempio».[50] È nella generazione di Yavneh (la generazione che segue la distruzione del Tempio) che i rabbini diedero forma al seder trasformando le usanze correnti fino a quel momento; ma forse si deve andare anche a due generazioni dopo, dato che non sappiamo quale fosse l’autorità dei rabbini in quel momento in Palestina, per non parare della diaspora, pur invocando la necessità della massima cautela.[51] In conclusione si può dire con certezza che il seder e l’Haggadah sono innovazioni del periodo che viene dopo il 70.[52] Nel periodo del Secondo Tempio, invece, abbiamo con sicurezza solo pochi elementi, come la presenza (1) del vino, (2) del cibo, (3) dell’Hallel.[53]
A queste osservazioni di Joshua Kulp io aggiungo che ci sono altri elementi, quelli che provengono dalla letteratura essena, quindi del periodo del Secondo Tempio, anche se sono dati che non appartengono specificamente al rito pasquale. Tuttavia li dobbiamo citare dato che alcuni valgono di ogni pasto e altri di ogni pasto festivo: di conseguenza, essi valgono anche per la cena pasquale. Si tratta, ad esempio, della Birkat ha-Mazon (documentata in Giubilei 22,6-9) oppure del costume di aprire la cena con il rito del pane seguito dal rito del calice, con le rispettive preghiere di benedizione, recitate dal sacerdote. Il rito della Birkat ha-Mazon non è solo esseno; appartiene agli usi del giudaismo in quanto tale e sarà ben recepito nella successiva riflessione rabbinica come attesta il Talmud (Berakot 48b).[54] Si tenga conto, poi, che la Birkat ha-Mazon è documentata nel Nuovo Testamento come preghiera di azione di grazie alla fine della cena con una data ben precisa, ricavata da 1Cor 11,25 e Lc 22.               
Inoltre, le preghiere prima del pasto sono attestate non solo nei testi esseni,[55] ma anche in Giuseppe Flavio e in Filone. Quest’ultimo cita la preghiera che precede il pasto e dice che qui si chiede a Dio che il banchetto gli sia gradito e sia secondo la sua volontà. Questa testimonianza è in De plantatione, 161-162[56] che, come tale, non riguarda i Terapeuti[57] ma il più vasto costume giudaico. Nella standardizzazione del culto, poi, questo rito diventerà il Qiddush, rito della cena festiva ivi compresa la Pasqua. Sono questi i riti che ritroviamo nella descrizione neotestamentaria dell’ultima cena come cena pasquale.

3           L’assenza di “Fate questo in memoria di me” in Marco e la sua presenza in Luca   

Il Vangelo di Marco è giustamente considerato il Vangelo che ha conservato le forme e i dati più arcaici. Qui il racconto dell'ultima cena risulta privo di un elemento fondamentale: il mandatum della reiterazione: Fate questo in memoria di me. Dobbiamo chiederci perché nella tradizione palestinese di Marco (dal quale dipende Matteo) non ci sia il mandatum della reiterazione. Ma prima dobbiamo chiarire che cosa rappresenti il mandatum ossia quale sia la sua funzione. Oggi dobbiamo convenire che è nel mandatum che si trova l’istituzione dell’eucaristia: senza il comando di reiterare in futuro ‘quella’ cena, non ci sarebbe l’istituzione del rito eucaristico. Di conseguenza, tutto ciò che era avvenuto in ‘quella’ cena, sarebbe rimasto confinato in quella cena stessa senza alcuna posterità. Questa è la nostra concezione dell’istituzione, che è ben diversa da quella medievale che consisteva nella creazione della forma del sacramento ossia della formula consacratoria. Ecco, ad esempio, la dottrina di Tommaso d’Aquino al riguardo. Egli ritiene che l'istituzione dell'eucaristia sia avvenuta quando Gesù, pronunciandole, ha inserito una particolare forza[58] nelle parole “questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue”. Una forza che ha conferito loro la potenza consacratoria.[59] Quindi l'istituzione consiste nel creare la "forma della consacrazione".
Da questa impostazione del problema e da questa dottrina, si ricava che quei racconti dell’ultima cena che riportano le parole “questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue”, hanno l’istituzione dell’eucaristia. Dunque i vangeli di Marco, di Matteo, di Luca, e 1Cor 11, sono testi che riportano, tutti, l’istituzione dell’eucaristia, mentre il vangelo di Giovanni non la riporta. Nella concezione odierna, invece, a causa della lettura storico-critica dei testi, è nel mandatum – ossia nel comando della reiterazione – che si trova l’istituzione dell’eucaristia. Quando manca il mandatum, è l’istituzione dell’eucaristia che manca.
Se Marco e Matteo non riportano il mandatum ne segue che Marco e Matteo non hanno l’istituzione dell’eucaristia nonostante che riportino l’ultima cena. Se è così, il vangelo di Giovanni non è più l’unico che non riporta l’istituzione dell’eucaristia: con lui ci sono anche Marco e Matteo. Paolo e Luca, invece, sarebbero gli unici a riportare l’istituzione perché sono gli unici a riportare il mandatum.[60] Qui il termine istituzione è inteso nel senso tecnico che gli danno i teologi. Questa nozione è diversa se l’istituzione è concepita come trasmissione di un modello (tipo): è questo il concetto che troviamo, ad esempio, nell’anafora degli apostoli Addai e Mari,[61] in quella frammentaria siriaca del VI secolo,[62] e in diverse anafore occidentali latine non romane. Ecco un testo del Missale Gothicum,[63] presente nella Contestatio[64] della Missa dominicalis <IIII>: «… qui formam sacrificii perennis instituens hostiam se tibi primus obtulit et primus docuit offerri». Questo testo si trova anche nel sacramentario di Biasca. La collocazione nella Contestatio è segno di arcaicità ossia di quando la preghiera eucaristica consisteva nella sola azione di grazie, che noi chiamiamo Praefatio.
Jeremias affronta il racconto marciano della cena in base all’origine liturgica del racconto istitutivo: la collocazione di questo racconto nella liturgia eucaristica ha come conseguenza l’eclissi di ogni riferimento alla Pasqua. Infatti il testo del racconto istitutivo, quando acquista valenza liturgica, si disinteressa dei dettagli storici poiché questi vanno aldilà di ciò che interessa la liturgia.[65]
Credo, però, che questa motivazione non basti e che la ragione vada cercata nel carattere pasquale stesso dell’ultima cena. Marco, e con lui Matteo, insiste fortemente sul carattere pasquale di questa cena: in Mc 14,1-25 si dice otto volte che era Pasqua e in Mt 26,1-30 sei volte. La cena in questione, dunque, deve essere necessariamente una cena pasquale: e se Gesù avesse dato il comando di reiterare quella cena rituale, in sua memoria, avrebbe detto di ripetere la Pasqua in sua memoria. Di conseguenza egli avrebbe istituito l’eucaristia come celebrazione annuale, Pasqua annuale. Non come celebrazione settimanale o quotidiana, come di fatto è accaduto, come ben sappiamo dalla testimonianza del cristianesimo delle origini. In conclusione, il vangelo di Marco non avrebbe potuto inserire il comando Fate questo in memoria di me, senza far cadere tutti nell'equivoco, ossia senza far pensare che Gesù – nell’ultima cena – avesse istituto un particolare rito annuale, il rito di una Pasqua in sua memoria.
Riprendiamo la questione in modo sintetico. (1) Abbiamo già detto di Marco, che non ha il mandato istitutivo per non interferire con il carattere pasquale dell'Ultima cena. (2) Luca, invece, nonostante che abbia ereditato da Mc-Mt l'indicazione che quella cena è la celebrazione della Pasqua, riporta il mandato istitutivo e lo riporta subito dopo le parole sul pane, esattamente come in 1Cor 11,23. Il mandato lucano dipende da Paolo sia come posizione sia come testo. È la dipendenza da Paolo che costringe Luca a riportare il mandato della reiterazione. (3) Luca, poi, risolve il problema del carattere pasquale della cena reinterpretandola, se così posso dire, dato che la colloca vistosamente nella continuità dei pasti «con» Gesù. All’inizio del testo lucano dell’ultima cena, dice infatti Gesù: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22,15). Certo che è una cena pasquale, ma il «con voi» inserisce nel testo un’ulteriore categoria interpretativa. I pasti con Gesù, in Luca, sono un dato teologico che scandisce il livello di comunione tra Gesù e i discepoli. È in questa prospettiva che va capita la redazione lucana dell’ultima cena.
È una cena testamentaria come quella di Abramo che trasmette le benedizioni a Giacobbe (Giubilei 22,10-23,1); è una cena pasquale che commemora l’esodo; è una cena «con Gesù» che sigilla la comunione con lui anche per le successive cene della comunità – di casa in casa (At 2,46) – nell’attesa della sua venuta e del banchetto escatologico.

4           L’eucaristia celebrata solo con il pane[66]

È evidente che le classi meno abbienti – nel giudaismo come altrove – non potevano permettersi il vino come bevanda quotidiana.[67] Nel giudaismo, il vino ai pasti compariva solo nelle feste. Per questo ci sono prescrizioni particolari che, ad esempio, rendono obbligatorio il vino nella cena pasquale. Queste prescrizioni non avrebbero senso se il vino ai pasti fosse stato un uso quotidiano. La preghiera di azione di grazie alla fine del pasto (Birkat ha-Mazon) era obbligatoria per concludere il pasto, indipendentemente dal fatto che ci fosse o non ci fosse il vino ma, qualora ci fosse stato, allora la Birkat ha-Mazon veniva recitata sul calice.
Quindi non è strano pensare che in uno stadio arcaico – quando la celebrazione eucaristica coincideva ancora con il pasto – l’eucaristia fosse celebrata con il pane soltanto, riservando il vino ai pranzi festivi. Ha un senso specifico, dunque, che il modo arcaico di chiamare l’eucaristia fosse «spezzare (klaō) il pane» o «frazione (klasis) del pane».[68] L’uso di celebrare la cena rituale con il pane soltanto è una buona spiegazione di 1Cor 11,25: «Fate questo ogni qualvolta (hosakis), qualora (ean) che beviate (pinete) in mia memoria». Qui l’uso del calice è una possibilità del rito, ma non è vincolante. Il carattere di “possibilità” si trova anche nel versetto successivo[69] che parla della celebrazione con pane-e-vino. È una possibilità reale, rispetto alla celebrazione con il solo pane.
Sappiamo che il racconto lucano dell’ultima cena dipende da Paolo; dobbiamo chiederci se in Luca ci sono tracce della cena rituale celebrata con solo il pane. Luca ha colto questo aspetto della pericope paolina ma lo ha gestito in modo diverso. Infatti egli ha importato da Paolo il comando di reiterare la cena ma lo ha applicato solo al rito del pane e non al rito del calice[70].
Una conferma indiretta si trova nella Chiesa delle origini; infatti c’è stato un gruppo, ben significativo, che celebrava l’eucaristia solo con il pane e l’acqua senza fare uso di vino; si tratta degli Ebioniti, presto qualificati come eretici, che conservarono questo costume liturgico. La cosa è andata avanti nel tempo visto che Cipriano attesta l’esistenza della setta degli Acquariani, che è una variante degli Ebioniti. D’altra parte sappiamo che gli Ebioniti erano una setta rilevante che esisteva ancora nel quarto secolo.
E il vangelo di Marco, che è il più antico, ha conservato un ricordo di questo uso dell’eucaristia solo con il pane? La risposta è affermativa. Il ricordo c’è poiché qui il racconto dell’ultima cena comportava certamente il rito del pane, ma per quanto riguarda il rito del calice, ci sono delle perplessità dato che questo sembra essere un’aggiunta posteriore. Ci sono molti kai[71] nel racconto marciano della cena: la parte dedicata al calice è divisa in tre settori, tutti e tre introdotti dalla congiunzione “kai”: due al v. 23, l’ultimo al v. 24.
(1)                     Iniziamo con il v. 23. Terminato il rito del pane, ci sono molti modi per introdurre il rito del calice; quello di Marco sembra essere molto goffo perché il rito del calice, introdotto dalla congiunzione kai, sembra essere solo un’appendice finale del rito del pane. Il rito del pane è descritto con uno stile solenne e armonico; quando si giunge alla congiunzione “kai” che lega il rito del pane al rito del calice, c’è una vera e propria caduta di stile e il rito del calice diventa poco significativo.
(2)                     Ma c’è un’altra osservazione. Nel rito del pane (v. 22) le parole esplicative[72] vengono pronunciate all’atto della distribuzione: e (lo) diede loro e disse: “Prendete, questo è il mio  corpo”; nel v. 23, invece, non ci sono le parole esplicative: «E avendo preso (un) calice, avendo reso grazie lo diede loro. E tutti ne bevvero».
(3)                     La distribuzione del calice termina con la notazione e tutti ne bevvero. Il rito del calice, quindi, resta senza parole esplicative che compaiono solo dopo, quando il rito del calice è già terminato.
(4)                     Passiamo al v. 24: dopo che il rito del calice è finito, compaiono le parole esplicative introdotte dalla congiunzione kai: «E disse loro: “Questo è il sangue di me dell’alleanza, versato per molti”». Dette dopo che tutti ne hanno bevuto, le parole esplicative sono fuori posto. Bere il calice senza le parole esplicative, è bere un bicchiere di vino del pasto rituale giudaico; berlo con le parole esplicative ha un senso completamente diverso, quello conferito dalle parole esplicative. Debbono essere dette, queste parole esplicative. Non sono al loro posto se vengono collocate in questa posizione, quando il rito è finito.
La congiunzione kai, che introduce le parole esplicative, è indizio di un intervento redazionale che – per rispetto delle fonti dalle quali dipende – non vuole armonizzare il racconto e che si limita a coordinare tra loro i vari brani che la tradizione ha offerto. Se riconosciamo con R. Pesch che Marco è un redattore molto conservatore, dobbiamo concludere che non è stato lui ad aggiungere le parole sul calice quando il rito del calice era già terminato. Penso che questa operazione sia avvenuta già nella precedente tradizione liturgica che Marco, poi, si è limitato a recepire.
In base a queste osservazioni possiamo concludere che anche nel vangelo di Marco c’è traccia dell’uso arcaico di un’eucaristia celebrata solo con il rito del pane, senza il rito del calice. Direi, dunque, che ha ragione J. Jeremias nel concludere che la celebrazione eucaristica con solo il pane, senza il vino, era non solo frequente nei primissimi tempi, ma addirittura la regola.[73]
Se il racconto dell'ultima cena, recepito nel vangelo di Marco, comportava solo il rito del pane, allora dobbiamo pensare a un’origine liturgica della narrazione e non a un’origine storico-narrativa; infatti, all'ultima cena, Gesù usò certamente il vino. Proprio secondo Marco, quella fu una cena pasquale: e noi sappiamo che la cena festiva, soprattutto la cena pasquale, comportava l'uso del vino, già nel periodo del Secondo Tempio.

5           Le parole sul calice nel vangelo di Marco

Le parole sul calice, che troviamo alla fine del racconto dell’ultima cena, sono formulate secondo due diverse tradizioni: marciana[74] e antiochena[75]; e in tutti e quattro i racconti dell’ultima cena, la parola sul vino mette il sangue in rapporto con l’alleanza, come sottolineava giustamente Pierre Benoit.[76] È un dato di grande rilievo, sistematicamente trascurato.
Abbiamo già visto che, nel vangelo di Marco, il racconto dell’ultima cena nella sua forma originaria sembra che non avesse le parole sul calice. Ne avremo ulteriore conferma dalla loro analisi: «E disse: “Questo è il sangue di me (mou) dell'alleanza (tēs diathēkēs) versato per molti”» (Mc 14,24). Qui ci sono due genitivi che si susseguono: (1) «mou», (2) «tēs diathēkēs»; è una costruzione che può stare sia in greco sia nelle nostre lingue moderne, ma che non può esistere né in ebraico né in aramaico.[77] Così Jeremias: «Il posto del pronome possessivo in Marco corrisponde al suffisso semitico, il fatto di mettere il pronome prima del nome (1Cor 11,24: touto mou esti to sōma) non è possibile che in greco».[78] Anche Camille Focant sottolinea questo problema: «Le parole tēs diathēkēs sono spesso ritenute un'inserzione fatta in un secondo tempo, perché la costruzione di un sostantivo con un pronome possessivo (to haima mou) seguito da un genitivo, pone problema sia in aramaico che in greco».[79] I vari autori concordano su questo punto, anche se ammettono che questa regola ha qualche eccezione.[80] La posizione delle parole dovrebbe essere completamente diversa;[81] da questo si può concludere che Gesù non può aver pronunciato queste parole. Inoltre si può pensare alla difficoltà, per un ebreo, di bere il sangue: sarebbe scandaloso.[82] Così commenta C. Focant: «È evidente che le affermazioni di Gesù sul suo corpo e sul suo sangue da consumare, prese alla lettera, sono insopportabili»; e aggiunge che da qui, però, non si può ricavare che queste parole siano potute nascere solo in una comunità cristiana ellenistica.[83] E allora dobbiamo chiederci quale sia la fonte alla quale ha attinto Marco, per formulare le parole sul calice; o meglio: quale sia la fonte alla quale ha attinto la tradizione liturgica recepita da Marco.
Si può sempre pensare a una fonte a noi ignota o non pervenuta ma, prima di elaborare una tale ipotesi, è meglio verificare con le fonti a noi note. Ossia, in altre parole, verificare se sia praticabile l’origine antiochena di queste parole, l’unica altra fonte certa. Nella tradizione antiochena c’è un certo parallelismo tra il rito del pane e il rito del calice, anche se non è un parallelismo perfetto dato che riguarda i due riti, come tali, ma non le locuzioni che li accompagnano, ossia le parole esplicative.

5.1          Una prima considerazione sulle parole sul calice

In Paolo, come in Luca, le parole sul calice sono: «Questo calice è[84] la nuova alleanza nel mio sangue». Gli elementi sono quattro: (1) il dimostrativo ‘questo’; (2) il calice; (3) l’alleanza; (4) il sangue. Paolo dice semplicemente che quel calice è la nuova alleanza, la quale è pattuita nel suo sangue che sarà versato sulla croce.
In base a Questo è il mio corpo, preso come modello, Marco avrebbe ricavato Questo è il mio sangue. Si forma così un perfetto parallelismo con le parole sul pane, che non c’era nella tradizione antiochena (Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue). In Marco scompare il termine calice; resta il dimostrativo ‘questo’; resta il tema dell’alleanza; resta il riferimento al sangue. Questi termini tuttavia, già presenti sia in Es 24 sia in Paolo / Luca, sono assemblati in modo diverso. Marco avrebbe composto le parole sul calice ricalcando le parole sul pane e, poi, avrebbe aggiunto il tema dell’alleanza ricavato da Es 24,8 o direttamente o dalla tradizione di Paolo / Luca. Su questi dati si riscontra un accordo generale degli autori. Nel paragrafo successivo, cercherò di dire qualcosa di differente; già ora, per introdurci, possiamo esprimere una valutazione. La tradizione antiochena esprimeva con maggior vigore il tema dell’alleanza dicendo addirittura che quel calice era la nuova alleanza;[85] è questa la grande differenza tra le due tradizioni uti iacent.
Prima di esaminare la genesi del testo di Marco, dobbiamo ricordare i seguenti punti. Dalla citazione di Esodo 24,8 proviene l’espressione marciana «il sangue (…) dell'alleanza», mentre l’espressione marciana «sangue di me» proviene o dalle parole sul pane della tradizione liturgica soggiacente, cui Marco si ispira, o dal racconto paolino tramite Luca che ha corretto il grecismo di Paolo, sua fonte, ripristinando il semitismo;[86] in Paolo e Luca, il calice viene presentato ai discepoli come il calice dell’alleanza e questa è pattuita nel (en) mio sangue. Questo en ha valore causale e corrisponde al be semitico. Il calice, quindi, non era il calice del sangue di Cristo bensì il calice dell’alleanza e questa era stata pattuita sul Calvario ‘mediante’ il sangue di Cristo.

5.2         La nascita delle parole sul calice in Marco

Il testo di Marco ottiene le parole sul calice rielaborando la tradizione di Paolo / Luca in base a due dati:
1)                     La citazione di Es 24,8: «Ecco il sangue dell'alleanza[87], che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!». Questa citazione, d’altra parte, è alla base anche della tradizione antiochena.
2)                     Il principio del parallelismo con le parole sul pane: «Questo è il mio corpo».


Dopo aver colto il parallelismo tra le parole sul calice e quelle sul pane, rileviamo che, rispetto alle parole sul pane, la novità delle parole sul calice sta nel tema dell'alleanza. Dobbiamo chiederci da dove esso provenga, osservando anzitutto, che nel Nuovo Testamento questo importante tema non è molto frequente, eccettuata la lettera agli Ebrei.[88] Soprattutto dobbiamo considerare che, nei vangeli, è presente solo nelle parole sul calice della narrazione dell’ultima cena.[89] Quindi, si resta sorpresi che questo tema secondario sia concentrato – in modo così programmatico – nelle parole sul calice ove gioca costantemente il ruolo di tema primario. La spiegazione è nella tradizione paolina[90] che mette il tema dell'alleanza come tema centrale anzi, ne fa il tema costitutivo delle parole sul calice al punto di dire che quel calice è l'alleanza. Ciò che si beve, dunque, è l’alleanza.
Il redattore di Marco accoglie questa scelta e, per formulare questo tema, decide di usare il locus classico che in Israele descrive l'alleanza, ossia la citazione di Es 24,8: «Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».
Presa come base questa citazione, l'esigenza di parallelismo con le parole sul pane (Mc 14,22) impone due cambiamenti.
(1)                       L'avverbio “ecco” è sostituito dal dimostrativo “questo”, che si trova anche nelle parole sul calice di tradizione antiochena.[91]
(2)                       Dato che il pane è il “corpo di me”, così deve essere anche per il sangue che, quindi, importa il genitivo e diventa il “sangue di me”.

Concludo dicendo che con due piccoli cambiamenti, la citazione di Es 24,8: «Ecco il sangue dell'alleanza» è stata trasformata nelle parole esplicative sul calice di Mc 14,24: «Questo è il sangue di me dell'alleanza». Il procedimento utilizzato mostra la precisa intenzione del redattore – per l’esplicito utilizzo di Es 24,8 – di legare il calice al tema dell'alleanza e di identificare il sangue con l’alleanza, ancor più che Paolo e Luca, quantunque in questi due testi il tema dell'alleanza sia più immediatamente evidente e più facile da cogliere.

5.3         Sinai e Calvario

Marco ha spiegato il calice dell'ultima cena attraverso la citazione di Es 24,8 che viene pronunciata da Gesù – con i due piccoli cambiamenti – come ‘annuncio' della croce ove avverrà lo spargimento del suo sangue: «E disse: “Questo è il sangue di me dell'alleanza, versato per molti”» (Mc 14,23).
Trattandosi di una frase così precisa e ben cesellata – accurata rielaborazione di una citazione biblica –, è legittimo ricavare queste due conclusioni.
(1)                       Per Marco, l’effusione del sangue di Cristo sul Calvario è l'alleanza del Sinai.
(2)                       Il calice dell’ultima cena contiene l'alleanza del Sinai stipulata sul Calvario con il sangue di Cristo.

È importante notare che, con la nuova prospettiva elaborata dal redattore di Marco a proposito dell’alleanza, il sangue dell'alleanza del monte Sinai è il sangue stesso di Cristo che sarà effuso sul monte Calvario. Questa concezione è possibile solo se si utilizza il metodo tipologico, un metodo usato da Paolo in 1Cor 10,1-4 (teorizzato esplicitamente in 1Cor 10,11), da Gv 6 a proposito della manna, e anche in 1P 3,20-21 a proposito del battesimo. Utilizzando la tipologia, il Calvario e il Sinai si identificano in un’unica realtà cosicché, bevendo il calice, i discepoli diventano partecipi dell’alleanza del Sinai giunta a compimento.
Nella cena, il calice viene offerto ai discepoli come gesto di condivisione e di comunione con Cristo nel suo imminente tragico destino che porta a compimento l’alleanza mosaica. Al Sinai il sangue delle vittime veniva asperso sul popolo, attraverso le dodici stele erette presso l'altare, che rappresentavano l'intero popolo di Israele. Nel cenacolo, invece, il ‘sangue’ viene offerto a ciascuno dei partecipanti affinché possa berne ossia affinché possa fare propria quella vita, poiché, secondo l'Antico Testamento, il sangue è la vita. Bevendo quel ‘sangue’, la vita di Cristo diventa la vita dei discepoli in una comunione totale di destino, quel destino tragico che è legato al termine calice in Mc 10,38 quando Gesù disse: «Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?».[92] Il bere il calice è l'unico modo per accedere a quell'unica alleanza che fu pattuita al monte Sinai e che si compie al Calvario. Ecco la novità dell'alleanza cui fa riferimento il racconto dell’ultima cena di Paolo e Luca: l’alleanza del Sinai è nel sangue di Cristo, e la si beve. Essa viene ricevuta oggi attraverso un rito che riguarda ciascun partecipante, e che viene celebrato da ciascuno, personalmente, quanto accosta le labbra quel calice e ne beve. È così, ormai, che si entra nell'alleanza del Sinai nel sangue di Cristo, bevendo al calice dell’ultima cena.

6           Un importante contributo di Paolo Sacchi

La rivista Henoch, dell’Università di Torino, ha pubblicato un saggio di P. Sacchi[93] che si interroga sul perché l’opera di Gesù ha avuto un successo così repentino. Il corto saggio inizia richiamandosi a Hermann Samuel Reimarus (1694-1768) che aveva sottolineato il gap esistente tra la dottrina di Gesù e quella dei suoi discepoli già pochi anni dopo la sua morte. La persona e l’opera di Gesù ebbero un grande successo, tuttavia «il passaggio dal Gesù predicante al Cristo adorato non si può spiegare sulla base dell’insegnamento di Gesù».[94] Se esaminiamo la questione dal punto di vista della storia delle idee, dobbiamo dire che l’intervallo temporale è stato troppo breve. E la spiegazione non può provenire nemmeno dal retrostante pensiero giudaico o esseno[95] assimilato e rielaborato, ma neanche troppo, dal cristianesimo nascente. Gesù non disse mai di essere Dio ma già nei primi discorsi riportati dagli Atti, si vede che Gesù per Pietro era un uomo molto particolare (cf. At 2,22-24). La morte di Gesù, se pure da lui profetizzata, non fu capita, nondimeno i discepoli restarono riuniti ad aspettare: ma non si sa bene che cosa. La scomparsa del corpo di Gesù li lasciò interdetti e ansiosi di capire ma soprattutto sorpresi.
Nessuno di questi dati può spiegare, da un lato, il comportamento apparentemente illogico dei discepoli e, dall'altro lato, il rapido successo delle varie comunità cristiane che – presto costituitesi in Chiesa con una sua dottrina specifica e un preciso stile di vita – diedero origine a una nuova religione. Aveva ragione Reimarus a porre questo problema che a tutt’oggi non ha ancora trovato soluzione soddisfacente. Una soluzione che – a giudizio di Sacchi – non si potrà trovare finché la questione sarà impostata in base alla storia delle idee.
Se non è nell’insegnamento e nella dottrina di Gesù che va ricercata la spiegazione, allora bisogna rivolgersi a qualcosa che Gesù ha fatto. Solo così potremo spiegare quel capovolgimento totale che fu l’origine del cristianesimo. Paolo Sacchi, poi, prende in considerazione il tema della salvezza; è questa l’opera che Gesù ha compiuto e che è divenuta l’annuncio centrale del cristianesimo: Gesù è il salvatore. Ma come? Certo si afferma che Gesù è morto per i nostri peccati e i due temi sono legati, perché il peccato è l’ostacolo che impedisce la salvezza. Questo è ben radicato nella cultura ebraica: «è l’aspetto più appariscente della cultura e della storia ebraica».[96] Quindi Paolo Sacchi si rivolge alla vicenda di Giovanni Battista che, al tempo di Gesù, aveva eletto proprio questo tema e viveva nel deserto predicando un battesimo di penitenza (conversione) in remissione dei peccati (Mc 1,4). Gesù fu battezzato da lui, ossia fu suo discepolo, e successivamente iniziò la sua missione proprio con il tema della penitenza: «Convertitevi perché il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15), senza però dare alcun rito per la remissione dei peccati.[97] La conversione è nella vita, ed è talmente poliedrica che non c’è rito che la possa compiere; se ci sono dei forti contatti con Giovanni Battista, ci sono anche delle forti differenze e questa è una di quelle. Per l’atteggiamento di Gesù verso il peccato è esemplare il caso del paralitico, così descritto da Sacchi: «Nel caso del paralitico (Mc 2,3-12), che gli viene presentato in maniera rocambolesca, Gesù appare padrone del perdono addirittura al di là della presenza del pentimento. Gli basta la fede e nemmeno del malato, solo di coloro che hanno portato il malato fino a lui».[98]
Ma anche qui dobbiamo riconoscere che le tematiche del peccato e il ministero di Giovanni Battista, così come sono state portate a compimento da Gesù, non sono sufficienti a spiegare il successo del cristianesimo che diventa addirittura una nuova religione. La purificazione dal peccato e la remissione delle colpe c’erano tanto nel giudaismo quanto nel cristianesimo che, nell’ottica della storia delle origini, è solo uno stadio della religione di Mosè. Sacchi conclude il suo saggio ribadendo che, per capire l’origine del cristianesimo bisogna cercare tra le cose che Gesù ha fatto.
E qui egli propone la sua soluzione. Tra le cose fatte da Gesù, c’è l’ultima cena, che merita tutta la nostra attenzione. Certo fu un banchetto pasquale e fu un pasto di addio, ma fu anche qualcosa che non c’era in nessun rito pasquale giudaico. Fu qualcosa di completamente nuovo. Gesù sancì un nuovo patto tra Dio e il popolo e questo patto è da comprendere alla luce della cultura ebraica del patto: «Per capire poi il rapporto con Dio alla luce di un patto, bisogna avere in mente il patto che Mosè strinse con Dio sul monte Sinai, patto fondante l’ebraismo».[99] Il Prof. Sacchi concentra il suo studio sul vangelo di Marco che è il più antico e, proprio all’inizio, citando il racconto dell’ultima cena, dice: « Credo che la formula di Marco sia la più antica. Cfr. R. Pesch, Il vangelo di Marco (2 voll.; Brescia: Paideia, 1982), p. 553».[100] È per questo che egli cita Marco quando presenta le parole dette da Gesù sul calice: «Con la frase quale appare nel vangelo di Marco Gesù disse che di patti fra Dio e gli uomini ce n’era uno solo ed era quello che stava stringendo lui con Dio. La tradizione ebraica ricordava più patti tra Dio e gli ebrei, tutti con clausole precise. Quello di Gesù si distingueva da tutti quelli precedenti non solo per il mezzo che lo sanciva, ma anche per il fatto, tutt’altro che secondario, di non avere nessuna clausola».[101]
L’antecedente, e il punto di riferimento, è il patto di Es 24 quando Mosè celebrò i sacrifici per ricavarne il sangue con cui aspergere il popolo. Questa aspersione lega il popolo a Dio con un patto, fondato sulle clausole che Mosè ha letto; il mezzo che opera il legame è il sangue che, per definizione, appartiene a Dio. Nell’ultima cena Gesù pattuisce una nuova alleanza (senza clausole) e non c’è il sangue che viene asperso ma, al suo posto, c’è il vino che è da bere. Così può concludere Sacchi: «“Questo è il mio sangue del patto, versato per molti” (14,24). Gesù sottolinea che il vino sta per il sangue colato dalla vittima: è il suo sangue. E questo sangue versato per molti, cioè per tutti, ha uno scopo, quello di sancire un patto».[102]
Credo che il Prof. Sacchi abbia fatto un’affermazione rilevante e vorrei sottolineare con lui l’importanza del rapporto che c’è tra l’ultima cena e la nuova alleanza. Da parte mia, però, vorrei fondarmi più sulla tradizione antiochena di Paolo e Luca – come ho mostrato supra – piuttosto che su quella di Marco che, invece, è così fortemente sostenuta dal Prof. Rudolf Pesch. In Paolo e Luca, infatti, le parole sul calice sono più chiare, immediate e decisive nel darci il rapporto tra il calice e l’alleanza, senza essere legate a un così stretto parallelismo con le parole sul pane che, in Marco, finisce per mettere in secondo piano il tema dell’alleanza nonostante la citazione di Es 24,8 che sta alla base.

7           Uno sguardo sulla tradizione di Paolo e Luca

Paolo dice: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue». Luca ripete Paolo e dice: «Questo calice (è) la nuova alleanza nel sangue di me»[103] aggiungendo, come appendice, «versato per voi». Questa appendice fa il paio con «dato per voi» che è l’appendice delle parole sul pane. Anche per Luca, dunque, il parallelismo ha la sua importanza come si vede nella gestione di queste due appendici. Se è così, ci dobbiamo stupire che le parole esplicative sul calice non siano coordinate in parallelo con quelle sul pane che dicono «Questo è il mio corpo». Le parole sul calice, infatti, non dicono «Questo è il mio sangue», bensì qualcosa di molto diverso: «Questo calice (è) la nuova alleanza nel sangue di me». Il parallelismo sarebbe la soluzione più facile mentre, con l’assenza di parallelismo, si va in controtendenza. L’assenza del parallelismo ci dice che è stata rispettata una tradizione che faceva autorità, senza introdurre rielaborazioni.
In questo testo lucano si afferma esplicitamente che il calice è l’alleanza, la quale viene stipulata nel sangue di Cristo, ossia per mezzo di quel sangue che sarà versato sul Calvario. La posizione di Sacchi è molto meglio fondata se diamo la precedenza alla tradizione antiochena e la teniamo come chiave di lettura anche di Marco.

7.1          Il racconto dell’ultima cena in Paolo

Sono due i testi che riguardano la liturgia eucaristica nella prima lettera ai Corinzi: il primo parla della celebrazione eucaristica della Chiesa di Corinto (1Cor 10,16-17) e il secondo della celebrazione di Gesù nell’ultima cena (1Cor 11,23-26). Se il teologo può dire che, in fondo, sono la stessa cosa poiché si tratta pur sempre dell’eucaristia, lo storico della liturgia deve fare accurate distinzioni poiché nel primo caso si tratta della liturgia di una Chiesa paolina, mentre nel secondo si tratta della liturgia di Gesù al cenacolo con i discepoli. Rilevato che, in entrambi i casi, il rito del pane è distinto dal rito del calice, vediamo che ci sono due differenze:
(1)                     a Corinto il rito del calice precede il rito del pane, mentre all’ultima cena c’è prima il pane e poi il calice;
(2)                     a Corinto il rito del pane è accompagnato non dalla benedizione (eulogia) ma dalla sola frazione, che è il gesto che lo contraddistingue, mentre all’ultima cena – come gesti rituali che contraddistinguono il pane – c’è sia la preghiera di azione di grazie (eucharistia) sia lo spezzare (klasis).

Quindi, il rito di 1Cor 10,16-17 non è il medesimo e non è affatto da confondere con quello di 1Cor 11,23-26: tuttavia Paolo stabilisce  un legame tra i due ed è ciò che ci interessa ora.

7.2         Il problema descritto in 1Cor 11,17-22

Il racconto dell’ultima cena di 1Cor 11,23-26 è preceduto da un brano introduttorio (1Cor 11,17-22) che dà il motivo per cui Paolo ha deciso di inviare ai corinzi il testo del racconto dell’ultima cena. Il brano si apre e si chiude con il tema della non lode. Questo è l’inizio: «E mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi» (11,17); e questa è la fine: «Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!» (11,22). La pericope in questione è una inclusione delimitata con precisione che determina il carattere unitario del brano e, pertanto, prescrive che se ne dia un’interpretazione unitaria.
Paolo è stato informato che i corinzi, quando si riuniscono in ekklēsia, si riuniscono non per il meglio ma per il peggio. Il motivo è presto detto: ci sono delle divisioni a Corinto. Paolo sembra attenuare l’accusa dicendo che, sì, ci crede a questa notizia, ma solo in parte. Tuttavia, nonostante questa attenuazione, egli prosegue nella sua argomentazione per concludere in modo perentorio che, se ci sono divisioni nella ekklēsia, la cena rituale non è più la Cena del Signore: «Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore» (11,20).[104] Ciò che determina la cena liturgica come Cena del Signore, non è tanto l’insieme degli elementi rituali, quanto l’unità. Com’è detto in 1Cor 10,17: «Poiché (c’è) un solo pane, noi, i molti, siamo un corpo solo: noi tutti, infatti, partecipiamo dell'unico pane». Si deve aggiungere che il pane – secondo 11,16 – è comunione del corpo di Cristo. È questo, dunque, celebrare l’eucaristia: essere uno in Cristo. Se la liturgia dei corinzi difetta di unità, essa non è più la Cena del Signore ma un’altra cosa.
Non è facile dire quali fossero le divisioni a Corinto; in questo testo Paolo ha degli accenni ma in maniera non molto chiara perché, da un lato oppone la “cena del Signore” al “prendere il proprio pasto” mentre, dall’altro, dice: «Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri» (11,33). Qui sembra dire che il rito è cominciato quando la riunione (ekklēsia) non è ancora completa e questo varrebbe sia per il «proprio pasto (to idion deipnon)» sia per la «cena del Signore (kuriakon deipnon)»; due componenti del rito di Corinto che, in qualche modo, dovevano essere coordinate.[105] Ad ogni modo, Paolo conclude che, se ci sono delle divisioni, quella non può essere detta «Cena signoriale (kuriakon deipnon)».
Ma che cos’è la Cena signoriale? È questa la domanda che i corinzi si debbono porre. Paolo dà la risposta iniziando una nuova pericope in cui narra l’ultima cena. Se vogliono che la loro liturgia sia davvero la Cena signoriale, i corinzi debbono prendere a modello l’ultima cena, così come Paolo l’ha narrata.

7.3         L’ultima cena secondo la tradizione antiochena

Non è Paolo che ha creato questo racconto dell’ultima cena poiché egli dice esplicitamente di averlo ricevuto: lo ha ricevuto e lo ha trasmesso. I verbi sono all’aoristo. Egli lo ha ricevuto nel passato e la cosa resta conclusa nel passato. Una tradizione avvenuta una volta per tutte. Il racconto che Paolo si accinge a fare non è, quindi, qualcosa di nuovo: deve solo ricordarlo loro, ma forse deve aggiungere qualche adattamento che aiuti i corinzi a capire quali siano le caratteristiche della Cena signoriale che debbono applicare al loro caso.
Anzitutto si vede che, data la funzione liturgica del testo, viene eliminato completamente il contesto pasquale. Passiamo agli adattamenti. (1) Dalle parole sul pane e sul calice Paolo ha eliminato tutti gli altri personaggi[106] in modo che rimanga solo Gesù, al centro di tutto. È così che emerge il tipo di unità che debbono avere i corinzi quando si riuniscono in ekklēsia: ci deve essere un solo protagonista, il Cristo. (2) Alla fine delle parole sul pane compare il mandatum «Fate questo in memoria di me» e così pure alla fine delle parole sul calice. In entrambi i casi c’è un esplicito riferimento ai discepoli presenti, ai quali si dà un comando preciso. Qui l’adattamento va nella direzione opposta al caso precedente. Sono i discepoli al centro. Il mandatum di Gesù li vincola a celebrare quel rito in sua memoria, sia che essi lo celebrino solo con il pane sia – eventualmente – con il pane e il calice. Il mandatum vale per entrambi i casi. La clausola ean suggerisce che il mandatum, posto alla fine delle parole sul calice, sia un adattamento paolino. Soprattutto se si tiene conto che il mandatum obbedisce alla stessa logica che ha determinato Paolo a citare il racconto dell’ultima cena, ossia per dare ai corinzi un modello teologico della loro celebrazione rituale. A questo punto, però, è probabile che questo argomento valga anche per il primo mandatum, quello posto alla fine delle parole sul pane. In tal caso, l’inciso «che (è) per voi»[107] sarebbe una frase di raccordo per passare dalle parole sul pane alle parole del mandatum. In altri termini, dunque, mi viene da pensare che il mandatum abbia origine non dalle parole di Gesù nel cenacolo, bensì dall’iniziativa di Paolo che ha proposto ai corinzi il racconto dell’ultima cena come modello teologico delle loro celebrazioni. L’introduzione del mandatum, infatti, rafforza l’insegnamento paolino di Cena signoriale, perché sarebbe Gesù stesso che propone l’ultima cena come modello della celebrazione. Non Paolo, quindi, ma Gesù stesso. A questo proposito va ricordata l’importanza del lemma utilizzato in 1Cor 11,23 (paradidōmi / paradosis), che è lo stesso che viene utilizzato per la trasmissione della fede.[108]

7.4         Il carattere pasquale del racconto antiocheno dell’ultima cena

Abbiamo già visto che non ci sono accenni alla pasqua nel racconto evangelico dell'ultima cena, ma solo nella pericope che lo precede e che narra della preparazione della cena di Gesù nel cenacolo. Questo non è del tutto vero perché il racconto evangelico annota che si cantarono i salmi del Hallel che è un elemento caratteristico della cena pasquale anche nel periodo del Secondo Tempio: «E dopo aver cantato l'inno (humnēsantes), uscirono verso il monte degli Ulivi» (Mc 14,26). E allora ci chiediamo perché non ci sono altri dati del seder. È vero che non ci sono altri dati del seder nel racconto dell'ultima cena, ma è altrettanto vero che non possono esserci dato che il seder non esisteva nel periodo del Secondo Tempio. L’errore sta nel pensare che il "rito pasquale" all’epoca di Gesù, comporti il seder descritto dalla Mishnāh.
Abbandoniamo, quindi, la questione del rapporto tra il seder e l'ultima cena come una questione metodologicamente scorretta. Ci dobbiamo chiedere che cosa sappiamo della struttura della cena festiva e della cena pasquale nel periodo del Secondo Tempio. La risposta l'abbiamo già avuta nel capitolo primo. Ricordiamo rapidamente qual era la struttura della cena rituale del giorno delle primizie, cinquanta giorni dopo pasqua, descritta dalle fonti essene. La cena iniziava con (1) il rito del pane accompagnato da una preghiera di benedizione. Seguiva (2) il rito del calice, anch'esso accompagnato da una da una benedizione. Fatto questo, iniziava la cena vera e propria, (3) al termine si recitava la Birkat ha-Mazon.
Nelle fonti essene[109] il rito prima del pasto è descritto molto bene e con una certa ampiezza, ma dobbiamo sottolineare che non si tratta del pasto quotidiano, bensì della cena rituale in occasione della festa delle primizie. Si tratta quindi di un pasto festivo.
E questa è esattamente la struttura rituale dell'ultima cena descritta da Luca ma con un'importante differenza. Presso gli Esseni il rito prima del pasto aveva la successione pane-calice mentre nel giudaismo la successione era calice-pane. Ed era questa la successione originaria secondo David Flusser.[110] La successione calice-pane è quella della liturgia eucaristica di Corinto, come attesta 1Cor 11,15-17, ed è la stessa successione che si trova in Didachè 9; Didachè 10, invece, riporta un’azione di grazie (eucharistia) abbastanza lunga, che conclude la cena rituale, e che corrisponde in tutto e per tutto alla Birkat ha-Mazon,[111] una Birkat ha-Mazon cristiana. La struttura della cena rituale di Didachè 9-10 corrisponde a quella dell’ultima cena descritta in Lc 22,17-20, compreso l’uso del verbo eucharisteō, per la benedizione sul calice, sul pane e per la Birkat ha-Mazon finale. C’è un’unica eccezione: in Luca la preghiera di azione di grazie finale accompagna un calice, quello con le parole esplicative che lo qualificano come calice della nuova alleanza, mentre Didachè 10 ha solo la preghiera di azione di grazie e non il calice. Ossia, qui c’è un solo calice ed è nel rito che precede la cena vera e propria; non due calici come in Lc 22,17-20: ma anche in 1Cor 10,16 c’è un solo calice e non due e c’è la stessa successione di Didachè 9, calice-pane.

8           Ancora un’osservazione, per finire

Abbiamo visto che Luca ha rielaborato Paolo eliminando i grecismi contenuti nel racconto dell’ultima cena di 1Cor 11,23-26 e restituendo i corrispettivi semitismi. In questo modo, egli è voluto andare all’origine giudaica del racconto dell’ultima cena. Ha fatto la stessa cosa quando ha descritto il rito che precede il pasto con la successione calice-pane invece di pane-calice che è di tipo esseno? Lo si può pensare ma penso che sia difficile da dimostrare. Il racconto lucano, comunque, non è un semplice specchio che si limita a riflettere Paolo, ma è una consapevole rielaborazione con criteri precisi come, ad esempio, (1) la sensibilità nei confronti della soggiacente tradizione giudaica e (2) il parallelismo. A questo proposito dobbiamo ricordare un altro elemento. (3) Egli fa concludere le parole sul calice con un’appendice (to huper humōn ekchunnomenon) analoga a quella che – nella tradizione antiochena  – chiudeva le parole sul pane (to huper humōn); a questa appendice del racconto paolino, che può stare solo in greco, Luca aggiunge il verbo didomenon. In tal modo, l’appendice alle parole sul calice e quella alle parole del pane, sono diventate parallele. Se Luca ha voluto applicare il parallelismo all’appendice delle parole sul pane così come a quelle sul calice, dobbiamo chiederci perché non lo ha applicato anche alle parole stesse sul calice (Questo calice (è) la nuova alleanza nel mio sangue). Perché non ha dato loro la stessa forma delle parole sul pane (Questo è il mio corpo) come, poi, ha fatto Marco (Questo è il mio sangue)? La risposta può essere una sola: quelle parole sul calice avevano un’autorevolezza, garantita dalla tradizione, che Luca non poteva cambiare. E non le ha cambiate anche a costo di rinunciare al parallelismo.
Ma se le modifiche lucane vanno verso il ritorno al dato giudaico prepaolino – anche a costo di creare qualche problema con l’inizio di 22,20 (kai to potērion hōsautōs meta to deipnēsai) – allora si può pensare che la frase Questo calice (è) la nuova alleanza nel mio sangue, sia la frase originaria, e non solo nella tradizione antiochena.
È possibile che qui, forse, ci sia qualcosa che riguarda il mondo degli Esseni con i quali la comunità cristiana delle origini era in stretto contatto. Gli Esseni si autodefinivano come comunità della nuova alleanza.[112] Una volta l’anno, nella festa delle Settimane, ossia nel giorno di Schavu’ot, il 16 del terzo mese, avveniva la pattuizione della nuova alleanza[113] per i nuovi adepti ma anche per chi faceva già parte della comunità ed era già entrato nel patto.
Alla luce di questo contesto storico, credo che siano particolarmente significativi questi due elementi contenuti nei racconti dell'ultima cena. Elementi molto importanti.
(1)                             L'alleanza deve avvenire 'mediante' il sangue e non in qualsiasi altro modo, poiché il typos dell'alleanza è l’alleanza mosaica al Sinai, descritta in Es 24.
(2)                             È per l'accostamento tipologico o, meglio, con l’identificazione tipologica con il sangue del monte Sinai, che il sangue della morte di Cristo sul Calvario è stato interpretato e definito come sangue dell'alleanza.

Da qui si può concludere: (1) che non è accettabile che gli Esseni si qualifichino come "Comunità dell'alleanza"; (2) che solamente il cristianesimo può qualificarsi in questo modo dato che il sangue dell'alleanza versato al Sinai ha un rapporto di identità tipologica con il sangue di Cristo versato sul Calvario.

9           Riassunto

Nell’ultima cena descritta da Marco, le parole sul calice non possono essere considerate originarie poiché, in una lingua semitica, due genitivi consecutivi (“di me dell’alleanza”) non si possono dare, di regola. Se togliamo il primo genitivo (“di me”), ciò che resta è semplicemente la citazione di Es 24,8: «Ecco / questo il sangue dell'alleanza», che è il testo che sta alla base delle parole sul calice nel racconto di Paolo-Luca. L’esame del concetto di “istituzione dell’eucaristia” permette di dire che questa dipende dal mandato (“fate questo in memoria di me”) presente nella tradizione paolino-lucana, ma assente in quella di Marco-Matteo; senza quel mandato, quella cena non avrebbe posterità. È, inoltre, probabile che dietro la tradizione marciana sull’eucaristia, ci fosse una celebrazione con il pane soltanto, ossia “sub una”. Si ricava che il rito descritto da Marco è, dunque, quello di Mc 14,22-23 senza le parole esplicative di Mc 14,24. Quando il redattore di Marco introduce forzatamente le parole sul calice alla fine del racconto dell’ultima cena, mostra quanto fosse importante il tema dell’alleanza anche per la tradizione Marco-Matteo. Tema capitale della celebrazione eucaristica.




[1] *E. Norelli*, «Il passaggio dal I al II secolo», in: * R. Penna* (ed.), Le origini del cristianesimo. Una guida, (= Frecce), Carocci, Roma 2014, p. 292.
[2] Ibidem, p. 293.
[3] *P. Benoit*, «Les récits de l’istitution de l’eucharistie et leur portée», in: *Idem*, Exégèse et Théologie, Vol. I, Les Éditions du Cerf, Paris 1961, p. 211 [Edito per la prima volta in inglese in Scripture, 8 (1956) 97-108; 9 (1957) 1-14].
[4] *R. Pesch*, Il vangelo di Marco, Parte seconda, (= Commentario teologico del Nuovo Testamento), Paideia, Brescia 1982, p. 539 [Ed. originale: Das Markusevangelium, Herder, Freiburg, v. 1-2, l977-1980 (Herders Theologischer Kommentar zum Neuen Testament)].
[5] Cf. l’esame della questione in *P. Benoit*, «La dernière cène», in: *Idem*, Exégèse et Théologie, Vol. I, Les Éditions du Cerf, Paris 1961, p. 167s [Edito per la prima volta in Revue biblique, 46 (1939) 357-393].
[6] *P. Benoit*, «Les récits de l’istitution de l’eucharistie et leur portée» …, p. 212.
[7] *F. C. Burkitt*, The Last Supper and the Paschal Meal, «The Journal of Theological Studies», 17 (1915/1916) 292.
[8] *R. Pesch*, Il vangelo di Marco, … p. 44ss.
[9] Ibidem, p. 46.
[10] Ibidem, p. 30s.
[11] «La constatazione della presenza di numerose unità testuali non autonome nel materiale della tradizione della passione impone di guardarsi dall'accettare ad occhi chiusi l'ipotesi, non giustificata, che la tradizione premarciana consistesse prevalentemente di tradizioni isolate». (Ibidem, p. 25).
[12] «La storia premarciana della passione è stata definita “il vero e proprio fondamento dell’esposizione marciana”, che determina essenzialmente l’impianto dell’intero vangelo e in particolare quello della seconda metà» (Ibidem, p. 18).
[13] *J. Jeremias*, La dernière cène. Les paroles de Jésus, (= Lectio divina 75), Les Éditions du Cerf, Paris 1972, p. 112 [Ed. originale: Die Abendmahlsworte Jesu, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen, 1967, 4a ed.].
[14] *M.-J. Lagrange*, Évangile selon Saint Marc, (= Études bibliques), Librairie Victor Lecoffre - J. Gabalda & Cie, Paris 1911, p. 353.
[15] *P. Benoit*, «Les récits de l’istitution de l’eucharistie et leur portée» …, p. 212.
[16] Ibidem.
[17] «La comunità originaria pare essersi creata i propri strumenti di missione nella fonte dei logia. È pensabile che la storia della passione sia stata impiegata per l'anamnesi del Messia Gesù nel culto della comunità, ma per la celebrazione dell'ultima cena si creò probabilmente ben presto un'eziologia cultica distaccata da essa» (*R. Pesch*, Il vangelo di Marco, … p. 48).
[18] «Mentre nella tradizione marciana abbiamo una narrazione-relazione, nella tradizione paolina troviamo una eziologia liturgica» (*R. Pesch*, Il vangelo di Marco, … p. 548).
[19] Si tratta di «tre brani narrativi strettamente concatenati dalla preparazione e dallo svolgimento del banchetto pasquale (14,12-16.18.20.22); essi si svolgono durante il pomeriggio (14, 12) e la sera del 14 Nisan e nelle prime ore del 15 Nisan. Il tema dominante è la morte di Gesù; il suo minaccioso incombere determina la segretezza nella preparazione del banchetto pasquale (14,12-16)». (*R. Pesch*, Il vangelo di Marco, … p. 40)
[20] Ibidem, p. 46.
[21] *P. Benoit*, «Les récits de l’istitution de l’eucharistie et leur portée» …, p. 213.
[22] «Contrariamente ad un'opinione erronea largamente diffusa, secondo la quale questa scena sarebbe stata inserita nel contesto solo all'atto della-redazione, Marco segue anche nel suo racconto dell'ultima cena lo sviluppo della storia premarciana della passione (cfr. l'excursus a pp. 18-54), che narrava in 14,17-21 e 14,22-25 due episodi particolari del banchetto di Gesù coi Dodici» (*R. Pesch*, Il vangelo di Marco, … p. 524). E ancora: «La predizione del tradimento è narrata come avvenimento particolare della prima metà del banchetto pasquale, mentre l'avvenimento particolare della seconda metà è l'illustrazione della morte di Gesù per mezzo dei doni simbolici del pane e del vino; la conclusione della cena pasquale viene accennata in 14,26» (Ibidem, p. 40).
[23] *M.-J. Lagrange*, Évangile selon Saint Marc, (= Études bibliques), Librairie Victor Lecoffre - J. Gabalda & Cie, Paris 1911, p. 353.
[24] *J. Jeremias*, Op. cit., p. 99.
[25] *J. Jeremias*, Op. cit., p. 128.
[26] Per la dimostrazione cf. *J. Jeremias*, Op. cit., p. 108.
[27] *J. Jeremias*, Op. cit., p. 108. Troviamo lo stesso giudizio in *C. Wiéner*, «Le Mystère pascal dans le deuxième Évangile. Recherches sur la construction de Marc 14-16», in: *M. Benzerath - A. Schmid - J. Guillet* (édd.), La Pâque du Christ, mystère du salut, Mélanges offerts au P. F.-X. Durrwell pour son 70e anniversaire, (= Lectio divina 112), Les Éditions du Cerf, Paris 1982, pp. 131-145. Claude Wiéner dice inoltre che il racconto di Marco, scritto in un greco poco elegante, con una sintassi rudimentale, può dare l'impressione di un racconto senza arrière pensée, come se il narratore si limitasse a raccontare semplicemente ciò che egli stesso ha sentito dire. Niente di più falso – egli aggiunge – e, inoltre, il racconto di Marco non è naïf. Ha una sua struttura ben elaborata e una regia dotta dell'intero racconto dei capitoli 14-16 (Ibidem, p. 144).
[28] *R. Pesch*, Il vangelo di Marco, … p. 524.
[29] Ibidem, p. 517.
[30] «La predizione del tradimento è narrata come avvenimento particolare della prima metà del banchetto pasquale, mentre l'avvenimento particolare della seconda metà è l'illustrazione della morte di Gesù per mezzo dei doni simbolici del pane e del vino; la conclusione della cena pasquale viene accennata in 14,26» (*R. Pesch*, Il vangelo di Marco, … p. 40).
[31] *R. Pesch*, Il vangelo di Marco, … p. 524.
[32] «La parte principale del banchetto, la terza fase nella celebrazione della Pasqua (cfr. il comm. a 14,18), ha inizio con la preghiera conviviale, la formula di lode (eulogēsas) del padrone di casa sul pane azzimo (maṣṣê). Il capotavola si alza dal giaciglio e, sedutosi, prende in mano la maṣṣê e pronuncia su di essa, in nome di tutti, la seguente benedizione: “Sii lodato, Signore, nostro Dio, re del mondo, che fai scaturire pane dalla terra”. I commensali si associano alla lode con l'approvazione 'amen' prima che il celebrante spezzi (staccando dalla focaccia un pezzo per ognuno) e distribuisca loro il pane. A questo rito, descritto con termini correnti (in linguaggio semitizzante: “labōn arton, eulogēsas, eklasen kai edōken autois”), Gesù ha collegato, secondo il resoconto della storia della passione, un particolare atto conviviale. Egli rivolge ai discepoli un inconsueto invito esplicito: “Prendete!”, e durante la distribuzione illustra il pane con le parole: “Questo è il mio corpo”. L'invito posto prima delle parole esplicative presuppone certamente che Gesù non mangi di tale pane» (*R. Pesch*, Il vangelo di Marco, … p. 528).
[33] *J. Jeremias*, Op. cit., p. 93s.
[34] Per Pesch il rito del pane non apparterrebbe al rito dell’“antipasto” – che sarebbe il rito del Qiddush ­–, bensì al rito del “pasto principale”. Il Qiddush avrebbe solo il rito del primo calice ma non il rito dello spezzare il pane. Di conseguenza, l’istituzione dell’eucaristia non coinvolgerebbe il rito dell’“antipasto” (Qiddush) ma solo il “pasto principale”. La pericope sul tradimento di Giuda si riferirebbe al rito del Qiddush, mentre l’istituzione dell’eucaristia avverrebbe durante il “pasto principale”. Due azioni ben distinte, collocate in due riti ben distinti. È comprensibile, quindi, – secondo Pesch – che Marco abbia dotato le due pericopi di un incipit praticamente identico.
[35] Cf. *L. Ligier*, «Textus liturgiae Iudaeorum», in: *A. Hänggi - I. Pahl*  (edd.), Prex eucharistica. Textus e variis liturgiis antiquioribus selecti, (= Spicilegium friburgense 12), Editions universitaires - Fribourg Suisse, Fribourg 1968, pp. 5-7; * I. Elbogen*, Der jüdische Gottesdienst in seiner geschichtlichen Entwicklung, Leipzig, 1913 - Frankfurt a. M. 19242, Vierte Auflage, Georg Olms Verlagsbuchhandlung, Hildesheim 1962, pp. 82; 85; 111-112. *L. A. Hoffman*, Blessings and Their Translation In Jewish Current Liturgies, «Worship», 60 (1986) 134-161.  *Idem*, Berakhah rabbinica e spiritualità ebraica, «Concilium», 26/3 (1990) 349-364. Per liberarsi dalle strane interpretazioni date al Qiddush, cf. *F. C. Burkitt*, The Last Supper and the Paschal Meal, «The Journal of Theological Studies», 17 (1915/1916) 291-297.
[36] *J. Jeremias*, Op. cit., p. 27.
[37] «Avevano anche pochi pesciolini; dopo aver pronunziata la benedizione su di essi (eulogēsas auta)» (Mc 8,7). Per Jean-François Baudoz, la sezione dei pani del vangelo di Marco è precisamente lo sviluppo di una catechesi sull’eucaristia (*J.-F. Baudoz*, «Le repas du Seigneur d'après la section des pains en Marc (Mc 6,6b - 8,30)», in: *M. Quesnel - Y.-M. Blanchard - C. Tassin* (édd.), Nourriture et repas dans les milieux juifs et chrétiens de l’antiquité, Mélanges offerts au Professeur Charles Perrot, (= Lectio divina 178), Les Éditions du Cerf, Paris 1999, pp. 91-106). Se è una catechesi sull’eucaristia, è giusto che rifletta il linguaggio di Marco, mentre il racconto marciano dell’ultima cena riflette l’uso della fonte.
[38] In Mc 8,6 invece, viene usato il verbo eucharisteō nella forma di participio (eucharistēsas) e resta senza complemento oggetto. La differenza tra eulogeō ed eucharisteō mostra che c’è stata un’evoluzione nella pratica liturgica.
[39] Cf. *J. Jeremias, Op. cit., p. 130.
[40] *F. C. Burkitt*, The Last Supper and the Paschal Meal, … p. 293.
[41] La suddivisione in quattro parti è caratteristica anche del symposion greco. Cf. *S. Stein*, The Influence of Symposium Literature on the Literary Form of the Pesah Haggadah, «The Journal of Jewish Studies», 8 (1957) 13-44.
[42] *J. Jeremias*, Op. cit., p. 93s.
[43] *R. Pesch*, Il vangelo di Marco, … p. 517.
[44] *L. Finkelstein*, The Oldest Midrash: Pre-Rabbinic Ideals and Teachings in Passover Haggadah, «Harvard Theological Review», 31 (1938) 291-317; *Idem*, Pre-Maccabean Documents in Passover Haggadah, «Harvard Theological Review», 33 (1942) 291-332; 34 (1943) 1-38.
[45] *E. D. Goldschmidt*, The Passover Haggadah. Its Sources and History, Bialik Institute, Jerusalem 1977 (3a ed.).
[46] Di epoca tannaita (epoca della Mishnāh) dal 70 d.C. al 200.
[47] *F. Manns*, La prière d'Israël à l'heure de Jésus, (= Studium biblicum franciscanum. Analecta 22), Franciscan Printing Press, Jérusalem 1986, p. 199.
[48] *S. Stein*, The Influence of Symposium Literature on the Literary Form of the Pesah Haggadah, «The Journal of Jewish Studies», 8 (1957) 13-44.
[49] Sono tre le forze che avrebbero spinto il rabbinismo alla formazione e alla crescita di un Seder pasquale innovativo: (1) le due calamità della distruzione del tempio e della rivolta di Bar Kokba; (2) la sfida del cristianesimo emergente; (3) una certa assimilazione dei costumi dei Romani (*J. Kulp*, The Origins of the Seder and Haggadah, «Currents in Biblical Research», 4 (2005) 109-134).
[50] Art. cit., 113.
[51] *J. Kulp*, The Origins of the Seder and Haggadah, … 128.
[52] Ibidem, 130.
[53] Ibidem, 127.
[54] «Insegnarono i nostri dottori: Da dove risulta che la benedizione per il cibo è contenuta nella Legge? Da quanto fu detto: “Quando avrai mangiato e ti sarai saziato tu benedirai” (Dt 8,10)» (*S. Cavalletti* (ed.), Il Trattato delle Benedizioni (Berakot) del Talmud babilonese, (Classici delle religioni), UTET, Torino 1968, p. 322).
[55] Cf. la documentazione citata nel capitolo primo.
[56] *J. Pouilloux* (éd.), Philonis Alexandrini. De plantatione, (= R. Arnaldez  - J. Pouilloux  - C. Mondésert  (édd.), Les oeuvres de Philon d’Alexandrie 10), Cerf, Paris 1963, p. 98s.
[57] Sull’origine egiziana degli Esseni, cf. *É. Nodet*, L’origine des esséniens… et Qumrân, «Judaïsme Ancien / Ancient Judaïsm», 3 (2015) 15-63.
[58] Alle parole Hoc est corpus meum, viene conferita una potenza che Tommaso chiama “virtus instrumentalis”: «Virtus illa instrumentalis quae inest verbis, habet operationem supra substantiam panis, quia verbum ad elementum accedit secundum Augustinum» (In IV Sententiarum, Dist. 8, Quaest. 2, Art. 3, Ad quintum).
[59] «Dicendum est, quod in verbis praedictis, sicut in aliis formis sacramentorum, est aliqua virtus ex Deo» (In IV Sententiarum, Dist. 8, Quaest. 2, Art. 3, Solutio). E pertanto le parole in questione sono «significantia et factiva eius quod significatur» (In IV Sententiarum, Dist. 8, Quaest. 2, Art. 1, Solutio 4, Ad primum).
[60] Paolo, quindi, è l’unico ad avere il mandatum dato che Luca lo mutua da lui ma solo per il rito del pane.
[61] «… e abbiamo ricevuto per tradizione il modello (tipo) che viene da te» (A. Gelston (ed.), The Eucharistic Prayer of Addai and Mari, Clarendon Press, Oxford 1992, p. 52-53, linea 52).
[62] «… e un buon esempio (Letteralmente: “somiglianza”, in siriaco dmuta, equivalente a tipo) ci affidò, perché come fece lui facciamo noi fedelmente e viviamo per mezzo dei misteri di lui» (Segno di unità. Le più antiche eucaristie delle chiese, A cura dei Monaci e delle Monache del Monastero di Bose sotto la direzione di Enrico Mazza, (= Liturgia e vita), Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Bose (Biella) 1996, p. 324).
[63] E. Rose (ed.), Missale Gothicum, E codice Vaticano Reginensi latino 317 editum, (= Corpus Christianorum. Series latina 159D), Brepols, Turnhout 2005, n. 515.
[64] Sulla terminologia usata nella liturgia gallicana per definire l’azione di grazie, cf: Bernard Ch., «Contestatio / contestata - immolatio missae - praefatio: les noms latins de la préface eucharistiques en Gaule tardo-antique et carolingienne», in: Caseau B. - Cheynet J.-C. - Déroche V. (édd.), Pèlerinages et lieux saints dans l’Antiquité et le Moyen Âge, Mélanges offerts à Pierre Maraval, (= Collège de France - CNRS. Centre de recherche d’histoire et civilisation de Byzance. Monographies 23), Association des Amis du Centre d’Histoire et Civilisation de Byzance, Paris 2006, pp. 25-83.
[65] Op. cit., p. 130.
[66] Cf. *J.-M. Van Cangh*, Le déroulement primitif de la cène (Mc 14, 18-26 et par.), «Revue biblique», 102 (1995) 193-225. Cf. anche: Idem, «Les origines de l’eucharistie. Le cas des Actes des Apôtres apocryphes», in: *A. Marchadour* (éd.), L’évangile exploré. Mélanges offerts à Simon Legasse à l’occasion de ses soixante-dix ans, (= Lectio divina 166), Les Éditions du Cerf, Paris 1996, pp. 392-414.
[67] Mentre la Birkat ha-Mazon era obbligatoria alla conclusione di ogni pasto che avesse la consistenza di un’oliva di taglia media.
[68] Cf. J. Jeremias, Op. cit., p. 130.
[69] «Ogni qualvolta (hosakis), qualora (ean) che mangiate questo pane e bevete il calice, voi annunciate la morte del Signore finché egli venga» (1Cor 11,26).
[70] Lo sottolinea anche R. Pesch (Op. cit., p. 544), oltre che Jeremias.
[71] La cornice narrativa della tradizione marciana si fonda su una successione di 11 verbi (uniti sei volte da kai) all'aoristo; 5 di essi sono participi; fa eccezione il V. 22a. (cf. *R. Pesch*, Op. cit., p. 546). Ecco il testo: «E mentre mangiavano, Gesù avendo preso del pane; avendo detta la benedizione, (lo) spezzò, e (lo) diede loro e disse: “Prendete, questo è il mio corpo”. E avendo preso un calice, avendo reso grazie, (lo) diede loro, e tutti ne bevvero. E disse loro: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti”» (Mc 11,22-24).
[72] In area germanica è prevalso l’uso di chiamare Deutewort la parola che accompagna il calice e il pane e che ha lo scopo di illustrare la natura e la funzione del pane e del vino dell’ultima cena. Queste parole, dal punto di vista letterario, hanno effettivamente una funzione esplicativa e nessun’altra. Dal punto di vista della teologia occidentale, invece, hanno anche un altro ruolo che viene detto “consacratorio”.
[73] Op. cit., p. 131.
[74] «E disse: «Questo è il sangue di me dell'alleanza versato per molti» (Mc 14,24).
[75] «Allo stesso modo, dopo aver cenato, anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; Fate questo ogni qualvolta (hosakis), qualora (ean) che bevete (pinete), in mia memoria”» (1Cor 11,25). Luca dipende da Paolo e appartiene alla stessa tradizione antiochena: «Anche il calice, allo stesso modo, dopo aver cenato, dicendo: “Questo calice (è) la nuova alleanza nel sangue di me, versato per voi”» (Lc 22,20).
[76] *P. Benoit*, «La dernière cène», in: *Idem*, Exégèse et Théologie, Vol. I, Les Éditions du Cerf, Paris 1961, p. 217.
[77] «Questa espressione, infatti, si presenta come molto difficile per una retroversione letterale in ebraico e in aramaico palestinese: Un nome con suffisso pronominale non ammette in generale alcun genitivo dopo di lui» (*J. Jeremias*, Op. cit., p. 229).
[78] *J. Jeremias*, Op. cit., p. 210.
[79] *C. Focant*, Il Vangelo secondo Marco, presentazione di Roberto Vignolo, (= Commenti e studi biblici. Sezione studi biblici), Cittadella, Assisi 2015, p. 565.
[80] Cf. *J. A. Emerton*, The Aramaic Underlying ‘to haima mou tēs diathēkēs’ in Mark 14:24, «The Journal of Theological Studies», ns 6 (1955) 238-240.
[81] «Infatti tanto in ebraico quanto in aramaico il legame di uno stato costrutto non tollera il suffisso che alla fine (di conseguenza non al nomen regens, bensì al nomen rectum) ma in questo caso si rapporta a tutta l’espressione» (*J. Jeremias*, Op. cit., p. 230).
[82] Cf. *J. Jeremias*, Op. cit., pp. 201; 226ss; *J.-M. Van Cangh*, Le déroulement primitif de la cène (Mc 14, 18-26 et par.), «Revue biblique», 102 (1995) 214.
[83] *C. Focant*, Il Vangelo secondo Marco, p. 563s.
[84] In Luca manca la copula.
[85] In Marco, invece, il calice è anzitutto il calice del sangue di Cristo, anche se viene subito specificato come sangue dell’alleanza. Direttamente, tuttavia, è il primo genitivo che si impone: «Questo è il sangue di me». La traduzione in lingue moderne risente di questa difficoltà dei due genitivi e il tema dell’alleanza è reso con una locuzione appositiva che richiede la ripetizione del sostantivo reggente; ecco, infatti, alcune traduzioni di Mc 14,24: quella italiana (CEI): «Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza versato per molti»; la Bible de Jérusalem (1953) altrettanto: «Ceci est mon sang, le sang de l’alliance». Anche il tedesco Das neue Testament (6. Auflage der Endfassung 1986. Katholische Bibelanstalt GmbH, Stuttgart) fa la stessa scelta: «Das ist mein Blut, das Blut des Bundes», come pure la New Jerusalem Bible (1985) che dice «This is my blood, the blood of the covenant». Da tutto questo si vede che l’attenzione è centrata sul vino che è il sangue di Cristo, mentre il tema dell’alleanza, di fatto, è messo in secondo piano: questa, in quanto secondo genitivo, è come se fosse un dettaglio che bisogna pur menzionare ma che, di fatto, non lascia traccia sull’elemento principale.
[86] Paolo ha detto «en tōi emōi haimati» con un grecismo (il possessivo prima del sostantivo) che viene corretto da Luca che ripristina il semitismo: «en tōi haimati mou» (Lc 22,20). Il posto del pronome possessivo corrisponde al suffisso semitico (*J. Jeremias*, Op. cit., p. 210).
[87] «Idou to haima tēs diathēkēs». Idou (ecco) equivale a touto (questo) come si vede in Eb 9,20 che cita Es 24,8: «… dicendo: questo (touto) (è) il sangue dell'alleanza che Dio ha stabilito per voi»
[88] Nel Nuovo Testamento il tema dell’alleanza si trova in: Mt 26,28; Mc 14,28; Lc 1,72; Lc 22,20; At 3,25; 7,8; Rm 11,27; 1Cor 11,25 (racconto dell’ultima cena); 2Cor 3,6; 2Cor 3,10; Eb 7,22; 8,6; 8,8; 8,9; 8,10; 8,13; 9,1; 9,4; 9,15; 9,18; 9,20; 10,16; 10,29; 12,24; 13,20; Ap 11,19.
[89] È presente anche nell'inno di Lc 1,72 ove, però, la menzione dell’alleanza non gioca alcun ruolo particolare.
[90] «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue» (1Cor 11,24).
[91] L’equivalenza tra “ecco” e “questo” non fa problema dato che è esistito anche un altro modo di proporre questa citazione di Esodo, come si vede in Eb 9,20 che cita Es 24,8 non con l’avverbio “ecco”, bensì con il dimostrativo “questo”.
[92] Cf. *S. Légasse*, «La Passion comme 'coupe'. Essai sur la genèse d'une métaphore», in: *M. Quesnel – Y.-M. Blanchard – C. Tassin* (édd.), _Nourriture et repas dans les milieux juifs et chrétiens de l’antiquité_, Mélanges offerts au Professeur Charles Perrot, (= Lectio divina 178), Les Éditions du Cerf, Paris 1999, pp. 173-179.
[93] *P. Sacchi*, Il Patto di Gesù (Mc 14,22-24), Reimarus e l’origine del cristianesimo, «Henoch», 36 (2014) 297-306.
[94] Ibidem, 297.
[95] «La teologia di alcuni manoscritti di Qumran e di apocrifi precristiani come il Libro dei Vigilanti e il libro dei Giubilei sono buoni ponti per spiegare la formazione di teologie cristiane» (Ibidem, 298).
[96] Ibidem, 300.
[97] Ho ampiamente trattato questo aspetto nel mio La liturgia della Penitenza nella storia, (= Studi e ricerche di liturgia), EDB Edizioni Dehoniane, Bologna 2013.
[98] Il Patto di Gesù (Mc 14,22-24)…, Art. cit., 300.
[99] Ibidem, 303.
[100] Ibidem, 297, nota 1.
[101] Ibidem, 304.
[102] Ibidem, 302.
[103] Luca restituisce forma semitica alla frase di 1Cor 11,25, eliminando la copula (che in aramaico non c’è) e portando il pronome personale dopo il sostantivo haima.
[104] In 11,17 c’è un hoti causale che introduce l’accusa: Paolo non può lodarli perché (hoti) essi si riuniscono non per il meglio ma per il peggio; dopo di che egli ne fornisce la prova introdotta da gar: ci sono infatti (gar) delle divisioni (11,18). Un secondo gar, coordinato con il primo, spiega che c’è una logica nelle divisioni: c’è bisogno infatti (gar) delle divisioni, affinché si veda quali sono le persone giuste (dokimoi) (11,19). Arrivati a 11,20 abbiamo la conclusione perentoria: «Quando dunque (oun) vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena signoriale (kuriakon deipnon)». C’è un solo oun, ossia una sola conclusione in tutta la pericope, nei versetti successivi abbiamo altri due gar a commento di questa conclusione: il primo (11,21) spiega che cosa sia successo, ossia quale sia l’episodio che ha espresso le divisioni: «Ognuno infatti (gar) prende prima (prolambanei) il suo pasto (to idion deipnon), nel mangiare, e così uno è ubriaco e uno ha fame». Il versetto 22 – con un altro gar coordinato con 11,21 –  insiste ancora di più: «Non avete, infatti (gar), le vostre case per mangiare e per bere?»; il versetto si conclude con la ripetizione del tema del non lodare che, chiude l’inclusione.
[105] Cf. *P. Grelot*, «Le repas seigneurial (1Co 11,20)», in: *M. Benzerath - A. Schmid - J. Guillet* (édd.), La Pâque du Christ, mystère de salut, Mélanges offerts au P. F.-X. Durrwell pour son 70e anniversaire, (= Lectio divina 112), Les Éditions du Cerf, Paris 1982, pp. 203-236; cf. soprattutto *G. Theissen*, «La stratificazione sociale nella comunità di Corinto. Un contributo alla sociologia del cristianesimo primitivo ellenistico», in: *Idem.*, Sociologia del cristianesimo primitivo, (= Dabar. Studi biblici e giudaistici 5), Marietti, Genova 1987, pp. 207-241; *G. Theissen*, «Integrazione sociale e azione sacramentale. Un’analisi di 1Cor 11,17-34», in: Ibidem, pp. 259-278. Secondo Gerd Theißen la composizione sociale dell’assemblea sarebbe all’origine delle divisioni che si manifestano nel rito del pasto. È un’analisi preziosa e da conservare che, tuttavia, non arriva a conclusioni accettabili. L’autore, infatti, decide sia (1) il rapporto tra il «proprio pasto» e la «Cena del Signore», sia (2) la questione dell’«aspettatevi a vicenda» in base al momento della consacrazione, ossia quando vengono pronunciate le parole consacratorie sul pane e sul vino.  È un anacronismo. Un tale concetto compare solo alcuni secoli più tardi e, pertanto, non può essere applicato all’analisi della liturgia dei corinzi.
[106] Nel racconto dell’ultima cena del vangelo di Marco, i discepoli vengono citati come partecipanti della cena con Gesù. Lo vediamo in Mc 14,14 dove i due discepoli debbono portare all’ospite il messaggio di Gesù che si chiude così: «… perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli». La cena pasquale, dunque, è una Cena con Gesù. Nel racconto della cena i discepoli compaiono puntualmente: «E mentre mangiavano … e lo diede loro, dicendo: Prendete, … Poi prese il calice …, lo diede loro e ne bevvero tutti» (14,22). Basta fare un confronto con il testo paolino per accorgersi che i discepoli non compaiono mai, anche se è evidente che sono presenti: «prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo (…)”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue (…)”» (1Cor 11,23-25). Qui, pare proprio che non ci sia nessuno ne non Gesù.
[107] Questo inciso (to huper humōn) senza il verbo, è possibile in greco ma non in una lingua semita.
[108] «Vi ho trasmesso (paredōka) dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto (parelabon): che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15,3),
[109] Le fonti che testimoniano il pasto esseno, che abbiamo esaminato nel capitolo primo, sono: Giuseppe Flavio (una preghiera prima del pasto e una dopo); la Regola della comunità (una benedizione per il pane e una per il vino, prima del pasto, compiute dal sacerdote); stessa testimonianza nella Regola della congregazione di 1Q che stabilisce anche l’obbligatorietà di questo rito. Mentre Giuseppe Flavio parla del pasto quotidiano, queste due Regole trattano del pasto festivo. Filone, poi, attesta che i Terapeuti hanno una preghiera prima del pasto affinché Dio gradisca il banchetto; in tal modo egli applica al pasto una concezione di tipo sacrificale.
[110] *D. Flusser*, «The Last Supper and the Essenes», in: *Idem* (ed.), The Judaism and the Origins of Christianity, Magnes press - The Hebrew University Jerusalem, Jerusalem 1988, pp. 202-206.
[111] Cf. il classico studio di *L. Finkelstein*, The Birkat ha-mazon, «The Jewish Quarterly Review», N.S. 19 (1928-1929) 211-262.
[112] Il Documento di Damasco, parlando dei nuovi adepti, ha la frase: «quelli che entrarono nel nuovo Patto» (CD VI,19; in: F. García Martínez – C. Martone [a cura di], Testi di Qumran, [Introduzione allo studio della Bibbia. Supplementi 10], Paideia, Brescia 1996, p. 121); e anche: «tutti gli uomini che entrarono nel nuovo Patto nella terra di Damasco» (CD VIII,21; ivi, 123; cf. anche XIX,33-34; XX,10-12).
[113] Il rito dell’alleanza comporta la presenza dei sacerdoti, leviti, con una solenne promessa in ordine all’appartenenza alla comunità dell’alleanza. Cf. J.C. VanderKam, «Covenant», in L. Schiffman – J. VanderKam (a cura di), Encyclopedia of the Dead Sea Scrolls, Clarendon Press, Oxford 2000, I, 151-155; cf. Id., «Shavu’ot», in L. Schiffman – J. VanderKam (a cura di), Encyclopedia of the Dead Sea Scrolls, Clarendon Press, Oxford 2000, II, 871-872.