mercoledì 25 febbraio 2015

IL POTERE E IL SACRO


LA VOCE DEGLI OPPRESSI DEL NORDEST BAIANO (BRASILE)
Paolo Cugini

Sembra strano, ma non lo è. Sembra strano pensare che il sacro, lo spazio sacro, i riti religiosi possano essere l’ambiente privilegiato, o perlomeno uno dei preferiti per esercitare il potere politico, ma tanto strano non è. In America latina Il Vangelo è stato imposto con la spada. I neri strappati dalle loro capanne in Africa dovevano convertirsi durante il tragitto in nave verso la nuova Terra. E così, quando entravano a Salvador di Bahia, erano già tutti cristiani. Gilberto Freyre, considerato uno dei maggiori antropologi del Brasile, nel suo famoso libro: Casagrande e Senzala, racconta come i neri dell’Angola dopo essere stati barbaramente strappati dalle loro case, dalle loro culture, continuavano a subire violenze nelle case dei signori portoghesi, chiaramente cattolici. Nella casa Grande c’era sempre la cappella dove il prete celebrava saltuariamente la messa, alla quale assistevano i signori, con la famiglia e gli schiavi. E così lentamente, si è formato una sorta di connubio tra potere e religione che ha segnato profondamente il popolo brasiliano e che ancora oggi è possibile cogliere in alcune regioni. Nella prima parrocchia che mi è stata affidata in Brasile, vale a dire Miguel Calmon - una città di trenta mila abitanti divisa in circa settanta comunità ecclesiali di base (CEBs) - ho scoperto, dopo circa un anno d’intenso lavoro pastorale, che negli organismi pastorali principali i coordinatori appartenevano alla massoneria locale. Il sindaco di questa città mi disse un giorno che, per riuscire ad attrarre le simpatie dei cattolici, prima delle elezioni del 1996, gli era stato proposto dal suo gruppo politico – quasi totalmente legato alla massoneria – di diventare il presidente della festa della Patrona: l’Immacola Concezione. Le feste patronali nelle piccole città della campagna arida e secca della Bahia attraggono migliaia di persone. Il candidato a sindaco mi confidò che lui stesso rimase perplesso della proposta, anche perché raramente entrava in chiesa. Chiaramente vinse poi le elezioni a furor di popolo.

 Il Nordest Brasiliano é caratterizzato da una diffusa povertà dovuta sia dal clima semi-arido, una scarsa piovosità che rende difficile il raccolto, sia e, soprattutto, per la classe politica estremamente corrotta che non permette uno sviluppo sociale costante nel tempo, a causa dei forti interessi personali di coloro che si succedono al potere. Non è un caso se il 70% per cento dei sindaci eletti nel Nordest nel 2012 sono medici, sfruttando al massimo il rapporto con i clienti, per la grande maggioranza poveri. In molti casi, poi, l’ospedale principale della città è del medico sindaco, che attende con grande cura i suoi elettori e con molta meno cura chi ha votato contro. Medici che sono spesso e volentieri grandi latifondisti e che entrano in politica per mantenere tutti i privilegi possibili e ostacolare le leggi contro il disboscamento e altre leggi di protezione dell’ambiente. Nelle città dell’interno della Bahia l’unica o quasi fonte di rendita è il Municipio. È, infatti, nelle casse municipali che entrano i soldi di tutti i settori della società, come salute, educazione, infrastruttura e altro. Ciò significa che il sindaco delle città brasiliane detiene un potere enorme e il gruppo che gestisce il potere politico ha accesso ad un bel gruzzolo di soldi. Per questo motivo le elezioni Municipali, che avvengono ogni quattro anni, sono molto disputate. In gioco c’è la sopravvivenza di molti e la ricchezza di pochi. Il gruppo che va al potere garantisce a coloro che l’appoggiano, un lavoro per lo meno per un membro della famiglia. Oltre a ciò, i più scalmanati e fanatici del gruppo sono coloro che, una volta al potere, occuperanno i posti chiave nei settori più importanti dell’amministrazione: educazione, assistenza sociale, infrastrutture, salute, ecc. Questo semplice dato è uno degli indicatori che spiega l’arretratezza culturale ed economica di questa regione. Se, infatti, i posti chiave dell’amministrazione pubblica sono aggiudicati non su base di concorsi, che valutano specifiche competenze, ma sul maggiore o minore servilismo, allora  la possibilità di progettare qualcosa di positivo e a lunga scadenza muore sul nascere. È facile intuire che i politici corrotti vengono sistematicamente eletti dalle fascie povere della società. I poveri non si aspettano nulla dal potere politico: sono abituati a subire e a prendere quello che viene, naturalmente ringraziando per il poco ricevuto.

Come fare a scardinare queste logiche di corruzione? Soprattutto, però: come aiutare i poveri a prendere coscienza della loro miseria culturale e morale, per apprendere a ribellarsi contro ogni forma di umiliazione e sopraffazione? Sono queste le domande che ci hanno guidato per molto tempo alla ricerca di risposte plausibili. Nei gruppi di lettura popolare della Bibbia, svolta sia con i giovani che con gli adulti, abbiamo capito che in un simile contesto non è possibile annunciare il Vangelo senza fare qualcosa per aiutare i poveri a liberarsi dalla schiavitù dei politici corrotti. Siamo così entrati in contatto con il Movimento Fede e Politica, sorto negli anni ’80 in Brasile e molto diffuso in America Latina. La lettura dei testi dei fondatori del Movimento, tra questi Leonardo Boff e Frei Betto, ci ha aiutato a capire l’importanza dell’organizzazione, di uscire dal facile spontaneismo. I corsi di formazione politica sono stati il primo importante risultato di questo lavoro di coscientizzazione. L’obiettivo di questi corsi non era solamente quello di aiutare le persone a riflettere sul significato della politica, ma anche conoscere le leggi del Brasile in materia di corruzione ed organizzarsi per farle rispettare. Modificare costumi radicati da decenni non è facile, soprattutto in regioni come quelle del Nordest brasiliano caratterizzate dall'assenza di vigilanza, di autorità giudiziaria che possa accompagnare dal punto di vista giuridico l’andamento corretto di un’ elezione Municipale con il rispetto delle leggi. Sono questi i motivi che ci hanno condotti a impostare l’ultima parte del corso di formazione alla politica alla costituzione dei comitati cittadini 9840 (è il nome della legge contro la corruzione politica), per controllare l’acquisto dei voti e l’uso della macchina amministrativa. Per poter rafforzare i comitati con persone non compromesse con partiti politici e rendere così, piú trasparente il lavoro, abbiamo presentato la nostra proposta ai giovani nelle scuole.

Riportare il dibattito politico a livello della gente, soprattutto delle persone che stanno soffrendo economicamente di più in questo periodo di crisi, è ciò che abbiamo appreso da queste esperienze in terra brasiliana. I poveri, anche qui in Italia, hanno bisogno di sentire la Chiesa vicino a loro, che cammina al loro fianco. Uscire dai comodi cammini assistenzialisti per incamminarsi sul percorso del buon Samaritano, richiede volontà di conoscere le leggi, di formarsi, do formare e, spesso e volentieri, di lottare contro coloro che non intendono mollare i loro privilegi. 

FEDE E VITA







Riflessioni a partire dal libro di C. Theobald, Trasmettere un Vangelo di Libertá, EDB, 2010

Paolo Cugini

La dimensione politica e sociale della fede è stato il tema che mi ha accompagnato nei circa quindici anni di esperienza missionaria in Brasile. Come dice Theobald la dimensione politica della fede è stata una delle risonanze del Vangelo che ho trovato, ascoltato e accolto nella realtà che ho incontrato. La lettura del Vangelo fatto nelle piccole comunità di base(Cebs), ma soprattutto nei tanti gruppi di giovani incontrati sia nelle comunità della zona rurale che nei quartieri poveri, mi ha mostrato come davvero il Vangelo possa restituire la fiducia nella vita, in quella vita spesso spezzata e maltrattata dalle strutture sociali e politiche di morte. Quante famiglie ho incontrato ai bordi delle strade dei grandi latifondi, vivendo in piccole capanne, lavorando e lottando per anni per conquistare quel piccolo pezzetto di terra che permetterebbe una vita migliore. Quante sofferenze causate dall’arroganza dei potenti di turno che se ne infischiano della dignità delle persone, soprattutto povere, che sistematicamente umiliano, ho dovuto ascoltare, accompagnare. E allora è vero che non c’è vita umana senza fede, soprattutto quella fede che sgorga dalla fiducia nell’altro, nelle persone vicine che diventano compagno e compagne di viaggio, che aiutano a lottare e soffrire insieme per vincere la tentazione di cadere nella disperazione. Quante volte ho incontrato nei volti dei poveri sofferenti la fiducia estrema nella vita, l’aggrapparsi a denti stretti ai brandelli di vita strappati in contesti di grande difficoltà. Credo che sia per questo fatto, e cioè per una dimensione antropologica della fede che è stimolata dalle situazioni di grande precarietà nelle quali le persone incontrate si trovano a vivere, che diviene facile, direi quasi spontaneo accogliere non una qualsiasi fede, ma la fede in Cristo, nella sua proposta, “la fiducia in colui che più di ogni altro riusciva a generare vita nell’altro, a generare fiducia nella vita”.
Il legame tra la vita vissuta, quella vita fatta spesso e volentieri da umiliazioni, ma anche di conquiste e di lotte – penso soprattutto alle famiglie che riuscirono ad ottenere le terre dopo anni passati sotto tendoni o capanne di paglia – e la fede nel Signore della vita è visibile nelle liturgie. Chi partecipa ad una Messa o ad una celebrazione della Parola in una CEB non assiste a qualcosa di staccato dalla vita, ma trova in essa delle chiavi di lettura per il vissuto quotidiano. I canti, le preghiere, i commenti iniziali e conclusivi e poi i balli di ringraziamento: è la via che è celebrata e trasformata nella fede in Cristo, nel Signore della vita. E’ stato in contesti come questo che ho compreso l’importanza della liturgia per la vita, il significato profondo del celebrare per lasciarsi consegnare i contenuti necessari ad affrontare quel quotidiano spesso fatto di umiliazioni e durezze. Liturgia quindi, non come proposta alienante, come fuga dalla dura realtà, ma come chiave di lettura per comprenderla, per cogliere il segno dei tempi più vero ed autentico che abbiamo: la fede nel Signore risorto, presente nei fratelli e nelle sorelle sfigurati dal dolore, dall’umiliazione. Liturgia come forza che la comunità riceve per affrontare la vita e come luce per leggere e interpretare i segni dei tempi.  Sono questi contesti che hanno maturato in me un amore crescente per la Chiesa che, come dice Theobald, “è prima di tutto il luogo concreto, infinitamente sobrio, dell’ospitalità contagiosa”.
Leggere il Vangelo nelle piccole comunità di base e nei gruppi giovani in un contesto nel quale tutti i giorni si tocca con mano l’umiliazione che i poveri subiscono dai potenti, ma soprattutto le dinamiche di dipendenza messe in atto dai sistemi corrotti dei politici locali, mi ha spinto ad impegnarmi nei movimenti sociali, soprattutto quelli di lotta contro la corruzione. La realtà ascoltata e interpretata nelle piccole comunità di base alla luce del Vangelo ci ha condotto a fare delle scelte, a decidere di fare qualcosa per tentare di rompere le dinamiche di morte messe in atto dai sistemi politici corrotti. L’impegno nel Movimento Fede e Politica, sorto negli anni Ottanta in Brasile e diffusosi rapidamente in tutti i paesi dell’America Latina, ci ha permesso di trovare argomenti e mezzi per sostenere le nostre lotte. Ricordo la settimana di esercizi spirituali fatta con un gruppo di trenta persone meditando sui testi dei profeti, scoprendo assieme il loro coraggio e, allo stesso tempo, il desiderio i riprodurlo nel nostro contesto sociale. Cosa che poi di fatto è avvenuta quando, scoprendo le leggi contro la corruzione elettorale approvate nel 1999 dopo una campagna promossa dai settori sociali della Chiesa Cattolica, ci siamo impegnati per farla conoscere e, poi per metterla in pratica.
Theobald mette in evidenza lo scollamento in atto nel contesto di scristianizzazione dell’Occidente tra la fede in Cristo e il tessuto sociale, scollamento che si manifesta nell’incapacità dei cristiani di essere fermento nel mondo, come auspicava il Concilio. Forse i cristiani stanno pagando il prezzo di una fede nel Signore, che non ha saputo produrre cammini di profetismo, di denuncia contro i sistemi corrotti e i mercanti di morte responsabili delle continue crisi economiche e, di conseguenza, delle migliaia di poveri che aumentano anche nel mondo Occidentale. Una comunità cristiana che non denuncia, ma al contrario, che per non perdere i propri privilegi economici derivati dal Concordato, rimane in silenzio o, peggio, che appoggia più o meno velatamente dei governi pieni zeppi di politici corrotti, che spesso e volentieri sono degli autentici avanzi di galera, non può pretendere granché. La scristianizzazione denunciata da Theobald, ma che in Francia era già denunciata e analizzata dal grande poeta e filosofo Charles Péguy all’inizio del secolo scorso, è anche il frutto di un modo di essere presente nel mondo. Quando si preferisce andare a braccetto con il potere per aver una contropartita in denaro o per contare qualcosa nella società, non si può pretendere poi di essere segno profetico, stimolo per le nuove generazioni. Lo svuotamento delle chiese e l’insignificanza sempre crescente della Chiesa nel nuovo contesto culturale è, a mio avviso, il vero segno dei tempi che dev’essere interpretato per cambiare decisamente rotta. Non si può perpetuare per sempre un modello che non funziona. Se l’epoca della cristianità è finita e, grazie a Dio, non tornerà più, ciò significa che è ora più che mai di prendere un’altra strada. Forse è per questo che l’attuale Papa Francesco piace così tanto, soprattutto a coloro che sono fuori dalla Chiesa, o che se ne erano andati per i motivi sopra descritti.
 Il “metodo dell’assenza”, come lo chiama Theobald, vale a dire l’assenza di un cammino spirituale dettato dal Vangelo, può forse provocare il desiderio di qualcosa di più autentico ed evangelico. Come c’insegna il detto popolare: non tutto il male viene per nuocere. A meno che non siamo recidivi e continuiamo a farci del male.


martedì 24 febbraio 2015

LO SGUARDO DEGLI ALTRI







Paolo Cugini

Lasciarsi guardare significa accettare di essere interpretati in modo diverso e poi farsi restituire il contenuto di questo sguardo. Lasciarsi guardare, non chiaramente a livello estetico, ma accettare la narrazione dell’altro su di me, il suo modo di vedermi, di considerarmi, di pensarmi. Prendere sul serio la narrazione altrui su di me, sulle cose che ho sempre visto allo stesso modo: è un cammino di maturazione. Accettare, accogliere lo sguardo dell’altro significa accettare che non c’è solo il mio sguardo, la mia interpretazione, ma che esistono una pluralità d’interpretazioni. Lo sguardo dell-altro come necessità per cogliere la verità su me stesso, per uscire dalle auto certezze, le autoaffermazioni, che non sono altro che delle chiusure, delle dichiarazioni implicite di non voler cambiare. L’altro mi coglie in modo differente di come mi vedo, coglie spesso e volentieri quegli aspetti che non vedo di me stesso, che nascondo a me stesso, perché forse mi fanno male. L’altro, in questa prospettiva, diviene una minaccia alle mie certezze, a ciò che con fatica ho conquistato su me stesso, a quegli equilibri interiori che mi permettono di difendermi dagli altri, dagli sguardi indiscreti degli altri. Soprattutto, però, lo sguardo dell’altro diviene una possibilità di crescita, una possibilità di svolgere un cammino nuovo, che va colto per non rischiare di morire soffocati nelle proprie certezze e ingabbiati sulle nostre identità asfittiche.

 La pluralità d’interpretazioni, poi, non conduce immediatamente sul cammino del relativismo, come solitamente si pensa. Pluralità di opinioni, di modi di vedere lo stesso oggetto, non significa negare la verità oggettiva, ma significa affermare che la verità è tale perché non può essere afferrata da un’unico sguardo, da un’unico punto di vista. La verità è tale perché è plurale. Non si tratta di negare il proprio punto di vista per accogliere quello dell’altro, ma di mettere i vari punti di vista uno accanto all'altro. E poi non si tratta di fare una sintesi, di prendere il meglio di ogni punto di vista o le differenze dei punti di vista. Si tratta di ascoltare, di porre accanto. Per questo il principio di non contraddizione non funziona nel cammino di comprensione della realtà e della verità. Certamente in una cultura come quella Occidentale che si è affermata sull’auto-convinzione del proprio modo di vedere, sulla garanzia assoluta della propria narrazione, sul modo arrogante di porsi nei confronti delle altre culture, non ha molta sensibilità nei confronti degli sguardi diversi, perché li considera inferiori e, spesso e volentieri, ridicoli, insignificanti. Questa arroganza culturale, che si spinge su tutti i piani, incide molto anche nella formazione delle persone. Facciamo fatica non solo a metterci nei panni degli altri, ma anche ad accettare la narrazione dell’altro, perché la riteniamo inferiore e, per questo motivo ci sentiamo in diritto d’imporre la nostra, il nostro sguardo. C’è tanta violenza nelle nostre relazioni quotidiane perché siamo stati formati (o sformati?) a sentirci superiori, a scartare a priori la narrazione di coloro che la nostra cultura ritiene inutile e inferiore. Il problema, a questo punto è sapere e capire se siamo condannati dalla nostra arroganza o se abbiamo ancora una possibilità di uscire dalla gabbia culturale che ci condanna al narcisismo e, di conseguenza, alla solitudine.

lunedì 23 febbraio 2015

SOSPINTO DALLO SPIRITO








Paolo Cugini

Si dice spesso che dell'adolescenza e della gioventù di Gesù non si sa nulla e che soprattutto i vangeli non riportano nulla. E' vero fino a metà. Senz'altro non c'è scritto nulla di esplicito, ma ci sono diversi indizi. Uno di questi lo si trova, ad esempio, proprio all'inizio del Vangelo di Marco dove si dice che Gesù fu sospinto dallo Spirito nel deserto.  Come fa un uomo ad essere sospinto dallo Spirito se prima non si è preparato a ciò, se prima non ha fatto tutta una serie di scelte che permettesse allo Spirito di sospingerlo, di guidarlo? Ci devono essere stati anni di ricerca di Dio, settimane intense di ricerca dello Spirito, seguite da giornate d'intensa preghiera. E poi, sempre per lo stesso motivo, ma dalla parte opposta, ci devono essere state nell'adolescenza di Gesù e ancor di più nella sua giovinezza tutta una serie di no a quella vita materiale, a quelle proposte materiali che non si conciliavano con lo Spirito che stava accogliendo dentro di sé.

Nel deserto. Lo Spirito sospinge Gesù nel deserto. Ma perché, potremmo obiettare noi, proprio nel deserto se vi è appena uscito, se ha appena trascorso tutta l'adolescenza e la giovinezza immerso nel silenzio? E allora perché appena mette piede nel mondo, appena inizia la sua così detta attività pubblica, subito dopo, il minuto successivo, l'istante seguente, lo Spirito lo sospinge da dove era appena uscito, vale a dire il deserto? Perché lo sappiamo  bene che chi ha Dio nel cuore non riesce a staccarsene e allora lo va a cercare là dove l'ha trovato, vale a dire nel silenzio. E' vero che Dio è dappertutto, ma è fuori discussione che lo si trova in modo speciale nel silenzio. E allora l'essere sospinto dallo Spirito nel deserto significa che lo Spirito ci conduce là dove c'è l'amore, la dove c'è il nuovo modo di rapportarsi con Dio che Gesù ha inaugurato, una relazione figliale, che è una relazione d'amore.

Gesù nel deserto non solo incontra l'amore del padre ma è tentato da satana. Certamente non è Dio che tenta il Figlio, come una certa tradizione ci ha insegnato. La tentazione fa parte della dinamica esistenziale di tutti coloro che hanno scelto il Signore, di tutti coloro che si sono decisi in modo definitivo per Lui. Certamente chi non sceglie nulla non è tentato da nulla. Gesù è un pezzo d'umanità come il nostro che però non è stato piegato da satana. Il senso della vita spirituale e dell'azione dello Spirito Santo in noi ha come obiettivo quello di farci divenire delle persone resistenti al male, che non si piegano, ma rimangono in piedi, come il Signore. Bella è l'immagine del libro dell'Apocalisse che descrive Gesù come l'Agnello sgozzato che sta in piedi di fianco al trono di Dio. E' sgozzato, segno della lotta cruenta con il mondo del male, ma in piedi. Il rimanere in piedi non è un semplice sforzo umano, una capacità umana, ma un dono dello Spirito.

E' bene ricordarci e ripeterci questo dato spirituale. La forza e la resistenza al male non sono qualità umane, ma doni dello Spirito. Chi conta sulle proprie forze è destinato a farsi spezzare. La vita spirituale, in questa prospettiva, non è una prova di forza ma, al contrario, un farsi docili, un fare spazio all'azione dello Spirito. Può sembrare la stessa cosa o un semplice gioco di parole, ma non lo è. E' l'esperienza che ce lo insegna. Nel cammino della vita cristiana apprendiamo a non cadere quando con umiltà ci siamo rialzati molte volte e abbiamo imparato ad affidarci al Signore. Non è santo chi non cade mai, ma chi si lascia rialzare dal Signore. Per questo Lui è venuto al mondo per indicarci il metodo, il cammino da compiere per diventare resistenti al male. Ciò significa che dobbiamo stare lontani dai puri, da coloro che pensano di non essere mai caduti per le loro virtù, che pensano che la santità sia un gioco di resistenza, che s'identifichi nel non fare, nel non toccare in altre parole, nel non vivere. Gesù ci chiama alla vita e questa passa nel fare spazio al suo Spirito, nel fidarci di lui, nel lasciarci leccare le ferite, senza volerle nascondere, rinchiudendoci in atteggiamenti ipocriti e meschini. Fuggiamo allora il giudizio sprezzante dei giusti di questo mondo, per gettarci tra le braccia della misericordia del Signore nella certezza che solo l'amore vince il male.

martedì 17 febbraio 2015

LA SOLITUDINE CHE UMANIZZA






Paolo Cugini

Non sempre ci pensiamo, ma c’è una solitudine che fa bene all’anima, che è necessaria alla nostra esistenza. Certamente c’è tutta una solitudine che ci fa male, che può aprire il cammino alla disperazione e alla frustrazione, ma ce n’è un’altra che, al contrario, può aiutarci a definire meglio la nostra esistenza, il nostro cammino. Per comprendere meglio ciò che intendo dire prendiamo come punto di riferimento un brano di Vangelo: Mc 1, 43s. Questo testo presenta una specie di dittico, due figure che vivono la stessa situazione esistenziale della solitudine, ma in maniera opposta. Da una parte, infatti, troviamo il lebbroso, che vive la solitudine per costrizione e, dall’altra, Gesù che la vive per scelta. Il lebbroso vive la solitudine come conseguenza del suo stato d’impurità. Dice, infatti, il libro del Levitico: “Sarà impuro finché durerà in lui il male; e impuro se ne starà solo, abiterà fuori dall’accampamento” (Lev 13, 46). Il lebbroso potremmo indicarlo come il simbolo di tutte quelle situazioni di solitudine causate dal contesto sociale e culturale nel quale si vive, la cui tipologia è in continuo cambiamento. 

Ci sono solitudini che nascono dalla difficoltà d’inserirsi nel contesto sociale, o altre che si producono per la difficoltà ad entrare nei meccanismi competitivi. Forse, però, le solitudini che più feriscono e che lasciano profonde tracce nell’anima sono quelle che nascono dai sentimenti o dalle passioni. Quante persone separate vivono il dramma di una solitudine non voluta e non cercata e si trovano sole a causa della decisione del partner. Quante persone, poi, non riescono a trovare la persona con la quale condividere la propria esistenza. Non è facile uscire da queste solitudini. C’è la solitudine degli anziani, delle persone chiuse nei meccanismi del vizio, o a causa della condizione economica precaria. La società Occidentale si è costruita attorno a dei parametri di appartenenza molto rigidi, parametri culturali ed economici che tendono a creare costantemente nuove solitudini. Certamente dietro a tante solitudini ci sono responsabilità personali, scelte non fatte, paure e chiusure. In ogni modo, chi entra in un percorso di solitudine fa fatica a vivere serenamente e a venirne fuori.

Dall’altra parte c’è Gesù che viene dalla solitudine dell’adolescenza e della giovinezza e la cerca continuamente durante gli anni della sua attività pubblica. Per Gesù la solitudine non è un peso o una condanna ma, al contrario, una necessità. La cerca per ascoltare il Padre. E’ questo che lo riempie: l’amore del Padre. Lo vediamo nei momenti sia di grande successo per le opere realizzate, che nei momenti di tensione con i capi religiosi cercare luoghi isolati per consegnarsi alla preghiera. Per Gesù la ricerca della solitudine, lo stare da solo significa soprattutto questo: preghiera. La preghiera per Gesù si realizza nel dialogo con il Padre. E allora Gesù cerca la solitudine per stare da solo con il Padre, per riempirsi del suo amore. Gesù, quindi, non cerca la solitudine per fuggire dagli altri o dal mondo, ma per starci con qualcosa di significativo, per poter stare nel mondo con gli altri non in modo superficiale, ma pieno di significato. 

Il lebbroso sembra accorgersi di questa pienezza che emana la persona di Gesù, per questo si rivolge a Lui. Gesù non tratta il lebbroso come un ammalato da curare, ma come una persona da liberare. Si tratta, infatti, di una persona resa impura dal contesto sociale e religioso, situazione che di fatto lo ha isolato, rinchiuso dentro una solitudine. Che cosa fa Gesù per liberarlo? Prima di tutto lo ascolta, un ascolto che provoca il sentimento di compassione che penetra fin dentro la sua anima sino a condurlo verso di lui, per toccarlo e condividere la sua sofferenza. In questo modo Gesù riesce a consegnare al lebbroso una parola che lo libera, che lo rimette in piedi, che gli dona il coraggio di stare nuovamente assieme agli altri e, così, realizzare pienamente la sua umanità. 

Questa relazione profondamente umana tra Gesù e il lebbroso, relazione così umana e profonda che si trasforma in cammino di liberazione, è quello che la tradizione ha chiamato miracolo. Rifugiarsi nel miracolismo, nell’inusitato è una fuga spirituale per non assumere le proprie responsabilità nei confronti delle sofferenze del mondo. Il miracolismo esasperato diviene un modo per esigere l’intervento soprannaturale di Dio là dove Lui steso desidera che siamo noi ad intervenire. Del resto, che uomini e donne siamo, se non riusciamo a metterci in sintonia con le persone che soffrono, se non sappiamo ascoltarle, condividerne i dolori? La preghiera è autentica quando ci umanizza, quando cioè ci rende tali da condividere le sofferenze delle persone che ci sono vicine per potere consegnare loro una parola di salvezza. Parola che riceviamo dall’alto e che ci aiuta a reinterpretare la nostra esistenza, il nostro vissuto quotidiano affinché possa sempre di più assumere un significato nuovo. E’ la Parola di Dio il dono che ci aiuta ad umanizzarci, ad uscire dai cammini di morte che quotidianamente incontriamo in noi ed attorno a noi; è questa Parola che ci offre lo strumento per dare significato alle scelte che facciamo, un orizzonte entro il quale muoverci. E’ questa Parola che Gesù offre al lebbroso, non un semplice versetto, ma una Parola che riesce a mettersi in sintonia con il vissuto del lebbroso, anche perché Gesù prima di consegnargli la Parola si mette in cammino verso di Lui. 

E’ di queste parole che abbiamo bisogno. Sono queste parole che i cristiani dovrebbero saper dire al mondo, per quel cammino di umanizzazione che il Signore è venuto ad iniziare e che lo Spirito Santo continua ad operare dentro la storia. Questo cammino comporta l’abbandono degli spiritualismi disincarnati per abbracciare un cammino di fede più responsabile con se stessi e con il mondo che ci circonda.

lunedì 9 febbraio 2015

PERCHE' AGLI ADOLESCENTI NON PIACE LA MESSA?





Paolo Cugini

Ho incontrato in queste prime settimane di parrocchia italiana, vari educatori di gruppi del post cresima e spesso e volentieri hanno condiviso una difficoltà, vale a dire, la disaffezione dei ragazzi alla messa. L’altro giorno una mamma mi chiedeva su facebook alcuni consigli per convincere suo figlio adolescente ad andare a messa. Il problema non è di facile soluzione e pone interrogativi sia sul modo d’intendere la messa, sia sul percorso di formazione religiosa da compiere con gli adolescenti. Si capisce allora, che agli adolescenti non è vero che non gli piaccia andare a messa: gli fa proprio schifo!

La messa, nell’educazione religiosa de bambini, è spesso e volentieri rivestita di una serie di ricatti morali che gli adolescenti non accettano più. I genitori obbligano i propri figli ad andare a messa. Quante volte assistiamo alla pessima scena dei genitori, o di uno dei due, che arriva in macchina davanti alla chiesa e “scarica” letteralmente il proprio figlio per andare alla messa. E’ chiaro che, se la messa è presentata tra le pareti di casa come un dovere, un obbligo legato alla possibilità poi di ricevere i sacramenti, terminato l’itinerario obbligatorio termina anche la frequenza alla messa. Non è il contenuto che è rifiutato, ma le motivazioni esterne per “convincere” i figli a frequentare le messe domenicali. Un genitore trasmette contenuti e valori ai propri figli molto più con i gesti che con le parole. Se scarica il proprio figlio alla domenica davanti alla chiesa quel genitore sta comunicando che per lui la messa non vale nulla. E così il figlio che per anni è stato scaricato davanti alla chiesa, appena potrà non metterà più piede in quello spazio. Sappiamo bene che questo fenomeno avviene non solo per i ragazzi di genitori non credenti, ma anche di genitori assidui alla Chiesa. In questo caso la situazione è ancora più pesante perché si riveste di sensi di colpa. Se, infatti, i genitori non credenti se ne infischiano se i propri figli, dopo aver ricevuto il sacramento della cresima, non frequentano più la parrocchia, ben differente è la situazione dei genitori credenti, che non si danno pace quando i propri figli cominciano manifestare segni d’insofferenza con il mondo religioso. 

Il problema del rapporto trai ragazzi e i riti religiosi va ricercato più a monte. La proposta religiosa esige la libertà. Quando Gesù chiamava i suoi discepoli proponeva un cammino con un messaggio e non obbligava nessuno. Non si può legare, oggi più che mai, la proposta del Vangelo con il percorso scolastico. Non si può obbligare nessuno a credere in Dio, tanto meno un bambino. Questo a mio avviso è il centro del colossale paradosso religioso che la nostra epoca sta vivendo. La psicologia della religione c’insegna che il bambino è predisposto a cogliere Dio nella propria vita. Anche la filosofia della religione c’insegna che l’uomo e la donna sono ontologicamente religiosi. Se negli adolescenti sorge un dissapore con la chiesa e un’opposizione a Dio, ciò va cercato nel modo di comunicarlo. Sembra che ce la stiamo mettendo tutta per distruggere il naturale sentimento religioso dei ragazzi. Il dato drammatico è che coloro che stanno compiendo questa operazione scellerata siamo proprio noi che crediamo in Dio.  Se, ad un certo punto del cammino, Dio non è colto più come amore, come necessità intrinseca, ma come una cosa pesa e inutile, significa che qualcosa non è funzionato nel modo di accompagnare i bambini nel mistero di Dio.
Negli spazi parrocchiali, nei quali dovrebbe avvenire l’accompagnamento ai percorsi di fede a tutti i livelli, stiamo impartendo un insegnamento forzato, sapendo che (le statistiche ce lo ricordano tutti i giorni), terminato il cammino dell’iniziazione cristiana la stragrande maggioranza non metterà più piede in chiesa. Se questo modello catechistico poteva funzionare nei decenni passati, oggi non funziona più. La domanda che emerge immediatamente è la seguente: se lo sappiamo perché continuiamo a farlo? Se da decenni sappiamo che i ragazzi terminata la Cresima abbandoneranno la chiesa, perché continuiamo a proporre la proposta di Gesù in questo modo? Non sarebbe meglio cambiare modalità? Ci vuole così tanto a capire che è l’ora di cambiare? 

 Se siamo convinti che l’epoca della cristianità è finita, allora bisogna accompagnare questa presa di coscienza con scelte pastorali all’altezza dei tempi. Se dei genitori non credenti si sentono in dovere di costringere i loro figli a partecipare della messa domenicale e dei percorsi di catechesi, è perché la fede più che essere una risposta personale ad un appello, è un fenomeno collettivo, sociale. E allora, pur di far sentire i propri figli socialmente “normali”, i genitori non credenti o agnostici o indifferenti, si sottopongono a sette/otto anni di lavori forzati accompagnando i propri figli nei perimetri ecclesiali. Fino a quando i preti, i catechisti saranno costretti a perdere tempo per sorreggere questa barca di carta che fa acqua da tutte le parti? Fino a quando le parrocchia dovranno continuare ad offrire i servizi educativi più disparati pur di attrarre nei propri perimetri i ragazzi, che entrano in questi benedetti perimetri a fare tutto fuorché l’essenziale (religiosamente parlando)? Fino a quando dovremo continuare a sforzarci ad inventare qualcosa per attrarre bambini e ragazzi su qualcosa che poi abbandoneranno? Fino a quando dovremo mantenere in piedi un sistema catechistico per garantire qualcosa che sappiamo sin dall’inizio che non avrà seguito? 

Come sarebbe bello vivere l’esperienza del Vangelo come una proposta libera. Forse non ci sentiremmo stressati dal dovere costruire e poi di riempire spazi, anche perché forse capiremmo che il messaggio di Gesù andava esattamente dalla parte opposta.