giovedì 8 gennaio 2015

LA CARITA' CHE UMILIA



Riflessioni sul nostro rapporto con i poveri

 Paolo Cugini


Introduzione
 Pensare la carità a partire dai poveri, ascoltando il loro punto di vista, sforzandosi di guardare la storia dalla loro finestra: è l’indicazione di un percorso possibile da intraprendere. E allora forse si scopre che della nostra così detta carità, dei nostri aiuti, per lo meno così come li intendiamo noi, che spesso e volentieri si fermano allo stato di elemosina, i poveri non sanno cosa farsene, anzi a volte sono inutili o addirittura dannosi. Non ce lo dicono, anzi ci fanno dei sorrisi simpatici, perché sanno che gli Occidentali si alimentano di sorrisi di gratitudine. Siamo contenti quando facciamo del bene, soprattutto a persone che vivono distanti da noi. Per questo preferiamo avere un rapporto costante mensile con qualcuno che vive migliaia di chilometri lontano da noi, piuttosto che dare un po’ di attenzione (costa zero euro) a chi ci sta vicino.   Gesù ci ha insegnato a farci prossimi, ad avvicinarci, a metterci nei panni di coloro che incontriamo. Gesù ci ha insegnato a vedere nel prossimo non un oggetto per un possibile soddisfacimento del nostro orgoglio cristiano, ma una persona. Senza questo sforzo empatico si rischia di riprodurre modelli colonizzatori, di traferire sui poveri le nostre parziali e arroganti visioni del mondo, di costruire fantomatici progetti sociali con soldi che non ci costano nessuna fatica e pretendere che i poveri ci dicano grazie. E poi ci arrabbiamo se questo non avviene. Entriamo nel loro mondo e pretendiamo di aiutarli come ci pare a noi, spesso e volentieri senza fare un minimo sforzo di ascolto, per lasciarci consegnare i reali problemi e pretendiamo anche di essere ringraziati. Ci offendiamo quando il nostro buonismo non è riconosciuto. Facciamo i capricci e mettiamo il muso.  La mentalità di colonizzatori, anche spirituali, ci accompagna continuamente.

Necessità di azioni deponenti nei percorsi caritativi
 Apprendere a vedere il mondo a partire dall’altro esige tempo. Non basta una visita estiva di qualche settimana o di qualche mese: esige anni. Spesso però, non bastano neanche gli anni. Quanti missionari vivono in missione con uno stile di vita europeo (per non parlare del doloroso tema delle case religiose)[1]. Mettersi nei panni dell’altro esige, infatti, la disponibilità a percorrere un cammino di morte culturale e spirituale. Per accogliere l’altro con il suo mondo è necessario essere disposti all’ascolto e questo esige spazio nella nostra mente e nella nostra anima. Senza questa disponibilità di mettersi in discussione, di farsi mettere in discussione da coloro che incontriamo diventa difficile un processo di conoscenza autentico. Questo è forse l’aspetto più problematico che può nascere solamente da una persona che si mette alla sequela del Signore. E’ un aspetto problematico perché c’è nell’uomo Occidentale, nel suo DNA culturale una sorta di arroganza culturale che lo fa sentire superiore e, questa superiorità si traduce nel bisogno di aiutare le persone di altre culture ad assimilare i valori Occidentali. Questo sentimento di superiorità lo si nota non solo a livello macro, e cioè nei rapporti internazionali tra Paesi del così detto primo mondo a contatto con i Paesi poveri o in via di sviluppo, ma anche ad altri livelli. Credere che un povero possa dirci qualcosa, possa insegnarci qualcosa è forse al di là delle nostre capacità umane e spirituali. Diciamo a parole che siamo tutti uguali, ma nei fatti da come ci comportiamo, dal modo nel quale pensiamo di aiutare, ci sentiamo superiori, con un diritto indiscutibile a insegnare al mondo dei poveri come si vive.  Porre accanto ai poveri delle azioni deponenti, nelle quali facciamo loro spazio, ci mettiamo da parte, freniamo il nostro istinto di dover dire a tutti che cosa c’è da fare, per permettere ai poveri di parlare, d’indicarci il cammino da compiere[2]. Azioni deponenti che richiedono un’educazione all’ascolto, a costruire assieme percorsi, a valorizzare il contributo degli interlocutori. Azioni deponenti che sgorgano dal Vangelo, dallo stile di Gesù, dalla capacità di coinvolgere gli altri, di mettere in condizione gli interlocutori di ascoltarsi. Riesce a realizzare azioni caritative deponenti solamente colui che ha il desiderio nel cuore di aiutare i poveri che incontra ad uscire dalla loro situazione d’indigenza. Mettere in pratica queste idee nei percorsi caritativi aiuterebbe a non compiere errori di prospettiva, a liberarci dall’obbligo di dover sapere ciò che non sappiamo e non possiamo sapere, vale a dire il bisogno reale di chi ci sta accanto.
L’incontro con l’altro quando è autentico e cioè quando intende cogliere la novità di colui che s’incontra, deve poter provocare uno spazio interiore, una disponibilità ad accogliere la novità. Non basta fare del bene per essere buoni: dipende come lo facciamo. C’è, infatti, un bene che umilia, una carità che invece di produrre il bene incentiva cammini di morte. Pensiamo di fare il bene, mentre in realtà facciamo il male. Ci sentiamo interiormente bene perché abbiamo fatto l’elemosina ad un povero o pagato la quota dell’adozione a distanza, e invece abbiamo contribuito a sostenere sistemi corrotti. Possono sembrare affermazioni assurde e contraddittorie, ma in realtà non sono nient’altro che riflessioni sorte da anni di esperienza sul campo. Ci siamo abituati a spacciare per carità qualcosa che carità non è, per lo meno quella ispirata dal Vangelo di Gesù. Quanta gente si nasconde dietro Cristo per fare e coltivare i propri interessi che, spesso e volentieri, sono loschi! E’ importante ogni tanto fermarsi per verificare il senso dei gesti che facciamo, anche quelli in apparenza buoni.

Le testimonianze di Dambisa Moyo e de June Arrunga
Quanti progetti sociali realizzati nei paesi poveri, gestiti anche da entità legati alla Chiesa, sono marcati da una dipendenza radicale dai soldi che vengono da fuori, cioè dall’Occidente. Se i progetti sociali che sono messi in piedi dall’Occidente nei paesi poveri, non stimolano la collaborazione del potere locale e il coinvolgimento diretto dei poveri, sono dannosi perché creano dipendenza. Divengono, infatti, un incentivo di quegli stessi meccanismi di dipendenza messi in atto dai sistemi assistenzialisti dei politici corrotti, che si servono di ciò per mantenere i poveri alle loro dipendenze. E allora ecco il paradosso: facendo la carità collaboriamo nel mantenimento di sistemi corrotti. La giornalista africana Dambisa Moyo, nel suo famoso libro: La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo Mondo (Rizzoli, 2009) sostiene, con una ricca documentazione che, chi ha devastato e impoverito l’Africa sono stati gli aiuti così detti umanitari. Tante donazioni umanitarie, sostiene la Moyo, vanno a finire nelle mani dei governi corrotti, incentivando in questo modo, i sistemi politici di corruzione. Questi aiuti hanno solo contribuito alla diffusione di uno stato di perenne dipendenza alimentando corruzione, violenza il cui obiettivo, sempre secondo l'autrice, non è aumentare la consapevolezza di ciò che provoca la fame e la povertà, ma "lisciare il pelo" all'emotività superficiale che porta all'elemosina[3]. La Moyo critica anche gli accordi bilaterali che permettono trasferimenti miliardari o attraverso la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale. Sessant’anni di politiche finanziare scriteriate hanno inondato l’Africa di denaro creando una classe politica inefficente e incompetente, abituata ad adagiarsi sul denaro facile proveniente dalle istituzioni Occidentali. Secondo la Moyo gli aiuti provenienti dai singoli stati occidentali o dalla longa manus del capitalismo occidentale, hanno soffocato sul nascere la possibilità di favorire lo sviluppo agricolo o una classe di piccoli e medi imprenditori locali, diventando così gli aiuti stessi la principale causa della tragedia africana[4]. Anche la giornalista keniota June Arunga, nel suo documentario "The Devil's Footpath”, aveva mostrato come all'origine del sottosviluppo vi sia la corruzione delle élites locali, l'opacità dei diritti di proprietà, l'assenza di ruleof law e l'abbondanza di barriere poste al libero operare dei mercati[5]. Le cifre, sostiene il giornalista Waldemariam Abdé, le danno ragione, stando ai dati più recenti. Gli aiuti - che costituiscono il 15% del PIL nell'Africa subsahariana - anziché convergere in progetti di responsabilizzazione delle Istituzioni locali hanno troppo spesso finito per innescare uno sciagurato circolo vizioso: alimentano la corruzione, la deptocrazia, le guerre civili che rafforzano i regimi dispotici scoraggiano gli investimenti, inibiscono la classe imprenditoriale autoctona, incrementano l'inflazione e creano dipendenza e povertà, rendendo indispensabili ulteriori aiuti. Ogni anno l'Africa brucia 20 miliardi di dollari per rimborsare il debito estero e oltre 150 miliardi sono inghiottiti dalla dilagante corruzione. Come giustamente sostiene lo scrittore indiano Zakaria Fareed, nessun paese al mondo è mai riuscito a ridurre i livelli di povertà e a sostenere la crescita economica grazie agli aiuti[6].

 Tutto ciò avviene per il modo d’intendere la carità, così come si è formato nella cultura Occidentale, e cioè come un gesto che soddisfa principalmente il nostro egoismo, che mette a posto le nostre coscienze, più che un effettivo aiuto alle persone povere. È più facile, infatti, dare dei soldi a chi non si conosce e non si fa il minimo sforzo per conoscere, che mettersi in ascolto di colui o colei che chiede un aiuto. C’è una carità, che carità non è, perché invece di liberare l’uomo e la donna li rende e li mantiene nella schiavitù.  Ci sono degli aiuti umanitari, c’insegna Dambisa Moyo, che in realtà sono disumani, perché incentivano percorsi di disuguaglianza, mantengono i sistemi di corruzione, lasciano milioni di persone in situazione di estrema indigenza e tutto questo in nome della carità. Si potrebbe obiettare che chi dona dei soldi per i poveri spesso no sa dove vanno a finire. È proprio questo il problema. A cosa serve una carità che non s’interessa di colui che la riceve? A che cosa servono i sostegni a fantomatiche agenzie umanitarie che spesso e volentieri diventano complici dei governi corrotti, o che utilizzano la maggior parte delle donazioni per le spese interne? È necessario, allora, per noi cristiani, ritornare all’insegnamento di Gesù, sfogliare il Vangelo per ascoltare la sua Parola, cogliere quello che potremmo definire il suo metodo di approccio con i poveri, approccio che non umiliava, ma al contrario, animava le persone incontrate e le stimolava a sollevarsi dalla situazione d’indigenza nelle quali si trovavano.

Il metodo di Gesù
La carità che viene da Dio e che, in modo speciale, si è manifestata nella vita di Gesù Cristo, è gratuita e si avvicina all’altro come cura. Gesù quando cura qualcuno nel Vangelo lo rialza, gli permette di alzarsi e camminare con le proprie gambe e così continuare il cammino da solo. La carità di Gesù non schiaccia il povero nella sua povertà, ma gli permette di uscirne. La carità che scaturisce dallo Spirito del Signore non genera dipendenza. Lo si vede molto bene nella parabola del buon samaritano (cfr. Lc 10, 29-37). La compassione é il prodotto di un vedere che mostra attenzione per l’altro. La compassione del samaritano, che é agli antipodi della pena, si manifesta in un movimento di avvicinamento, di una serie di gesti che rendono visibile il desiderio di riportare il povero sfortunato incappato nei briganti e malmenato, alla situazione di autonomia. Il denaro che il samaritano offre all’albergatore, avviene dopo tutta una serie di gesti che, come abbiamo visto, manifestano cura, attenzione, in altre parole: amore. In questo breve passaggio del Vangelo diviene evidente che il denaro in sé e per  non risolve il problema dell’indigenza. É necessario un vedere il povero e non solo un passarci vicino. Un vedere che provochi l’interessamento all’altro, un cammino di reciprocità, che ci metta in condizione di condividere il tempo, l’intelligenza per capire che cosa occorre fare e poi, anche ciò che abbiamo di materiale. La condivisione materiale dev’essere sempre preceduta dalla compassione con l’altro, da un cammino di empatia con chi soffre, altrimenti l’incontro con il povero si riduce alla pena.  Gesù tutte le volte che entra in contatto con il povero è mosso dalla compassione, che è il contrario del sentimento di pena. Mentre, infatti, il sentimento di compassione ha come centro d’interesse l’altro nella sua situazione di povertà e s’interessa per farlo uscire da questa situazione, il sentimento di pena è centrato su se stesso. Chi è mosso da un sentimento di pena non è interessato a risolvere il problema dell’indigente, ma a soddisfare un bisogno personale, che nel caso in questione significa mettere a posto la propria coscienza compiendo un gesto immediato con scarsissime conseguenze sul futuro. C’è tutto un modo di fare carità che dice chiaramente da che percorso spirituale veniamo.
C’è un altro testo che ci può aiutare a colgiere il metodo di Gesù nel suo relazionarsi con i poveri. È il famoso testo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Con i poveri non si scherza, quando li si incontra non li si può semplicemente imbambolare con delle parole, ci vuole del pane, cioè bisogna inventare qualcosa. Questi versetti del vangelo di Matteo (14, 13-21) insegnano che il cammino che i cristiani percorrono per aiutare i fratelli e le sorelle più poveri non è lo stesso di quello che percorre il mondo. C’è un metodo che è differente. Da una parte, allora, non si può stare con le mani in mano dinanzi a tante situazioni di miseria; dall’altro l’azione sociale che il cristiano è chiamato a realizzare procede in un modo tutto speciale. Difatti, se il mondo entra nel mondo dei poveri dando le cose, il cristiano, sull’esempio di Gesù, se le fa consegnare. C’è da compiere un lungo cammino d’ incarnazione, che è allo stesso tempo un cammino di morte, per farsi consegnare dagli stessi poveri, il pane da spazzare con loro, per restituirglielo benedetto. Il mondo entra nelle realtà dei poveri con l’arroganza di colui che sa già tutto e che tutto deve dare e insegnare. Noi cristiani dovremmo entrare nel mondo dei poveri così come Gesù ha fatto con noi, e cioè in silenzio, aspettando molto tempo prima di dire una Parola e rivestire continuamente di silenzio questa parola. Se il mondo entra con arroganza nel mondo degli altri non ascoltando nessuno e credendo che ogni proprio gesto, ogni proprio dono sia il giusto necessario che i poveri stanno aspettando e che quindi devono senza dubbio ringraziare, il cristiano al contrario entra nel mondo dell’altro in punta di piedi, mettendosi in ascolto, per cercare di aiutare il povero ad aprirsi, a consegnare i suoi problemi e da quel punti di partenza, iniziare a rispondere. La relazione con i poveri deve precedere la materialità delle cose da dare. Può essere un discorso semplicistico, ma corrisponde alla realtà che Gesù ha indicato. Certamente la relazione come priorità non significa che dobbiamo esaurire il nostro rapporto con i poveri nelle chiacchiere. In ogni modo Gesù c’insegna che tutto dev’essere preceduto dall’attenzione all’altro, dalla cura delle relazioni. L’atro dato importante nel cammino verso i poveri consiste nella capacità di coinvolgere le persone che ci sono vicine, così come ha fatto Gesù che h coinvolto i suoi discepoli: date loro voi stessi da mangiare. E’ un imperativo che rivela un dato importante, vale a dire che è la comunità la prima responsabile dei poveri che vivono sul suo territorio. Ciò significa che il cammino verso i poveri non può essere delegato a qualcuno e, allo stesso tempo, che la bontà e la sensibilità di qualcuno non possono mai sostituire la comunità, che dev’essere sempre coinvolta. Troppe volte il discorso caritativo è vissuto come un atteggiamento isolato di qualcuno che si sente realizzato con questo. Aiutare le persone della comunità a vivere la carità come un dono del Signore e non come una soddisfazione personale per soddisfare la propria coscienza è la prima carità che possiamo realizzare all’interno della comunità stessa.


L’esempio degli stranieri che arrivano in Italia
C’è un modo di aiutare i poveri che fa più male che bene e, soprattutto, che non li aiuta ad emanciparsi. C’è tutto un modo di avvicinarsi ai poveri che, nonostante le apparenze, non è evangelico e, soprattutto, umilia la persona. Se l’aiuto ai poveri non supera la soglia della prima emergenza rischia di creare meccanismi di dipendenza irreversibili. Quando uno straniero arriva in Italia proveniente da un paese del così detto Terzo mondo, trovando un luogo per dormire e delle istituzioni che gli offrono cibo, lentamente tende a sedersi su quello che ha: gli va bene così. Perché sforzarsi se ciò per cui è fuggito gli è fornito gratuitamente? Può essere un po’ duro detto così, un poco irriverente e irrispettoso dei poveri, del povero. In realtà, si tratta dell’istinto di sopravvivenza e della natura umana. Finché l’intervento umanitario di noi occidentali, compreso lo sforzo della Caritas, non passa al di là della soglia del puro assistenzialismo, non si aiutano le persone povere. Perché è di questo che si tratta: di persone!  Ciò che manca è un progetto di assistenza in rete che offra percorsi per permettere ad uno straniero, che proviene da paesi poveri, di entrare in un percorso di realizzazione personale. Per questo, da un lato il progetto esigerebbe un controllo su coloro che entrano in Italia e, dall’altro, nel paese ospitante si dovrebbe offrire un percorso che conduca verso l’autonomia della persona.
Il rischio consiste nell’assistere ad un triste spettacolo che già sta avvenendo in Italia e cioè a migliaia di poveri stranieri gironzolando per le strade senza fare nulla e in continua situazione di marginalità. Dal loro canto, chi proviene da paesi poveri nei quali l’assistenza sanitaria e sociale è a livelli bassissimi, trovarsi in un paese che offre un minimo di questi servizi è qualcosa da non perdere. Oltre a ciò, la fitta rete assistenziale della Caritas e delle parrocchie della Chiesa cattolica, che offre in nome della carità evangelica, che di evangelico in molti casi ha ben poco, il minimo indispensabile per la sopravvivenza in cibo e posti letto, crea quella situazione di comodo che difficilmente viene abbandonata. In fin dei conti la fuga disperata dal proprio paese spesso è motivata dalla scarsità di risorse che possano provvedere al fabbisogno familiare. In un contesto di crisi economica, com’è quello nel quale stiamo vivendo, lo straniero povero non riesce nemmeno a trovare un lavoro sottopagato per mantenersi nelle sue spese basiche. Potendo appoggiarsi sulla fittissima rete assistenziale promossa dalla chiesa cattolica e dai comuni, i poveri lentamente si adagiano su questo sistema assistenzialista, annichilendo le energie propositive che in passato li spingevano a cercare soluzioni migliori di vita. In molte città e frazioni italiane troviamo oggi migliaia di poveri stranieri che vivono nella situazione sopra descritta, divenendo facile presa del crimine organizzato. Che cosa è mancato e che cosa si dovrebbe fare? Sono mancate, innanzi tutto, delle politiche d’investimento nei paesi d’origine. Il processo di colonizzazione e il successivo periodo imperialista, ha prodotto in moltissimi casi, un rapido processo di spogliazione delle risorse dei paesi in questione, con pochissima preoccupazione di produrre dei meccanismi d’industrializzazione e democratizzazione. E’ questo il fenomeno ben visibile non solo nei paesi africani, ma anche in tutto il territorio latinoamericano e asiatico. Le ondate migratorie dai paesi poveri verso i paesi industrializzati è spesso e volentieri la causa del processo di spoliazione sopra citato, processo che nei secoli ha prodotto miseria e sottocultura, lasciando milioni di persone in livelli di vita disumani. Un primo livello d’intervento dovrebbe essere rivolto nei paesi d’origine dei poveri, per aiutarli a costruire i loro Paesi, renderli vivibili, governabili. Dovrebbe essere questo il compito degli organismi internazionali come l’ONU, supportati dalle entità finanziarie mondiali come l’FMI o la Banca Mondiale. Ricostruire i paesi poveri nel rispetto delle loro culture e tradizioni è una grande sfida che deve coinvolgere non solo organismi internazionali, ma anche quei paesi coinvolti nelle asportazioni di ricchezze all’epoca della colonizzazione. Forse è questo che si è cercato di fare quando alcuni anni fa si è posto il problema del condono del debito.

Quando le persone provenienti dai paesi poveri arrivano in un paese industrializzato dovrebbero poter incontrare un’accoglienza all’altezza della situazione, vale a dire, la disponibilità ad elaborare un progetto rinnovabile periodicamente. In questo progetto dovrebbe essere inserita la disponibilità di chi arriva di apprendere non solo l’idioma del paese ospitante, ma anche la cultura, le tradizioni, le leggi. Troppo spesso gli stranieri che arrivano in Europa sono lasciati solo a se stessi, senza una minima richiesta d’integrazione, una disponibilità a svolgere un cammino per entrare a far parte di un popolo. Non si tratta, infatti, solo di mettere i piedi in un terreno, di calpestare delle strade, di usufruire dei sevizi sociali e sanitari o della possibilità di trovare un lavoro: c’è qualcosa di ben più grande in gioco. Si tratta, infatti, di entrare a contatto con delle persone che hanno una storia e una cultura che esigono di essere conosciute, assimilate. Senza questo primo passo fondamentale diventa difficile la tanto agognata e sbandierata integrazione. Se a livello di Stato non sono ancora stati fatti passi significativi, chi si muove in nome del Vangelo, vale a dire le Caritas, le parrocchie, dovrebbe aprire il dibattito su questi temi. In fin dei conti, quando il buon Samaritano, nella famosa parabola di Gesù che sopra abbiamo analizzato, carica lo sventurato sul giumento per portarlo in un’osteria provvedendo alle sue cure e ripassando per vedere se si era ripreso, indica i passi di un percorso che dovrebbe essere compiuto da una comunità cristiana. La carità esige di essere pensata. L’ accoglienza del povero provoca la comunità a pensare percorsi d’integrazione e, allo stesso tempo, provoca il povero ad uscire dalle sue paure, dalle sue chiusure. Una comunità che accoglie può esigere dalla persona povera un percorso da compiere assieme. Mi sembra questo tipo di relazione con i poveri il contributo maggiore della comunità cristiana alla costruzione di una società più giusta e solidale.

Conclusione
Ho scritto queste riflessioni sul tema della carità perché mi sembra urgente, perlomeno per i cristiani, rivedere alcuni atteggiamenti spacciati per evangelici, ma che di Vangelo purtroppo hanno poco o nulla. C’è una sottile relazione tra la modalità d’intervento chiamato umanitario messo in atto in questi ultimi decenni dalle grandi potenze Occidentali e un modo d’intendere l’appello alla carità che scaturisce dal Vangelo. Sembra che nei secoli l’Occidente abbia ereditato più che l’essenza del messaggio evangelico sul tema della carità, la rilettura edulcorata della devozione moderna, tutta incentrata sulla coscienza soggettiva e sull’umanità di Cristo. Ripensare la carità alla luce della Parola di Dio significa realizzare un cammino in due direzioni. In primo luogo, si tratta di restituire alle comunità cristiane il senso profondo del messaggio di Gesù. In fin dei conti Gesù nell’ultima cena ha detto ai discepoli che saranno riconosciuti dal mondo esattamente su questo punto, vale a dire l’amore. Questo amore, però, ha una modalità che lo differenzia dai diversi modi d’intenderlo. Infatti Gesù ha detto: “Amatevi gli uni e gli altri così come io ho amato voi” (Gv 13,34). Il “come” è di fondamentale importanza, perché indica la modalità che Gesù ha indicato come segno della sua presenza nel mondo. E allor diviene importante riflettere su questo: come Gesù ci ha amato? Ci ha amato gratuitamente, donandosi in modo disinteressato, rimanendo sino alla fine disponibile al progetto del Padre, non indietreggiando mai, nemmeno dinanzi alle sofferenze e alla morte. E’ questo amore che riceviamo ascoltando la Parola e alimentandoci del suo corpo; amore che siamo poi chiamati a vivere nel mondo. E’ una comunità di fratelli e sorelle che si amano come Cristo ci ha amato, che può cambiare il modo dal di dentro, lo può trasformare.
L’altro cammino che dobbiamo compiere è verso il mondo. Non possiamo continuare ad incontrare i poveri nello stesso modo e con lo stesso approccio del mondo. Soprattutto, però, dovemmo gradualmente smettere di chiamare carità ciò che carità non è. Aiutare il mondo a considerare i poveri persone, a valorizzare la loro storia, la loro cultura, il loro specifico percorso religioso: mi sembra che sia questo che la comunità cristiana debba proporre al mondo. Aiuti umanitari che diventano tali se li accompagnano un percorso di umanizzazione, dei cammini di ascolto reciproco, delle azioni caritative deponenti, in altre parole se diventano occasione per liberare i poveri dalle catene dell’oppressione. La carità che Gesù ci ha trasmesso con la sua vita e la sua morte significa restituire la dignità a chi l’ha persa, restituire la gioia di vivere a colui che ha perso ogni speranza. Soprattutto, però, la carità di Gesù ci dovrebbe aiutare ad uscire da tutti i discorsi farciti di demagogia, che usano la carità per mantenere i meccanismi di oppressione e di umiliazione. Il senso profetico della comunità cristiana che vive la carità di Cristo dovrebbe essere quello di smascherare i sistemi di morte, che non hanno paura nemmeno ad usare i poveri e i cosiddetti aiuti umanitari per mantenere il potere politico ed economico. Certamente è un percorso che ha un prezzo molto alto, un percorso rischioso. Del resto, però, come ci ha insegnato Bonhoeffer lo stesso Gesù ha pagato un prezzo carissimo per liberarci dai cammini della morte.



[1] A questo proposito rimangono sempre attuali le profonde considerazioni di Paolo Manna. Si può trovare qualche indicazione in: GHEDDO, P., Paolo Manna, fondatore della Pontificia unione missionaria, EMI, Bologna 2001.
[2] Chi parla e scrive di azioni deponenti è MARMO MICHELE, Un quotidiano animare la possibilità di futuro, Animazione Sociale, Torino 2014.
[4] Tra il 1970 e il 1998, quando il livello degli aiuti era al suo livello massimo, il tasso di povertà del continente è passato dal 11 % al 66%. Si tratta di circa 600 milioni di africani, più della metà della popolazione del Continente, costretta a vivere sotto la linea della povertà(  MOYO, D., cit. P. 88).
[5] Cfr. WELDEMARIAM, A., cit.
[6] Cfr. FAREED, Z., Democrazia senza libertà in America e nel resto del mondo, Rizzoli, Milano 2003

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