martedì 28 aprile 2015

LA REALTÀ E' PIÙ IMPORTANTE DELL'IDEA


Maria Soave Buscemi


La gradita visita del Vescovo Massimo


E' INIZIATO IL CORSO DI LETTURA POPOLARE DELLA BIBBIA
REGGIO EMILIA 2015
Paolo Cugini

Sabato 18 aprile presso l’Oratorio cittadino è iniziato il primo Corso di Lettura Popolare della Bibbia, che si estenderà per quattro sabati sino alla fine di maggio. Un percorso impegnativo, dunque, che si pone come obiettivo quello di accompagnare i partecipanti dentro al mondo affascinante dello stile latinoamericano di accostarsi al testo biblico. Nei primi due incontri del corso la risposta alla proposta è andata oltre le più rose aspettative. Molti, infatti, sono stati i partecipanti, quasi ottanta di diverse zone della diocesi e, oltre alla presenza dei laici è bello segnalare anche la presenza di alcuni sacerdoti e religiose.

Maria Soave Buscemi, conduttrice del corso e già conosciuta al pubblico reggiano per una serie d’incontri realizzati in questi ultimi anni, ha ricordato sin dall’inizio che la lettura popolare della Bibbia non significa né una lettura populista né semplicista. E’ un problema di metodo, che tiene conto del cammino della cultura Latinoamericana che, a differenza di quella europea, non parte dalle teoria o dal concetto astratto, ma dalla vita concreta della gente. “Nella lettura popolare – ha ricordato Soave - affermiamo che la vita viene prima della Parola e che la realtà precede l’idea”. Nella stessa prospettiva si è espresso Papa Francesco quando nell’Evangelii Gaudium diceva che la realtà è più importante dell’idea. “Il criterio di realtà, - afferma il Papa - di una Parola già incarnata e che sempre cerca di incarnarsi, è essenziale all’evangelizzazione. Ci porta, da un lato, a valorizzare la storia della Chiesa come storia di salvezza, a fare memoria dei nostri santi che hanno inculturato il Vangelo nella vita dei nostri popoli, a raccogliere la ricca tradizione bimillenaria della Chiesa, senza pretendere di elaborare un pensiero disgiunto da questo tesoro, come se volessimo inventare il Vangelo”. Il primo atto, allora, è l’esperienza la realtà e dopo la teoria. Questo stesso processo, con questa stessa modalità ha accompagnato la formazione del canone della Bibbia, che non è nata a tavolino, ma dalla vita. Come punto di partenza, infatti, nella storia del popolo d’Israele ci sono state delle esperienze, delle storie vissute dove il popolo ha sperimentato la presenza di YHWH. Esperienze che non sono state subito scritte, ma narrate di generazione in generazione. Come nella vita, anche per quanto riguarda la formazione del canone, la realtà, il vissuto ha preceduto l’idea, la scrittura. Interessante è poi notare come le prime forme di stesura delle esperienze di salvezza vissute dal popolo, sono state dei canti: il canto di Debora (Gdc 5) e il canto di Mara (Es 15). Ci siamo chiesti come mai è avvenuto così. La risposta più semplice è che per un popolo analfabeta, la miglior forma per ricordare una storia è cantarla. E’ questo un fenomeno che accompagna l’evoluzione culturale di tutti i popoli, non solo quello biblico. Dopo di ciò, segue un lungo processo di redazione durato più di settecento anni.

Se volgiamo incontrare la Parola di Dio nella Bibbia dobbiamo ascoltare la vita, il vissuto delle persone che si accostano il testo, perché, come abbiamo visto, la vita precede il testo. E’ per questo motivo che nelle piccole comunità di base quando le persone settimanalmente si trovano per leggere la Parola, il punto di partenza non è mai l’ascolto del testo, ma la vita condivisa. Si ascolta il vissuto delle persone, vissuto che diventa chiave di entrata per la comprensione del testo. Siamo consapevoli che questo metodo di lettura, questa modalità di approccio al testo biblico urta le orecchie di coloro che sono abituati a partire dall’ascolto del testo, a porre la teoria prima della realtà. Non si tratta di decidere il metodo migliore, ma di apprendere a rispettare il cammino dell’altro, di mettersi in ascolto dell’altro per capire che c’è non solo una varietà di approcci possibili, come ci ha insegnato il magistero della Chiesa, ma anche una possibilità di apprendere dall’altro. Soave nei due incontri sino ad ora realizzati, ci ha aiutato ad entrare nel mondo plurale degli approcci ermeneutici ripetendo e spiegando un ritornello che lentamente abbiamo fatto nostro: non c’è nessuno così povero che non ha abbia nulla da dare e, allo stesso tempo, non c’è nessuno così ricco che non abbia nulla da ricevere. C’è un complesso di superiorità che accompagna l’Occidentale nei confronti delle culture altre, complesso che ci porta spesso ad avvicinarci agli altri nell’unica condizione dei donatori. Quando si entra nelle relazioni con questo atteggiamento è facile provocare relazioni conflittuali e diseguali. Ascoltare la vita degli esclusi, di coloro che non hanno voce, significa entrare nel testo biblico per cogliere quelle voci soffocate che trovano spazio e accoglienza nel Dio della misericordia. Significa anche, incontrare il centro del messaggio di Gesù che sana le ferite delle dicotomie culturali, proponendo un mondo senza conflitti, un mondo nel quale, come ci ricorda san Paolo: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (cfr. Gal 3,28). Gli amici del Signore, i suoi discepoli e discepole non possono ammettere che ci sia qualcuno più degno di un altro. La lettura è popolare perché tutti e tutte trovano possibilità di espressione, possibilità di donare e ricevere qualcosa.

In questo percorso diviene importante che terra pestiamo, che umanità incontriamo e frequentiamo, perché è la realtà che viviamo che ci aiutata ad aprire i significati del testo. Le comunità di base in America Latina sono per lo più costituite da persone povere e, per questo motivo, la lettura che è avvenuta in questo contesto è stata la ricerca di cammini di liberazione, per uscire dalle situazioni inique di disuguaglianza create dall’uomo e dalla sua ingiustizia.  L’intelligenza nasce dai piedi ci ha ricordato Soave: a seconda da dove vanno i piedi, la nostra testa pensa, elabora contenuti, cerca soluzioni. Questo tipo di discorso potrebbe aprire il fianco alla critica di una lettura forzata del testo biblico. Certamente la Lettura Popolare della Bibbia non si ferma al piano intellettuale, come spesso e volentieri succede nei nostri circoli biblici, ma cerca di andare oltre, di permettere alla vita, alla realtà di aprire il testo per provocarlo e farlo per così dire parlare. La Lettura Popolare della Bibbia cerca la luce affinché la dura esperienza della vita trovi dei significati per rendere il cammino se non lieve, perlomeno più sopportabile.

 Leggi anche:
http://regiron.blogspot.it/2015/03/corso-di-lettura-popolare-della-bibbia.html



sabato 25 aprile 2015

CHE C'E' DI NUOVO IN CITTA'?


DIALOGHI SULLA PROSSIMITÀ
CONVEGNO DI STUDI – MILANO 22 APRILE 2015
Paolo Cugini

Si è svolto a Milano mercoledì 22 aprile presso i locali della Triennale, un convegno organizzato dalla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale sul tema della città. L’occasione di EXPO 2015 è apparsa favorevole per un approfondimento teologico e pastorale sul tema della città. Le domande che hanno provocato il dibattito hanno ruotato attorno alle sfide che la secolarizzazione ha portato all’interno della società plurale post moderna. Quali spazi offre la città moderna per la cura e la condivisione dell’esperienza religiosa? Quali trasformazioni chiede alla cultura e alla comunicazione della fede? A partire da queste provocazioni si è aperto un dibattito molto profondo, che ha permesso agli esperti invitati di proporre un vero e proprio mosaico plurale di riflessioni aperte, fornendo significativi spunti per la costruzione di spazi più umani di condivisione nelle nostre città.

 Il giornalista e scrittore Ernesto Galli della Loggia ha affermato che la secolarizzazione non è un progetto culturale che sia possibile dichiarare fallito. E’ indubitabile, infatti, l’aumento di libertà, di possibilità che il cammino della modernità ha immesso nella cultura Occidentale. Il crollo delle ideologie nella città secolare, se da un lato ha prodotto la fuga nel consumismo, dall’altro ha riproposto una crisi di senso che trova nel populismo una pericolosa deriva. E’ pericolosa perché oggi il popolo non c’è più e al suo posto c’è la frammentazione di appartenenze parziali. Il vuoto provocato dalla crisi delle ideologie forti apre la strada anche alle mode culturali che dominano la scena, ma uccidono la cultura. Secondo Ernesto Galli della Loggia la stessa Chiesa fa fatica a resistere al fascino di fare il verso a queste mode. E’ difficile mantenere un discorso religioso che sia antagonista alle mode culturali. Lo scrittore, allora, concludeva il suo intervento con una domanda provocatoria: la perdita di senso si è forse insinuata anche nell’accampamento dei buoni?

Provocazione che il cardinale Ettore Scola, Arcivescovo di Milano ha colto immediatamente rilanciando con alcune riflessioni significative sul rapporto tra cristianesimo e città. Se per Ernesto Galli della Loggia la secolarizzazione non è stato un progetto fallito, per Ettore Scola il fallimento è totale. I segni di questo fallimento vanno ricercati nella frammentazione che il vuoto di senso ha provocato. “L’epoca post secolare – ha sostenuto il cardinal Scola – ha abbandonato l’idea di trovare un principio unificatore”. I segni di questa frammentazione culturale sono visibili anche nel mondo religioso, in quel fenomeno sociologico chiamato di ritorno del sacro, ritorno che Scola ha più volte definito selvaggio, per stigmatizzare il vuoto di proposte religiose autoreferenziali. Il problema, che allo stesso tempo è la grande sfida che la secolarizzazione ha provocato nella città, è la possibilità di creare relazioni significative in uno spazio divenuto ormai frammentato e dove nemmeno gli antichi luoghi di aggregazione come le piazze, funzionano più. Si tratta, allora, secondo il Cardinale, di riproporre la familiarità di Dio con l’uomo, quella familiarità che si è manifestata nell’Incarnazione del Verbo. E’ possibile ritrovare il gusto del rapporto con gli altri, gusto svanito nella città secolare, solamente se sappiamo recuperare la relazione con Dio. Questo è il compito della Chiesa. Durante il suo intervento il cardinal Scola ha citato un’immagine cara a Papa Francesco, vale a dire l’immagine del poliedro come simbolo delle nuove relazioni che possono essere costruite nella città. Caratteristica, infatti del poliedro, è quella di creare unione mantenendo la diversità delle facce.

Il dibattito è poi continuato con vari interventi che hanno mantenuto la caratteristica del poliedro, vale a dire pluralità d’idee con l’intento di contribuire a recuperare la dimensione umano e relazionale della città secolare. In questa prospettiva, la professoressa Monica Martinelli dell’Università Cattolica di Milano mostrava la contraddizione tra l’apparente rivincita di Babele e la resistenza del soggetto a venire livellato. La Martinelli, per suffragare questa idea, ha citato alcune esperienze avvenute in alcuni quartieri di Milano nei quali i cittadini hanno resistito alla cementificazione selvaggia e alla spersonalizzazione dei territori, organizzando momenti di socializzazione, per recuperare una socialità di strada ormai perduta. Tentativi di recupero che mostrano come la secolarizzazione non sia un processo da leggere totalmente in negativo, ma che presenta cammini di umanizzazione necessari, se si vuole vivere la fede in un modo più adulto. Sono evidenti in queste riflessioni gli echi del pensiero di Bonhoeffer al quale la Martinelli ha fatto riferimento esplicito affermando che: “I cristiani che stanno sulla terra con un piede solo, staranno anche in paradiso con un piede solo”.


Molto apprezzati sono stati anche gli interventi del professor Luigino Bruni dell’Università Lumsa di Roma e di don Giuliano Zanchi, direttore del Museo Diocesano di Bergamo. Il professor Bruni ha messo il dito sulla piaga sul problema centrale della città contemporanea, vale a dire il dominio assoluto del mercato, dell’economia sulla politica e la religione. Se un tempo i tre settori vivevano in armonia, entrando in sinergia tra di loro, oggi non è più così, perché è l’economia che comanda tutto. “Una città funziona quando c’è equilibrio tra i tre elementi. Una città data completamente in mano ai marcanti nega se stessa”. E’ questa la sentenza di Bruni perché l’unico linguaggio per gestire una città non può essere l’efficienza. Occorre, allora, ripartire dalle periferie, perché solo dalle periferie è possibile ricreare un nuovo tessuto sociale. Alle riflessioni del professor Bruni fanno eco le profonde indicazioni di don Zanchi, che ha ricordato al pubblico presente, che la città nasce per dare luogo all’umano, quell’umano che si alimenta attraverso le relazioni quotidiane. In questa prospettiva, è possibile osservare come l’architettura e l’urbanistica degli ultimi due secoli abbiano agito sulla città senza tener conto dello specifico della città come luogo di relazioni. Tutto ciò è visibile proprio nelle periferie, spesso costruite come luoghi cumulativi di abitazioni, spazi dominati dal cemento e dal ferro, nei quali diviene evidente la separazione dell’abitazione delle famiglie dall’organizzazione della città. “L’avvento della famiglia nucleare- ha sostenuto don Zanchi – è apparso come frutto della diffusione dell’alloggio privato i cui legami sociali divengono una situazione di scelta, più che un dato di fatto”. La casa, allora, è sempre di più pensata come un rifugio e lo spazio sociale come un luogo di servizi. Oltre a ciò, nella città contemporanea, quei luoghi e spazi nei quali gli esseri umani passano la maggior parte del tempo, come scuole, ospedali, e altri servizi, sono nella norma meno qualificati, costruiti in maniera seriale, spersonalizzati. E così, la città del capitalismo avanzato impone le sue idee senza ascoltare nessuno, riversando sui centri storici ingenti investimenti per la manutenzione di spazi da museo per le classi aristocratiche. Occorre, allora, recuperare l’umano ed è possibile realizzare questo percorso, sosteneva don Zanchi, riprendendo e recuperando le immagini bibliche della città celeste, fatta di relazione trasformate dall’amore di Dio. 

venerdì 17 aprile 2015

COME STIMOLARE IL CAMMINO SPIRITUALE NEI GIOVANI?


Paolo Cugini

Il cammino spirituale è un percorso che ha come obiettivo quello di vivere il Vangelo di Gesù per riuscire a tradurlo nel vissuto quotidiano. S’inizia un cammino spirituale perché si desidera conoscere il senso della propria vita, il progetto che il Signore ha su di noi. Per raggiungere questo obiettivo occorre, in primo luogo, desiderarlo, avere nel cuore un sogno grande. Senza questo desiderio è impossibile intraprendere un cammino spirituale. É nell’adolescenza che matura questo desiderio, quando si comincia a percepire la necessità di fondare la propria esistenza su qualcosa di solido e, allo stesso tempo, quando s’inizia a pensare al proprio futuro. Questi desideri sorgono quando si comincia a cogliere il vuoto di una vita riempite da cose, il vuoto di una vita frenetica che non lascia spazio alla riflessione. Desideri di senso che sorgono anche quando sono stimolati dalle persone adulte che ci circondano, dalle vite vissute intensamente, da quelle vite donate che c’interpellano. Le domande che cominciano a sorgere in questo periodo offrono l’opportunità per scoprire una dimensione della vita che solitamente rimane in ombra, vale a dire l’interiorità. Abituati fin da piccoli a cercare il giudizio degli altri e quindi a vivere costantemente all’esterno, raramente ci accorgiamo della nostra interiorità, dello spazio che abbiamo dentro di noi per verificare le nostre scelte, per capire chi siamo veramente. Il cammino spirituale diviene, allora, un percorso significativo di conoscenza di sé, di costruzione della propria identità personale.

Come stimolare le domande di senso, il bisogno di una vita interiore nel cammino di un adolescente? Risposte a queste domande non sono facili da trovare. In primo luogo, un adolescente dovrebbe trovare questi stimoli dentro il suo vissuto quotidiano. Nelle scelte che vive in famiglia dovrebbe percepire quel qualcosa di diverso e di significativo, che stimolano la ricerca che va oltre ai dati immediati. Nel contesto nel quale viviamo gli adolescenti sono continuamente sollecitati a dare risposte immediate e veloci ai problemi che emergono. Il sociologo Bauman definisce la nostra società come liquida, precaria, veloce. L’adattamento a questo stile di società richiede, allora, la capacità a saper cambiare rapidamente, a non stabilizzarsi su qualcosa, a non indurire, per così dire, la propria identità su valori e situazioni che possono cambiare da un momento all’altro. Sin dall’infanzia, nell’esperienza scolastica e nelle esperienze sociali in genere, le persone sono costantemente sollecitate a non fermarsi, ad essere disponibili a cambiare, a saltar su al treno della vita che passa veloce, a non perdere occasioni, in altre parole, ad essere dentro al fluire del mondo postmoderno. Nell’ambito della vita famigliare l’adolescente dovrebbe respirare qualcosa di diverso, vale a dire, quella tranquillità, quella stabilità che il tempo moderno non riesce e non vuole più offrire, ma che sono necessari per scoprire il valore della vita interiore, che si nutre di calma, di un modo più sereno di rapportarsi con il tempo.


Riconquistare il tempo, il sapore di ritmi più umani all’interno dei quali sia possibile riscoprire il valore del tempo trascorso a dialogare con l’altro senza mediazioni meccaniche. In definitiva, è al primato della persona che dobbiamo ritornare, persona che come diceva Emmanuel Mounier, non apre la porta all’individualismo esasperato, stimolato sempre di più dalla tecnologia, ma al mondo dell’altro nel quale il volto diviene traccia dell’Altro, dell’Assoluto. In un mondo più umano, nel quale le persone divengono responsabili nella comunità, la vita interiore, il cammino spirituale non rappresentano più degli optional, degli aspetti esotici della vita, ma momenti necessari e indispensabili per quel cammino di umanizzazione del quale la nostra società ha così bisogno.

giovedì 9 aprile 2015

SPIRITUALITÀ E REALTÀ



FUGA DALLA SPIRITUALITÀ DISINCARNATA
Paolo Cugini

Vivo spesso delle sensazioni strane, che mi fanno star male. Sono tutti i giorni a contatto con il mondo spirituale, con i riti, le liturgie, le preghiere. Ed è proprio in queste circostanze che vivo delle strane sensazioni e cioè la sensazione di essere fuori dal mondo, che lo spirituale sia qualcosa di distaccato dal reale, anzi a volte ho la sensazione che lo spirituale sia l’esatto contrario del reale. Osservo, infatti, come ci sia tutta una spiritualità che invece di sgorgare dalla realtà, nasce da un’altra parte – e non ho ancora capito dove, anche se lo sto intuendo – invece di nascere dalla terra, dalla carne, dalla vita personale, nasce come se si volessero proteggere gli uomini e le donne dalla realtà. C’è tutta una spiritualità che non sembra centrare nulla con la vita che gli uomini e le donne vivono, con la vita reale fatta di carne e di sangue, di gioia e dolore, di sacrificio ed entusiasmo, di eros ed agape, di lavoro e di gioco, di vita e morte. Sembra che s’inventi un mondo spirituale per proteggersi dalla vita, dalla realtà della vita, come se questa fosse qualcosa di negativo, come se la realtà fosse negativa, come se quella vita che sgorga dalla realtà fosse qualcosa dalla quale proteggersi. Come funzione questa spiritualità della fuga dalla realtà, dalla vita? Funziona giocando d’anticipo, anticipando il futuro, passando spiritualmente sopra al presente, per non sentirlo, per non annusarlo, per attutirne il più possibile la sua forza dirompente. Come se il presente fosse negativo, come se la vita fosse qualcosa dalla quale fuggire e, soprattutto, come se vivere fino in fondo e in modo autentico la vita fosse qualcosa di blasfemo. E’ molto strano che lo spirituale sia confuso con l’irreale o addirittura identificato con esso. Charles Péguy diceva che lo spirituale è costantemente disteso nel letto del temporale. Erano le riflessioni di un poeta che aveva fatto dell’incarnazione del Verbo il centro della sua vita. Viene immediatamente da pensare: ma come abbiamo fatto a ridurlo così? Com'è potuto avvenire che il grande mistero dell’incarnazione venisse così svilito da servire come surrogato, come anestetico del reale, come se lo spirituale fosse qualcosa di falso? Com'è mai potuto avvenire questo grande travisamento e cioè che lo spirituale, nella linea inaugurata da Gesù Cristo, uno spirituale cioè tutto intriso di carne e terra, di sangue e di vita, perché Lui era uomo come noi, potesse divenire strumento di percorsi religiosi che negano la realtà, che negano tutte quelle dimensioni che fanno parte della vita come la sofferenza, il pianto, il sorriso, la scelta per qualcosa di definitivo? Soprattutto, però, mi chiedo: perché lo si lascia credere? Com'è potuto avvenire che il più grande gesto d’amore dell’umanità venisse ridotto a rito e rinchiuso in esso, come se l’amore di Gesù fosse una questione di manine giunte e non di scelte di vita, una questione di turiboli e di pizzi e non di donazione totale di sé, infine una questione di rubriche e di formule e non una questione di vita vissuta in pieno.

Vivo tutti i giorni la sensazione di essere un funzionario religioso, un funzionario del nulla, che smercia il nulla, che permette alle persona di riempirsi del nulla, del vuoto, per stare bene, per avere la sensazione di stare bene o, perlomeno, di stare meglio. Perché è questo che producono le devozioni, gli spiritualismi disincarnati, i devoti del nulla, i cerimonieri del vuoto: un bene momentaneo, come un analgesico, un tranquillante. E’ questo quello che propone la spiritualità disincarnata, svuotata dal mistero dell’Incarnazione del Verbo: una giustificazione alla propria vita, un lasciapassare per non cambiare nulla, per pulire alla svelta quello che si è sporcato, un toccasana per continuare a fare ciò che si è sempre fatto. Gesù proponeva il Vangelo, il Regno di Dio, un regno di giustizia, di comunione. Gesù camminava per le strade d’Israele invitando le persone ad accogliersi gli uni gli altri, a rispettarsi, a perdonare, a dare dignità, a non vivere come servi, a non cercare il primo posto ma l’ultimo, a volersi bene, a condividere quello che si ha, a non umiliare il povero, ma ad accoglierlo, a non considerarsi superiori degli altri, ma a stare al proprio posto, a non cercare la felicità nelle cose materiali, a non vendersi per il denaro, ma a donare la propria vita per amore. E’ chiaro che per poter accogliere la sua proposta era necessaria la conversione, il cambiamento, il desiderio di una vita nuova. E invece no. La spiritualità disincarnata non ti chiede nulla di tutto questo, ma offre solamente un tranquillante interiore. E invece no, perché la devozione della candela facile, ti chiede al massimo due spiccioli e poi puoi rimanere al tuo posto, a fare le cose che facevi prima, perché t’insegnano questi disgraziati, che bastano due formule dette bene che tutto è messo a posto, che tutto è come prima, che con due formuline ben dette e qualche candelina, Dio è contento. Come se il problema fosse Dio! Come se tutto il problema della religione fosse Dio e non l’uomo, fosse Dio e non la donna, fosse Dio e non il modo. Disgraziati! Che cosa avete fatto? Che disastro avete costruito voi, i servi dello spirituale senza carne, del cielo senza terra, dello spirito che puzza di vuoto! Era così bello il Vangelo! Bello perché sapeva di vita, di terra, d’amore e di passione. Bello perché t’invitava a riflettere, a pensare, ad entrare in se stessi, per guardarsi dentro, per poi camminare meglio sulle strade della vita. Perché era esattamente lì che Gesù viveva: sulla strada. Ed era esattamente lì che ci ha insegnato a stare: sulle strade della vita, per starci con dignità, affrontando quello che c’era da affrontare. Gesù nel Vangelo ci ha invitato ad essere noi stessi, a non avere paura delle nostre debolezze, perché con Lui al fianco anche la debolezza si trasforma in forza e la pace diviene il segno inconfondibile della sua presenza.

Forse è questo quello che la gente cerca quando va in chiesa: un tranquillante, stare un po’ meglio, fuggire per alcuni istanti dai problemi reali, dai problemi della vita, da tutti quei problemi che si sono accatastati e dai quali non sembra esserci possibilità di soluzione, possibilità di uscita. Per fortuna che c’è la religione, le chiese, i preti nei confessionali; per fortuna che c’è qualcuno che può alleviare il dolore, la sofferenza, il male di vivere. Non ci sono, allora, solo le devozioni, ma anche coloro che le incentivano, le propongono, le inventano. Non ci sono solo le devozioni sorte in un’epoca – quella moderna – nella quale tutto si faceva derivare dall’uomo, come se noi uomini fossimo il centro del mondo, i signori della storia: ci sono anche coloro che le mantengono vive e, diciamolo pure, ci sono coloro a cui fa comodo tenerle vive. Spiritualità come sinonimo di irreale, non necessario alla vita, qualcosa di cui si può fare a meno, che serve appunto per distrarsi, per stare meglio in un momento di dispiacere o di depressione. E’ per questo motivo che molta gente fa a meno dello spirito, delle chiese e non sente il bisogno di guide spirituali di questo tipo, che ti guidano cioè nell’irreale, fuori dal tempo, dalla storia dalla vita. Chi vive bene, chi ama la vita, chi si trova bene nella realtà, non va in cerca di qualcosa che lo possa distogliere da ciò che ama, che lo conduca fuori dalla realtà. Chi ama la vita, chi sta bene a questo mondo, non cercherà mai quella religione che propone un’offerta spirituale del tipo che ho descritto sopra e starà lontano il più possibile dai sacerdoti del nulla, dai cerimonieri del vuoto.

 Ritornare al Vangelo per non morire, per uscire dalla religione vuota e trovare la luce della vita, la realtà delle cose: è questo il nostro compito più urgente!




sabato 4 aprile 2015

SABATO SANTO: IL SILENZIO DEL GIORNO TREMENDO




Paolo Cugini

Bisogna avere il coraggio di ascoltarlo, senza sotterfugi, senza riempimenti di significati, senza voler a tutti i costi edulcorarlo. Perché non si può zuccherare quello che dolce non è, non si può sorridere nel giorno più triste dell’anno: il sabato santo. Che cosa, poi, di santo abbia questo giorno così orrendo non l’ho mai capito. Come si fa, infatti, a chiamare santo il giorno più vuoto di tutti, il giorno del non senso assoluto, il giorno nel quale tutta l’umanità è rimasta senza fiato, con il fiato sospeso. Perché tutta l’umanità quel giorno si è alzata senza sapere a chi pregare, senza poter rivolgere la preghiera a nessun Dio, perché Dio era morto il giorno prima, barbaramente assassinato. E non si può sempre giocare a far finta di niente, a non voler vedere, a non voler ascoltare. Ci mancano delle donne come Maria Maddalena che sanno piangere per il suo maestro morto, che sa soffrire intensamente senza finta, senza nascondere niente: questo sì che è amore. Quell’amore che sgorga dal cuore e non dal calcolo, quell’amore che è passione pura e non razionalità controllata, che calcola, che sa fare dei calcoli persino con i sentimenti.   E non si può far finta di niente e correre subito alla domenica, non si può passare sopra a questo giorno tremendo perché si ha paura del buio e fare finta che non sia successo nulla; non si può tapparsi gli occhi e le orecchie per dirigersi subito alla domenica mattina. Soprattutto, però, non si può anticipare la domenica di resurrezione al sabato mattina, come avviene purtroppo spesso e volentieri in certe chiese, che iniziano a preparare gli addobbi della domenica, come se il sabato del grande silenzio non esistesse. Che mancanza di rispetto!

Ci vuole silenzio per ascoltare il nulla, per capire che cosa sarebbe il mondo senza un senso e cioè, senza un Dio. Il vuoto deve poter penetrare il cuore dell’uomo e la coscienza della donna per lo meno una volta nella vita, per aver poi la possibilità di soppesare tutte quelle ideologie che altro non sono che dei vuoti camuffati, ai quali ci aggrappiamo per non morire di asfissia. Costretti ad inventarci dei significati, quando si vede lontano due chilometri che non c’è nessun significato, che ci stiamo arrampicando sugli specchi, che stiamo parlando al vento e non abbiamo il coraggio di tacere per paura di sentire il vuoto, di essere penetrati dal nulla. E’ questo il significato del sabato santo, che è santo proprio per questo, perché ci permette di toccare con mano la cenere della nostra vita, il niente dei nostri progetti senza Dio.

Stare appesi nel vuoto, perlomeno una volta nella vita, può essere di grande aiuto per capire a chi e a che cosa la stiamo attaccando la nostra vita, a chi ci stiamo appendendo. Fiumi quotidiani di inutili parole per abbellire ciò che per natura è brutto, ciò che ci sta uscendo male, che non ha una forma, perché non può avere nessuna forma, per il fatto che gliela stiamo dando noi e basta. Basterebbe avere il coraggio un giorno di girare i luoghi dove avvengono gli incontri tra gli adulti, bisognerebbe cioè perlomeno una volta nella vita stare in un bar per più di due ore, dal fornaio, al mercato e ascoltare, prestare attenzione, aprire bene le orecchie su ciò che si dice, sul nulla di cui si discorre per ore e ore. Parliamo di ciò che siamo e di ciò che facciamo, dove il fare è costretto a sostituire il niente del nostro essere. Per questo facciamo fatica a stare in silenzio il sabato santo, facciamo fatica a cogliere la profondità del vuoto creato dall’assenza di Dio nel mondo, perché quel vuoto, quel silenzio è rivelatore, quel vuoto di quel giorno tremendo rivela il vuoto che abbiamo dentro e che coltiviamo lentamente in ogni momento della nostra giornata. Perché la vita non ha un senso esterno, non ha dei significati che possiamo prendere dall’esterno, perché ogni significato attribuito dall’esterno o elaborato dalla nostra mente non corrisponde alla realtà delle cose ed è quindi pura ideologia e l’ideologia è una finzione, una forzatura, un non senso camuffato con del senso. Per questo l’ideologia non ci riempie, perché è falsa ed ogni falsità ci porta lontani dalla realtà e più aumenta la distanza dalla realtà, aumenta allo stesso tempo la distanza con la verità. E così rimaniamo dentro questo processo ideologico che con il tempo ci svuota, ci rende falsi, ci fa giocare continuamente di anticipo, perché non siamo più in grado, non riusciamo più a cogliere l’istante, il vero, l’autentico. Il significato delle cose viene da dentro il mondo, da dentro l’uomo, dal suo cuore. Lo cogliamo quando stiamo in silenzio, quando entriamo in noi stessi, percepiamo in questi momenti che il senso della vita, il senso profondo dell’esistenza non può venire dalla materia, non può essere qualcosa di materiale, di temporale, di accidentale.

Dev’esserci qualcosa d’altro, di più duraturo, di più vero e profondo. Forse è questo uno dei doni più profondi del giorno tremendo, di quel giorno carico di disperazione che è il sabato santo. E’, infatti, in questo giorno che possiamo toccare con mano il niente della materia, il nulla di tutti i pensieri vuoti quando sono dettati dalla fretta di riempire di significati ciò che significato non ha. E’ in questo giorno tremendo che scopriamo la nostalgia di Dio, il desiderio del suo amore, la bellezza dello stare con Lui, il significato che Lui e solo Lui può dare alla vita in tutti i suoi aspetti. E’ dal giorno tremendo del sabato santo che, verso il tramonto, possiamo scorgere la luce radiosa dell’alba della domenica, del giorno più radioso e luminoso dell’anno: la domenica della risurrezione del Signore.