martedì 26 marzo 2019

PREPARANDO IL CONVEGNO MISSIONARIO DIOCESANO - DOMENICA 31 MARZO 2019





Domenica 31 marzo alle 15,30 si svolgerà presso il Centro Sacro Cuore il Convegno Missionario Diocesano che avrà come punto fondamentale la presentazione del nuovo cammino diocesano della missione in Brasile che, dalla Bahia si sposta in Amazzonia. 
Sarà con noi il Mons. Adolfo Zon Pereira, vescovo della diocesi di Alto di Solimões nella quale inizieremo una collaborazione a partire dal mese di ottobre di quest'anno. 
Per aiutarci a preparare il Convegno, qui di seguito alcune informazioni sia sulla diocesi che sul vescovo Adolfo. 


DIOCESI DI ALTO SOLIMÕES: ALCUNI DATI

Il nome Solimões deriva dal fiume che attraversa tutto il territorio diocesano ed è il nome che il rio delle Amazzoni assume quando passa in questo territorio. In realtà, la diocesi di Alto di Solimões oltre ad essere attraversata dal rio delle Amazzoni, ospita nel suo territorio un numero incalcolabile di altri fiumi e, tra questi, ci sono il fiume Iça che passa sul territorio della diocesi per 358 km e il fiume Yavarì di 1200 Km.

 La diocesi è attualmente guidata dal Vescovo Mons Adolfo Zon Pereira (classe 1956), saveriano di origine spagnola. La diocesi ha sede nella città di Tabatinga, che è una città di frontiera che confina con il Perù e la Colombia ed ha un’estensione di 131.600 kmq, con un totale di 216.000 abitanti. Negli ultimi 15 anni c’è stata una crescita della popolazione del 20%. Il 38% della popolazione è indigena. Molte comunità vivono sulle rive dei fiumi e vengono denominate: ribeirinhas.

La mappa della diocesi di Alto di Solimões 


Alto di Solimões è stata elevata a diocesi nel 1991. Il primo vescovo è stato mons. Alcimar Caldas Magalhaes, che  ha guidato la diocesi dal 1991 al 2015. Ora Mons Alcimar è emerito e vive nella casa episcopale con il vescovo Adolfo.

Religione: Oltre al cattolicesimo sono presenti anche molte denominazioni religiose protestanti e neo pentecostali: Luterana, Maranatà, Congregazionale, Chiesa Battista, Assemblea di Dio, Presbiteriana, Dio è amore e tante altre. Tra queste forme religiose è importante segnalare la presenza nella regione della fraternità della Santa Croce, denominata Cruzada e il gruppo denominato Israelita.  Il 5% della popolazione si dichiara senza religione.

Popolazione: Sul territorio sono presenti diversi gruppi indigeni: Tikunas, Marubu, Matses, Matis, Kulina Pano, Kurubu, Maguta, Kokama, Kambeba, Kaixana, Kanamari, Witoto.

Economia: Dal punto di vista economico la gente vive di pesca. In alcune zone ci sono alcune industri di legname. Il PIB pro capite è di mille euro, ciò significa che la popolazione è molto povera. Il Vescovo Adolfo si lamentava della scarsa presenza dello stato nella regione e della corruzione dei politici locali.

La cattedrale di Tabatinga 


Società: I maggiori problemi sociali della regione sono la droga, la disoccupazione, il traffico di persone. Negli ultimi anni si sono registrati molti suicidi tra i giovani.

SITUAZIONE ATTUALE

Attualmente la diocesi di Alto di Solimões, composta di otto parrocchie, è stata divisa in due zone (vicariati).Vicariato 1

Atalaia del Nord: Padre Alberto e Padre Lino (saveriani italiani)

Benjamin Costant: È una parrocchia accompagnata da sempre dai francescani. In queste settimane stanno cambiando formazione. Domenica 24 marzo è stato nominato il nuovo parroco: Frate Mario Ivon Ribeiro Ofmcap.

Tabatinga: don Valmir è il parroco coadiuvato da tre preti: Pedro, Elias (sono tutti e tre originari della regione) e Mariano (romeno). Ci sono inoltre cinque congregazioni religiose (tre femminili e due maschili)
Belem di Solimões: Fra Paolo (italiano)

Vicariato 2

Tonantins: padre Gonzalo (colombiano), suor Benice e suor Lucia
Santo Antonio do Iça: Fra Assilvio (Amazzonia) e fra Gino (italiano). Da novembre sarà guidata da tre preti di Reggio Emilia: Gabriele Carlotti, Gabriele Burani e Paolo Cugini
Amaturà: padre Washington (colombiano)
San Paolo di Olivenza: padre Marcello (sul del Brasile), ci sono due congregazioni femminili di suore.
Santa Rita: è una zona pastorale della parrocchia di san Paolo accompagnata da tre suore del PIME (Laura e Dora italiane, Odete del sud del Brasile)


MONS ADOLFO ZON PEREIRA



Classe 1956. Nato in Spagna nella città di Ourense.

Frequenta il seminario minore e lo studio della teologia nel seminario della citt. Durante l’ultimo anno di teologia entra nei saveriani. “Ho atteso due anni per causa della mamma che non voleva un prete missionario”.

Nel 1985 è a Pamplona per l’animazione missionaria e nel 1986 fa professione perpetua e l’ordinazione sacerdotale. Per 7 anni rimane in Spagna per l’animazione missionaria e vocazionale.
Nel 1993 arriva in Brasile a Belem nel Nord.

1994 è parroco della parrocchia delle isole nella diocesi di Abaetetuba (Stato del Parà-Brasile), dove rimane sino al 2001. Siamo già in territorio amazzonico. La parrocchia conta con 62 comunità con una popolazione di 35 mila abitanti.

2001-2003: studia teologia pastorale e dottrina sociale della Chiesa in Spagna a Madrid. È stato lui stesso a chiedere questo periodo di studio: “in questi anni di studio ho maturato la mia formazione e impostazione sociale e pastorale”.

2003: torna in Brasile e prende una parrocchia (Tailandia nel Paranà) assieme ad un altro saveriano. Don Adolfo assume la scuola di formazione dei laici e le lezioni sulla dottrina sociale della Chiesa nella facoltà teologica della zona e nell’IPAR.

Il Vescovo Adolfo mentre passa tra i fedeli per dare il segno della pace


Dal 1998 viene invitato dal vescovo ad assumere la coordinazione della pastorale sociale.

2010-2014: è il coordinatore della pastorale diocesana.

2014: viene nominato parroco della parrocchia di san Francesco a Belem.

27 Agosto 2014: è nominato vescovo coadiutore della diocesi di Alto di Solimões.

8 novembro 2014: è consacrato vescovo

14 dicembre 2014: arrivo nella diocesi di Alto di Solimões

24 maggio 2015: accettata la rinuncia di Mons Alcimar e, automaticamente, Mons Adolfo diventa vescovo di Alto di Solimões.


Lemma episcopale: Date voi stessi da mangiare.









lunedì 25 marzo 2019

ULTIMISSIMA TAPPA: ATALAIA DEL NORD



La chiesa di Atalaia del Nord


Domenica, 24 marzo. È un giorno speciale, è il ricordo del martirio di mons. Oscar Romero, martire della Chiesa, dichiarato santo nell’ottobre dello scorso anno. Per tanti motivi sono particolarmente legato a questo santo al punto da dedicare l’Unità Pastorale a cui ero stato affidato proprio a lui. Le reiterate proteste, però, di alcuni laici e soprattutto, con mia grande sorpresa, di alcuni giovani, mi condussero a decidere di non insistere su questo nome davvero scomodo, ma segno della Chiesa che amo, quella che si sporca le mani e si schiera senza mezzi termini dalla parte dei poveri. Lo scorso anno, alla fine di agosto, ho trascorso una decina di giorni a san Salvador con un gruppo di preti e suore, guidati da Maria Soave Buscemi, sulle orme della Chiesa dei martiri salvadoregni. Romero è, infatti, il personaggio più conosciuto di una Chiesa che è stata letteralmente massacrata durante dodici lunghissimi anni di dittatura militare, che ha visto la morte di circa settantamila persone, tra i quali preti, suore, laici impegnati nelle comunità di base e, soprattutto, tantissimo contadini poveri. Il martirio di Romero va ricordato perché la sua santificazione rischia di annacquare la forza del suo messaggio, di vescovo e pastore assassinato durante una messa per il suo impegno a favore dei contadini poveri della sua diocesi di San Salvador.
Un giovane Oscar Romero


 Forse il suo martirio più profondo è avvenuto dopo la sua morte, quando una fetta significativa della Chiesa salvadoregna ha imposto un vero e proprio ostracismo sulla vita e la morte di mons. Romero, ostracismo spezzato solamente da papa Francesco pochi anni fa. La sua morte è un grido dentro alla storia contro tutti gli impostori, tutti i potenti che non hanno il minor scrupolo a schiacciare i poveri indifesi e senza parole. Romero è morto per questo, perché ha dato voce con il suo esempio e il suo impegno a quelli che non hanno voce, è stato l’anima di un popolo povero e umiliato. La morte di Romero è anche il grido di Dio contro quella Chiesa che non si fa scrupolo di abbandonare il gregge, soprattutto le sue pecorelle più indifese, per andare a braccetto con i potenti, per trarne qualche beneficio. Romero con il suo sangue sparso per i poveri dice al mondo e alla Chiesa che è Cristo il Signore della storia, è a Lui che bisogna guardare ed è Lui solo che occorre seguire e dinnanzi al quale dobbiamo piegare le ginocchia: a Lui solo.

Le "scorciatoie" di Tebito

Giornata trascorsa nell’ultima parrocchia della diocesi di Alto Solimões: Atalaia del Nord. Il viaggio in barca per giungere ad Atalaia è stato il più suggestivo realizzato sino ad ora. Siamo partiti alle sei del mattino per riuscire ad essere presenti per la messa delle otto del mattino. Per arrivare in tempo ci siamo affidati all’esperienza di Tebito, l’autista della lancia-barca della diocesi che ci ha fatto passare in mezzo alla foresta amazzonica, attraversando ben sei scorciatoie. All’arrivo ci hanno accolti i due preti saveriani- Alberto e Pino – che da pochi mesi sono a servizio della parrocchia di Atalaia. Pino è una figura incredibile che ho conosciuto lo scorso anno nel mese di agosto a san Bartolomeo. 

Padre Pino (si intravede in fondo alla foto), padre Alberto e padre Gabriel

Padre Pino Leoni è un saveriano che è arrivato in Brasile nel 1968 e dopo 46 anno era stato richiamato in Italia dal suo ordine. In Italia è durato poco, sino a quando il Vescovo Adolfo, anche lui saveriano, conoscendo la “fibra” di padre Pino, gli ha chiesto di venirlo ad aiutare. Dicevo che Pino l’ho conosciuto lo scorso anno a san Bartolomeo in un modo stranissimo. Ci eravamo messaggiati alcune volte nei mesi precedenti perché padre Pino era venuto a sapere che stavo preparando le valige per l’Amazzonia. Una mattina presto padre Pino mi telefona dicendomi che sarebbe arrivato a Reggio verso le 11, per venirmi a trovare a san Bartolomeo. Verso le 9,30 sento suonare il campanello della canonica. Mi affaccio e che c’è alla porta? Proprio lui, padre Pino che dalla stazione di Reggio prese un tram per arrivare a Coviolo e da lì è venuto a piedi – sì proprio a piedi – a san Bartolomeo. Padre Pino ha 77 anni. Questa storia la riporto volentieri perché è un grande insegnamento. Quando vedo ragazzi di 16-18 anni pretendere dai loro genitori di scarrozzarli qua e là, mi viene in mente questo missionario sorridente che bussa alla mia porta dopo essersi fatto 5 km a piedi senza tante balle.

Paola e Ilaria


Mentre parliamo dopo la messa con le persone del posto, mi accorgo che ci sono due ragazze con l’accento italiano. Sono Ilaria di Firenze e Paola di Salerno. La mamma di quest’ultima è amica di vecchia data di padre Alberto e da parecchi anni desiderava fare un viaggio in Brasile. Quest’anno ha deciso di coinvolgere la sua amica di studi – Scienza della Pace a Pisa (facoltà che non avevo mai sentito nominare) – e così eccole qua a trascorre due mesi della loro giovane vita nella terra brasiliana. Dopo qualche giorno a San Paolo sono arrivate ad Atalaia del Nord, che è una città di 76 mila Kmq e conta circa 20 mila abitanti. Sono state Paola ed Ilaria a condurci sulla riva del fiume Yavarì per mostrarci le imbarcazioni di alcuni popoli indigeni che arrivano in città per ricevere i soldi del governo, fare la spesa, e altre attività, vivendo nel periodo che stanno in città sulle loro barche, che si trasformano in case ambulanti.

Le barche in cui vivono le famiglie dei popoli indigeni quando vengono in città


La caratteristica di questa parrocchia, che è la più grande del mondo, è il suo territorio immenso, percorsa dal fiume Yavarì che è lungo 1200 km. Chiaramente le tre suore e i due preti più una laica saveriana spagnola (Marta) non riescono a coprire con il lavoro di evangelizzazione tutto questo territorio immenso. Per ora, cercano di dare continuità al servizio pastorale avviato in città. L’immenso territorio che si trova sulle rive del fiume Yavari è abitato da sei popoli indigeni. Solamente gli agenti pastorali del CIMI (Consiglio Indigenista (pro Indios) Missionario) riescono ad entrare periodicamente a contatto con questi popoli, grazie ad un progetto di Mani Tese spagnolo. Il lavoro dei tre agenti del CIMI ha come obiettivi di aiutare i popoli indigeni ad avere coscienza dei loro diritti, ad offrire orientamenti sulla salute, oltre ad un accompagnamento sul modo di coltivare alcuni prodotti. È bene ricordare che in questo immenso territorio, oltre ai sei popoli indigeni ricordati prima, ce ne sono anche sedici che non voglio nessun contatto con il mondo
Nel ritorno breve visita all’esperienza delle quattro suore di tre congregazioni religiose, che avevamo visto nel mese di giugno nella comunità di Islandia che si trova in Perù. In casa ne abbiamo trovato solo due: Emilia e Fatima. Diversamente dal nostro primo incontro, in cui manifestavano una certa pesantezza del loro lavoro pastorale, a causa della resistenza dei popoli indigeni incontrati, ore le cose sembrano migliorate. “Primo del nostro arrivo – ci dice suor Emilia- le comunità indigene venivano vistate raramente: non c’era un accompagnamento religioso e pastorale regolare. Ora che andiamo almeno una volta al mese e a volte due, la gente si sta abituando alla nostra presenza: ci aspetta e ci riconosce”.

Andremo a lavorare in ina diocesi, se il Signore vorrà, dove non mancano le sfide. Credo sia importante per la Chiesa di Reggio mantenere aperta una finestra sul cammino della Chiesa latinoamericana e, in modo particolare, ora, sulla Chiesa in Amazzonia. La ministerialità della Chiesa ci interpella per la strutturazione di comunità che dovrebbero sempre più vedere la corresponsabilità di laici e laiche. L’incontro con i popoli indigeni, l’attenzione alla loro cultura e religiosità, ci stimola a confrontarci sempre con le diversità che incontriamo, per sfuggire alla tentazione di modellare la Chiesa a tinta unica, la tinta di coloro che sono la maggioranza, escludendo le minoranze. Infine, Il cammino con la Chiesa in Amazzonia ci ricorda ogni giorno che dobbiamo prenderci sempre cura di un pianeta che stiamo distruggendo e che l’attenzione con il creato, opera di Dio, è il primo modo di dire sì alla vita.

giovedì 21 marzo 2019

ULTIMA TAPPA DELLA VISITA ALLE PARROCCHIE DELLA DIOCESI DI ALTO DE SOLIMOES




Padre Marcello con a fianco il traduttore



SAN PAOLO DI OLIVENZA

Paolo Cugini
Venerdì 15 marzo. Alla mattina quasi perdiamo la lancia! Don Gabriele aveva detto a don Washington che la lancia sarebbe arrivata alle 8, mentre quest’ultimo insisteva nel dire che sarebbe arrivata alle 9 e che quindi saremmo riusciti tranquillamente a fare colazione. Mentre stavamo sorseggiando il caffè, arriva un signore invitandoci a fare alla svelta a prendere le nostre valigie perché la lancia per San Paulo di Olivenza – la nostra prossima meta – era già arrivata ed era già sul punto di partire. Ancora una volta, purtroppo, mi tocca scrivere che don Gabriele aveva ragione: pazienza.
Più di due ore di viaggio sul rio Solimões: che spettacolo! Mentre Gabriele leggeva il suo ennesimo libro (ne ha divorati parecchi in questo periodo e tutti sul tema dell’Amazzonia), io mi sono messo dietro a contemplare il panorama. Quante piante, quanto verde, quant’acqua! Mentre viaggiavamo e contemplavo questo panorama paradisiaco, mi venivano in mente i paesaggi della Bahia che ho visto per circa quindici anni: quanta siccità! Quanta voglia di acqua che non si decideva a scendere dal cielo! Nell’ultima città in cui sono stato come parroco e in cui si trova adesso don Luca Grassi – la città di Pintadas – negli ultimi tre anni non era caduta una goccia d’acqua: roba da pazzi. Qui invece, acqua a volontà, non solo nei tantissimi fiumi, ma anche durante il giorno: piove sempre a catinelle.
Arrivati al porto non troviamo nessuno ad attenderci: forse abbiamo sbagliato giorno? In ogni modo, visto che san Paulo di Olivenza non è Parigi, ci siamo incamminati puntando la chiesa. Non abbiamo sbagliato. Arrivati alla chiesa qualcuno, su nostra richiesta, ci indica la casa parrocchiale che troviamo subito, anche perché è enorme. San Paulo di Olivenza è stata la prima sede della diocesi di Alto Solimões, quindi la casa parrocchiale era la casa in cui abitava il vescovo. Il parroco attuale è un giovanissimo prete di 36 anni, 1,85 per 120 kg circa: insomma c’è proprio tutto.  Un prete simpatico, gioviale, diocesano del sud del Brasile, un fidei donum come noi. Ci sediamo e, dopo le presentazioni di rito, iniziamo a parlare e, soprattutto ad ascoltarlo. Padre Marcello e della diocesi di Uruaçu, nello Stato di Goiais. Dopo otto anni di presbiterato chiese al vescovo di venire nella diocesi di Alto di Solimões. Dal 2011 al 2013 Marcello ha lavorato nella Pontificie Opere Missionarie nella capitale del Brasile, a Brasilia, e in questo contesto ha avuto modo di percorrere il Brasile, facendo incontri missionari e, in questo contesto ebbe la possibilità di vedere la realtà amazzonica. Siccome la diocesi di origine era abbastanza guarnita di preti, chiese al suo vescovo di venire in missione in Amazzonia con il progetto di chiese sorelle, che in Brasile è attivo dal 1972. Il contratto è triennale con possibilità di rinnovo.

 La parrocchia ha sei comunità nella città e venti lungo il fiume, anche se in realtà sono 16. Il municipio ne ha 72 di comunità, ma molte sono delle chiese evangeliche: Battista, Assemblea di Dio e la Cruzada. In parrocchia ci sono anche tre congregazioni di suore, che aiutano nel lavoro pastorale, oltre a progetti specifici del loro carisma. Una di queste aiuta i popoli indigeni a coltivare senza appiccare il fuoco.


I cinque giovani in cammino vocazionale con padre Marcello


Nella casa parrocchiale, assieme a padre Marcello, vivono anche 5 giovani – dai 17 ai 30 anni – che stanno facendo una esperienza comunitaria per un anno, con l’obiettivo di discernere per verificare la vocazione. Sono arrivati da un cammino vocazionale nelle parrocchie. Se tutto va bene il prossimo anno andranno nel propedeutico a Manaus. Questi cinque giovani si chiamano: Alex di Santo Antonio di Iça con 17 anni; Adelsono (19) e Genilson (22) di san Paolo di Olivenza; Bartolomeo e Romas di trent’anni che sono della città di Amaturà.
In questa casa non ci sono giovani di origine indigena. Nella diocesi c’è n’è uno solo – Hercules – di origine indigena d’etnia tikuna che sta in un cammino vocazionale. Non si trova qui a san Paulo di Olivenza, ma a Belém di Solimões perché i Cappuccini in questo luogo hanno svolto un lavoro vocazionale specifico, tentando formare i giovani con interesse vocazionale nella comunità. Quando vanno fuori dalla comunità, i giovani indigeni solitamente non ritornano.

Anche per Marcello la difficoltà della Chiesa cattolica in questa regione amazzonica, è la mancanza di presenza. “I preti e le suore vanno per fare una visita, spesso raramente. Solamente quando ci saranno giovani indigeni religiosi o suore l’evangelizzazione sarà possibile, perché sapranno parlare con l’idioma che la gente conosce. Questo è il motivo della grande facilità che gli evangelici hanno per entrare nelle comunità. Sono persone del posto che conoscono, quindi la lingua, diventano pastori e rimangono con la gente ad accompagnarli nella fede”. Ci sarebbe da riflettere sul diverso stile di evangelizzazione tra cattolici e protestanti, ma mi porterebbe via molto tempo. Dico solo che, a causa dei problemi sopra descritti, vale a dire una scarsissima presenza, il lavoro missionario cattolico è stato strutturato su due poli fondamentali: la sacramentalizzazione, e la diffusione delle devozioni. Per i protestanti, invece, il grande lavoro che svolgono è la conoscenza della Parola di Dio, il Vangelo. Per questo quando arrivano in una comunità se li portano via tutta: perché gli annunciano il Vangelo, parlano di Gesù e non altre storie.

Padre Marcello parla anche della grande prospettiva del Sinodo. “Il modo di essere Chiesa che abbiamo, a volte rende difficile la propria evangelizzazione. Molte cose che per noi sono efficaci, come il tema della catechesi tutti i fini settimana, qui nelle comunità sul fiume è impossibile. Altro esempio è dalla parrocchia di Belém di Solimões che non hanno il sacrario, il tabernacolo, perché secondo i Cappuccini che stanno facendo servizio là, il popolo tikuna non è ancora in grado di comprendere il mistero eucaristico”.  Poi c’è la realtà dei ministri. “In Amazzonia non ci saranno mai preti a sufficienza, così come stanno le cose. Alcuni studi propongono la figura delle diaconesse, o dei diaconi permanenti e la validità dei presbiteri sposati per l’Amazzonia. Comunque vadano le cose nel Sinodo, è necessario pensare qualcosa di nuovo rispetto a quello che c’è oggi”. Padre Marcello sostiene anche che l’Amazzonia nella Chiesa del Brasile “è stata considerato come il purgatorio, in cui venivano inviati religiosi che venivano puniti. In realtà in Amazzonia dovrebbero venire i migliori presbiteri e religiosi, proprio per la durezza dell’esperienza che l’Amazzonia propone”.

Arrivo alla comunità Maria di Nazareth

Domenica 17 marzo. Dopo la preghiera e colazione il programma prevede la messa in una comunità del fiume: Maria di Nazareth. Sono un po' emozionato (è solo un modo di dire) perché sarà la prima messa che celebriamo in una comunità totalmente indigena. Quaranta minuti di barca assieme al parroco padre Marcello e ad altre quattro persone che vengono con noi. Il clima che si respira all’arrivo nella comunità è da film Mission. Tutti parlano la lingua nativa: solo qualcuno accenna a qualche frase di portoghese. Sono davvero curioso di vedere come si svolgerà la messa. Mi colpiscono subito i volti sorridenti di tutti, non solo dei tantissimi bambini. E poi i colori: che varietà! Mentre il coro canta diversi canti nella lingua locale tikuna, padre Marcello si intrattiene con i leader religiosi e sociali della comunità: il cachiqui. Finalmente inizia la messa. Padre Marcello parla e, un maestro locale, traduce. L’impressione avuta – dovuta al fatto che in diverse occasioni ho dovuto tradurre dal portoghese all’italiano e viceversa- è che padre Marcello diceva troppe cose prima di lasciare al traduttore la parola. Quindi, a mio avviso, più che ripetere le parole del prete, il traduttore interpretava a suo modo. La messa si è svolta nel modo classico, con l’interprete che è intervenuto solo in due momenti: il Vangelo e l’omelia. Ciò significa che nella gran parte della celebrazione la gente non ha partecipato.
Finita la messa ci siamo incontrati con Gabriele in mezzo alla cappella, mentre la gente usciva e la domanda è stata spontanea e immediata: ma a che cosa serve e a chi una messa così, dove i partecipanti non capiscono nulla perché non viene celebrata nella loro lingua? È mai possibile che in tutto questo tempo non si sia mai pensato a qualcosa di diverso, più inculturato, per fare in modo che i tikuna partecipino attivamente come, tra l’altro, è indicato dallo stesso Concilio Vaticano II? Ci toccherà mettere mano anche a questo.


Foto di gruppo dopo la messa


Mentre stavamo camminando per visitare la moglie del cachiqui, che si trova ammalata da qualche giorno – la diagnosi che poi ha fatto padre Marcello è appendicite: come trasportarla all’ospedale di San Paulo di Olivenza? – ho fatto due chiacchere con uno dei capi della comunità che si chiama Gabriel. È un uomo di 37 anni padre di 8 figli (la moglie ha 36 anni). Quando gli ho chiesto se erano sposati in qualche modo o rito mi ha risposto: “Siamo amigados (accompagnati). I tikuna non hanno un rito specifico di matrimonio. Quando due giovani desiderano vivere insieme riuniscono la comunità e chiedono ai rispettivi genitori la possibilità di vivere insieme”. C’è un forte senso comunitario nelle comunità indigene.
Ho parlato con suor Dora -un’italiana del Pime sull’impressione che ho avuto osservando con attenzione alcuni volti di bambine indigene, che avevano un’apparenza strana, triste. Ho avanzato l’ipotesi dell’abuso sessuale e lei me lo ha ampiamente confermato. “Ci sono alcune psicologhe che lavorano al campo base della salute indigena e stanno aiutando le bambine e le donne proprio in questo settore. Stanno consigliando le donne di non andare sole nei campi, ma di andare assieme. Il fenomeno dell’abuso sessuale è molto diffuso, legato al tema dell’alcolismo”. Pensavo che il problema fosse legato alla cultura patriarcale, ma lei non è molto d’accordo. “È vero che le donne nelle assemblee non parlano molto, ma se una donna non è d’accordo di una cosa che è stata decisa e ne parla in casa con il marito, viene rifatta un’altra riunione per ridiscutere tutto”. Del problema della violenza sessuale sui minori ne avevano parlato anche al corso a Manaus. Mi ricordo che ne aveva parlato suor Rose, che fa parte di una équipe allargata di missionarie che lavorano sulle problematiche legate al traffico di organi e nella regione detta delle tre frontiere, che sarebbe proprio Tabatinga. Tre frontiere perché in pochi metri si toccano i confini di tre paesi: Brasile, Colombia e Perù.


COMUNITÀ DI SANTA RITA

Lunedì, 18 marzo. Alla mattina salutiamo nella preghiera padre Marcello e i cinque giovani che stanno riflettendo sulla loro vocazione e salpiamo per santa Rita. Dopo un’ora circa di battello, arriviamo a destinazione. Santa Rita è una comunità che appartiene dal punto di vista ecclesiale alla parrocchia di San Paolo di Olivenza. In questa comunità vive una comunità di tre suore del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) due italiane – Laura e Dora – e una brasiliana: Odete. Sono qui da circa un anno. “Quando siamo arrivate lo scorso anno – ci racconta suor Dora – nella casa c’era solo una stanza: il resto lo stavano mettendo a posto. Entrando in “casa” padre Marcello disse: ho un’idea, andiamo a trascorrere una settimana a san Paolo di Olivenza!”.
La chiesa della comunità santa Rita



La comunità di Santa Rita, dal punto di vista religioso è quasi tutta protestante. Dal punto di vista sociale è forse la realtà più povera incontrata sino ad ora: il che è tutto dire. La presenza delle te suore del PIME a santa Rita corrisponde all’intuizione pastorale del vescovo Adolfo: non si può più pensare di pretendere di fare missione solamente visitando ogni tanto le comunità come si è sempre fatto: occorre vivere in mezzo alla gente, occorre essere presenza. Don Adolfo sta invitando suore, laici e presbiteri da varie parti del Brasile a viere nelle comunità della diocesi, per essere vicini alle comunità indigene. Verso sera – cioè le 17, visto che il sole viene giù molto presto – facciamo un giro nel paesino, per avvisare alcune persone per la messa di domani. Ne approfittiamo anche per entrare in alcuni negozi. Suor Odete ci spiega che il commercio locale è tutto in mano ai peruani (abitanti del Perù). Ci spiega anche i meccanismi loschi che stanno avvenendo in questi negozi, che lei stessa ha potuto verificare. “La carta di credito delle famiglie povere che ricevono la pensione o i benefici del governo viene presa dai commercianti peruani, che trattengono metà della mensilità da spendere nei loro negozi. Questo tipo di atteggiamento è proibito per legge. Il problema è che qui siamo così fuori dal mondo che chiunque fa ciò che vuole e i poveri ci rimettono”.  Dalle parole di suor Odete capiamo che è anche difficile organizzare un lavoro di coscientizzazione. “I popoli kokama e tikuna che vivono qui, accettano passivamente la situazione: non sono abituati a ribellarsi dinanzi alle ingiustizie”.

Momento di preghiera con le suore del PIME

Martedì, 19 marzo. Alla mattina preghiamo insieme con le suore: lodi della solennità di san Giuseppe. Dopo colazione cerchiamo Nicanor, che è il cachiqui della comunità che, in canoa ci porta a visitare alcune comunità vicine. Se fosse stagione di bassa marea le comunità potrebbero essere raggiunte a piedi, ma essendo stagione di alta marea, il fiume si è alzato e sta allagando tutto il paese, comprese le strade. Con Nicanor (di anni 81), quindi, prendiamo una canoa: e qui comincia l’avventura. Infatti, appena entriamo nell’igarapé (è una parte del fiume che entra in uno spazio senza uscita) con la canoa, guidata da Nicanor e da una ragazzina di 13 anni chiamata Rita, cerchiamo di entrare nel fiume Solimões (che sarebbe il fiume delle Amazzoni). Nicanor e Rita, nonostante remino con tutte le forze, non riescono a remare contro corrente, in direzione della comunità di Porto Franco verso cui siamo diretti, e la canoa per alcuni momenti è trascinata dalla forte corrente del fiume. 
Don Gabriele al lavoro per non affondare!


Per fortuna, da lontano Nicanor vede la barca a motore di uno dei suoi 7 figli e lo invita ad affiancarsi. A quel punto Nicanor lega la nostra canoa alla barca del figlio, che lentamente ci trascina al posto desiderato. Appena arrivati suor Dora riconosce sulla strada della comunità, la psicologa Renata, di Manaus, che visita le famiglie, e soprattutto attende donne che hanno subito violenze. Oltre a ciò, entra nelle scuole per orientare i giovani sui temi dell’alcol e della droga. Assieme a Renata e ad alcune persone della sua équipe facciamo due passi per la comunità per conoscere un po' il territorio.
Don Gabriele e suor Laura in visita al quartiere allagato


Nel pomeriggio visita al quartiere di Santa Rita chiamato favela. È la zona più povera della comunità. Quasi tutto il quartiere è evangelico. Mentre passiamo vari bambini e signore riconoscono le suore, che salutano con calore. Tra una zona allagata e una no, attraversiamo il quartiere in mezzo a campetti di calcio improvvisati in cui giocano tanti bambini e ragazzi/e. Mentre camminiamo in mezzo a tanta povertà penso alla vita di queste tre suore. Ci vuole veramente tanta fede, tanto amore, anzi un amore per Dio fuori dal normale, per accettare la proposta di vivere in mezzo a questo nulla. È vero che sono tre donne con dell’iniziativa, ognuna con caratteristiche e doni diversi. In ogni modo, la loro presenza qui chiama in causa molte pagine del Vangelo, le pagine della sequela a Gesù che chiede di rinnegare se stessi, di rinunciare a tutto. Nella vita di queste tre donne a Santa Rita appare lo stile del seme gettato nel terreno, del fermento nella massa, di qualcosa che viene svolto in piena e pura fiducia, affidandosi a Dio, più che alla possibilità di controllare i risultati di un lavoro svolto. Per chi nasce qui forse è normale, ma per chi viene dall’Italia o dal sud del Brasile, molto normale non è.

Foto di gruppo dopo la messa nella cappella della comunità santa Rita

Alla sera messa nella cappella di santa Rita. Celebriamo la solennità di san Giuseppe. Nella piccola chiesetta arrivano lentamente alcune persone. Oltre alla celebrazione domenicale realizzata dalle suore, nella cappella durante la settimana viene celebrato il rosario, oltre alla catechesi dei bambini. Alla celebrazione guidata da don Gabriele e ben preparata, le persone si lasciano coinvolgere. È un bel momento che rimarrà senza dubbio segnato nella loro memoria.


lunedì 18 marzo 2019

AMATURA'



Paolo Cugini

Mercoledì, 13 marzo. Alla mattina verso le 7,30 partenza da Tonantis per Amaturà. La cosa interessante in questa diocesi è che cambiando parrocchia, spesso cambia anche il fuso orario. Arrivati ad Amaturà, infatti, abbiamo messo l’orologio indietro di un’ora. Ci siamo messi a cercar la segreteria parrocchiale per incontrare il parroco e la segretaria ci ha comunicato che il parroco si trovava a verificare la costruzione di una cappella nella periferia della città. Abbiamo seguito le indicazioni della segretaria e ci siamo diretti alla cappella, che abbiamo trovato, ma il parroco non c’era. Ci siamo guardati un po' intorno e siamo tornati nella piazza della città, molto tranquilla e calma. Altri ritmi rispetto a Reggio. Amaturà è la parrocchia più piccola della diocesi, con tre comunità in città e una ventina lungo il fiume. Finalmente conosciamo il parroco: don Washington, un prete diocesano colombiano e di Medellin come don Gonzalo di Tonantis. Don Washington è prete da cinque anni e, dopo aver trascorso i primi due nella sede a Tabatinga, il vescovo Adolfo lo ha nominato parroco ad Amaturà per sostituire i francescani. “Appena arrivato – racconta sorridendo – ho scoperto che non c’era la casa parrocchiale. Anzi c’era, ma i frati avevano affittato le strutture parrocchiali al Municipio e ci sono voluti alcuni mesi per spiegare al sindaco che come parroco dipendeva dal Vescovo e non da lui”. 
O padre Washington con la maglua bianca e verde mentre parla in una xomunutà


Dopo i primi mesi vissuti in una casa in affitto e dopo essersi spiegato con il sindaco, don Washington ha potuto finalmente risiedere nella casa parrocchiale, anche se una buna parte delle strutture costruite dai francescani sono ancora attualmente in affitto al Municipio. Tutta la diocesi di Alto Solimões è stata gestita dai francescani sin dagli inizi, che con grande ardore hanno evangelizzato la regione che è ampia come mezza Italia (con circa duecento mila abitanti). 
Nel pomeriggio visita alle comunità della città. “Quando sono arrivato due anni fa, c’era solo la Chiesa di san Cristoforo, in centro. Quando ho visto la situazione, ho parlato con il vescovo Adolfo dicendogli che nei primi tre anni avrei lavorato per mettere la parrocchia in condizione di lavorare pastoralmente. E così assieme alle comunità, abbiamo deciso di costruire le cappelle nei principali quartieri della città”. Oggi le cappelle sono tre (in realtà due devono ancora essere finite, ma la gente le utilizza già per celebrare). Ogni settimana nelle cappelle la gente si trova per recitare il rosario e per celebrare. Don Washington ha deciso di affidare ai tre padri di famiglia che si stanno preparando per il diaconato permanente, una comunità a testa per organizzare la pastorale della comunità. L’idea è che in ogni comunità della città funzioni la pastorale della decima, la catechesi, la pastorale dei bambini, il gruppo giovani e altri servizi necessari. 

Arrivo alla comunità indigena Canibarù

Giovedì 14 marzo. Alla mattina, dopo colazione, partenza per la visita di tre comunità: Canibarù, Buon Pastor e Nuova Italia. Sulla barca con noi ci sono anche Rodrigo che si sta preparando ad essere diacono e un assessore comunale. Rodrigo ha 41 anni, ha tre figli ed è già nonno! (BAU!). La comunità di Canibarù è l’unica cattolica delle tre. Appena arrivati abbiamo incontrato la leader della comunità e altre persone. Ci siamo poi, diretti alla cappella che da circa due anni stanno tentando di costruire. Mentre qualcuno suonava le campane, un altro avvisava della nostra presenza attraverso degli altoparlanti. In poco tempo la cappella si è riempita di gente, soprattutto di giovani e bambini. Don Washington ha spiegato subito che non si trattava di una messa, ma di una visita di amici preti venuti dall’Italia. Le tre comunità che stiamo visitando questa mattina, sono state fondate dai missionari francescani. La gente ricorda i nomi di due frati Cappuccini: frate Enrico – recentemente scomparso- e frate Benigno. Tutti hanno un ottimo ricordo di questi frati e della loro presenza nelle comunità. Appena sono andati via loro, i successori – a detta del futuro diacono Rodrigo, non più frati di provenienza italiana, ma brasiliana – hanno concentrato il lavoro pastorale nella città di Amaturà, lasciando quindi perdere l’accompagnamento delle comunità sul fiume. Occorre dire, per comprendere meglio il contesto, che il lavoro di accompagnamento pastorale delle comunità che si trovano sul fiume è molto costoso. Mentre ero al corso d’inculturazione nella realtà amazzonica a Manaus, parlando un giorno con padre Luciano – di Padova, che lavora già da due anni in Amazzonia – tutte le volte che visita le comunità del fiume, in barca portando con sé qualche persona, che l’aiutano nel lavoro pastorale e rimanendo sul fiume per 15/20 giorni, spende circa 14 mila reais (tradotto in euro: circa tremila euro). Andando nelle comunità con la barca occorre, per legge, portarsi l’autista e la cuoca, che hanno un loro costo. Oltre a ciò, c’è da considerare gli alimenti per 20 giorni, l’acqua e la benzina.

Ogni famiglia che appartiene al gruppo religioso della Cruzada pone una targhetta come questa affisso sulla casa



 Quello che è avvenuto in diverse comunità della parrocchia di Amaturà con i nuovi Cappuccini che, per diverse ragioni, hanno abbandonato l’accompagnamento pastorale, è che i gruppi evangelici sono entrati e si sono stabilizzati. Nella comunità buon Pastore sono tutti evangelici, mentre nella comunità Nuova Italia, una parte è del gruppo Cruzada (è un gruppo fondato da un laico cattolico negli anni ’70 del secolo scorso proprio in questa regione di Solimões e che si è diffusa in diverse comunità) e l’altra parte della comunità appartiene al gruppo evangelico denominato Assemblea di Dio. Ciò significa che, in queste due comunità, i cattolici sono scomparsi. La mancanza di presenza provoca nelle persone la ricerca di un cibo spirituale da altre parti. È del resto, simile al fenomeno che avviene con le persone delle comunità incontrate nella diocesi di Ruy Barbosa dello Stato della Bahia che, quando vanno in cerca di lavoro nelle grandi città, andando ad abitare nei quartieri poveri, non incontrando la presenza della Chiesa cattolica, iniziano a frequentare le chiese evangeliche. “Mons Adolfo – ci dice padre Washington mentre camminiamo nelle strade della comunità nuova Italia – mi ha chiesto di entrare nelle due comunità evangeliche per cercare di recuperare qualche cattolico. Io gli ho risposto che non ha senso: gli evangelici credono in Gesù Cristo e hanno già il pastore che li aiuta nel loro cammino”. 


Qualcuno mi ha chiesto che senso ha andare in Amazzonia a rompere le scatole ai popoli indigeni. La Chiesa è presente in Amazzonia da alcuni secoli: c’è già quindi un cammino di Chiesa e delle esperienze ecclesiali molto diversificate tra loro. L’annuncio del Vangelo alle genti è un comando che il Signore ha dato prima di tornare al Padre. Ho riflettuto molto su questo comando di Gesù. Tra le tante cose che si potrebbero scrivere, penso che uno dei motivi che ci sta dietro al comando del Signore consiste nel permettere a tutti di cogliere la ricchezza delle Spirito Santo presente nelle culture e nelle religioni sparse nel mondo. Se uno sta rinchiuso nel suo guscio, non scoprirà mai la bellezza che c’è fuori dalla propria capanna e che Dio sta realizzando in ogni angolo del pianeta, dell’universo. Quando una diocesi – come quella di Reggio – decide di farsi presente in altri paesi, vuole dire che sta aprendo le proprie finestre affinché entri il soffio dello Spirito, con quei colori e quelle sfumature diverse, che dicono della pluralità e diversità dello Spirito Santo. Il problema che stiamo incontrando visitando da vicino le comunità, è che non sempre il lavoro missionario ha saputo ascoltare e accompagnare la novità culturale e religiosa di questi popoli, aiutandoli ad assimilare la forza del Vangelo, rispettando le loro dinamiche, la loro cultura, per vedere le cose nuove che lo Spirito Santo stava promovendo in questo contesto. Sono solo impressioni che dovranno essere verificate nel tempo e da vicino, ma che comunque mi servono per fare il punto di ciò che stiamo incontrando. 

Padre Gabeiek assiene al futuro diacobo permanente mentre ci dirigiamo alle comunità sul fiume

sabato 16 marzo 2019

TONANTIS

La chiesa della parrocchia di Tonantis


Paolo Cugini

Domenica 10 marzo. Alla mattina sia Gabriele che io abbiamo celebrato messa nelle comunità della città di Santo Antonio do Iça. Nel pomeriggio, partenza per la parrocchia di Tonantis. Assieme al vescovo Adolfo, abbiamo deciso di non fermarci tutto il tempo a Santo Antonio do Iça, ma di visitare le altre parrocchie della diocesi per conoscere meglio la realtà e poi per fare conoscenza dei presbiteri e delle religiose che vi operano. E così, al pomeriggio, siamo arrivati in un’ora di Lancia (imbarcazione veloce sul fiume) a Tonantis. Al piccolo porto della cittadina c’erano ad attenderci una religiosa, suor Benice e il parroco: pe Gonzalo Franco. Tonantis è l’ultima parrocchia della diocesi, la prima se si viene da Manaus. È una cittadina di 20 mila abitanti con 12 comunità nella città e venti sul fiume Solimões.
Padre Gonzalo e padre Gabriele


Il lavoro pastorale non manca. Padre Gonzalo è di origine Colombiana. È qui da soli sette mesi e conosce già tutti, soprattutto i giovani. Prima di giungere a Tonantis, pe Gonzalo è stato in Italia sei anni a studiare teologia. Si è licenziato (corrisponde ad un master di due anni nelle università statali) in mariologia con una tesi sul tema della presenza di Maria nei documenti della Conferenza episcopale Latinoamericana. Ora, si è incardinato nella diocesi di Alto di Solimões e serve le comunità della parrocchia di Tonantis con molto entusiasmo. Lo si capisce dal rapporto che ha con la gente, sia mentre cammina per strada, che mentre celebra. Alla sera, messa nella comunità san Francesco, una delle comunità della città. Ha celebrato Gabriele che, in questo contesto, si sente proprio a casa. Molti giovani erano presenti alla messa e, subito dopo, si sono fermati a parlare con noi. Due di loro si sono presentati come facenti parte del gruppo vocazionale: Jefferson e Leandro si stanno preparando per andare in seminario.


Lunedì, 11 marzo. Alla mattina, dopo le lodi, colazione. Mentre prendevamo il caffè don Gonzalo ci ha raccontato un po' di sé e della parrocchia. “Tonantis è la parrocchia più cattolica della diocesi, anche se è stata per più di vent’anni senza un prete: forse sarà per questo (risate dei presenti). Qui i laici si sono organizzati per trasmettere la fede alle nuove generazioni. Impressionante è l’adorazione eucaristica del giovedì sera nella chiesa principale: c’è più gente in questa occasione che alla messa domenicale. I laici nelle comunità hanno mantenuto viva la fede del popolo con le devozioni ai santi e a Maria, con le novene”.
Una delle cappelle delle comunità della città


La Diocesi di Alto Solimões ha una percentuale molto bassa di cattolici: 54%. Secondo il vescovo Adolfo, sono due i motivi di questa percentuale così bassa. Il primo, è che il territorio è così vasto che è difficilissimo garantire una presenza stabile, anche perché è un territorio che presenta molte difficoltà: la selva, le comunità sulla riva del fiume, oltre a tante altre. Il secondo motivo, che è legato al primo, è che proprio in questa situazione di presenza parziale della Chiesa cattolica, i gruppi evangelici hanno trovato il campo libero per la loro azione. Oltre a ciò, è importante comprendere le diverse modalità di azione missionaria. Mentre i cattolici, infatti, quando arrivano su un territorio non possono garantire la presenza in ogni comunità, ma dalla città i presbiteri o i frati visitano le singole comunità tre o quattro volte all’anno (quando va bene), al contrario i gruppi protestanti, quando arrivano in una comunità, si stabilizzano lì. I pastori evangelici si riproducono come funghi; non devono compiere studi teologici (basta sapere un po' di bibbia ed essere capaci di predicare: è tutto quello che serve) e, soprattutto, non hanno l’obbligo del celibato per cui, quando arrivano in un luogo, mettono su casa e vivono con la decima della comunità. Per questo motivo, ci sono molte aspettative sul sinodo Pan-amazzonico che si svolgerà in ottobre a Roma e che, tra le altre cose, rifletterà sul tipo di ministerialità da attuare in zone come queste. A mio avviso, è questo il grande errore che la Chiesa compie tutte le volte che impone un unico modello per tutte le comunità sparse nel mondo. Non si può applicare quello che è stato pensato per la realtà italiana, quello che è sorto da uno specifico cammino svoto nei secoli ad una realtà come quella amazzonica: è assurdo. Basterebbe che qualche porporato, uscisse dal proprio ufficio per trascorrere qualche mese nelle comunità dell’Amazzonia. Senza dubbio tornerebbe a casa con le idee cambiate perché, come giustamente ci insegna papa Francesco: la realtà precede l’idea (secondo Gabriele, invece, anche se i porporati venissero in Amazzonia non cambierebbero idea. Non ho chiesto il perché: temevo la risposta).
Una delle tante chiese evangeliche che si trova in città



Dopo colazione, visita alla casa delle suore. Sono due suore (Benice e Lucia) della congregazione di Santa Caterina di Alessandria, presenti nella parrocchia di Tonantis da 30. Con loro c’è anche una novizia. Padre Gonzalo discute con loro su alcune problematiche delle comunità della parrocchia. 
Verso le 10,30 visita ad alcune comunità della città. Dalle parole di pe Gonzalo, mentre ci parla delle comunità, traspare il suo amore per la Chiesa e per il suo ministero. Si capisce bene che è molto contento di stare qui, con questa gente. Ha organizzato un torneo di calcio coinvolgendo le comunità. Da questo torneo è nato un nuovo impulso per la pastorale giovanile e i giovani stanno ritornando alla chiesa. “Nella comunità san Espedito, i giovani, dopo il torneo, si sono interessati per ricostruire la cappella” In un contesto in cui non viene offerto nulla, dove non ci sono proposte se non l’alcool, la musica e poco altro, qualsiasi altra proposta positiva viene accolta immediatamente dai giovani. In città non c’è lavoro e i giovani dopo le superiori (sono tre anni) non sanno cosa fare, anche perché non tutti hanno le condizioni di entrare all’università. Colpisce, infatti, la grande presenza di giovani, sia per strada che nelle comunità. Ieri sera, tornati dalla messa nella comunità San Francesco, nella piazza dinanzi alla chiesa centrale, c’erano molti giovani, quasi tutti conosciuti da padre Gonzalo. Siamo, poi passati dinanzi a tre cappelle di uno stesso quartiere. “Qui ci sono tre famiglie che hanno costruito le loro cappelle per i loro interessi. Sono le famiglie che sino ad ora hanno gestito la vita della comunità, con le conseguenze negative che potete immaginare. Ho già parlato con loro per cambiare la dirigenza, ma non è facile”. 
Mentre siamo in macchina e attraversiamo il quartiere “La missione”, padre Gonzalo ci dice che ha notato una presenza significativa di persone omosessuali. “Ne ho incontrato parecchi. Il mio predecessore era un ottimo prete, ma con un’impostazione molto rigida, tridentina e aveva allontanato le persone omosessuali dalla chiesa. Lentamente stanno tornando. L’aspetto più significativo è che le persone della comunità non dicono nulla, non giudicano: li accettano senza problemi”. Che gioia sentivo nel cuore ascoltando questi discorsi da un prete diocesano! Senza dubbio, padre Gonzalo non sapeva e non poteva certo immaginare che in macchina con lui c’era don Gabriele, che lavora da anni sulla strada accompagnando il cammino spirituale di transessuali e il sottoscritto, che ha accompagnato il cammino ecclesiale dei cristiani LGBT a Reggio. 
Nelle comunità le persone si ritrovano tutti i martedì per la recita del rosario e la lettura del Vangelo e poi celebrano anche alla domenica. Le comunità maggiori, come quella di san Francesco in cui abbiamo celebrato l’Eucaristia ieri sera, sono attivi molti servizi pastorali: ministri della Parola, dell’Eucaristia, della decima, ecc.

Il quartiere Missione

Martedì 12 marzo. A colazione, dopo le lodi, padre Gonzalo ci racconta di un episodio avvenuto nel 2008, appena ordinato presbitero. In quel periodo prestava servizio a Tabatinga. Un giorno, giungono in città circa 1200 haitiani (abitanti di Haiti) in fuga dal terremoto avvenuto nel loro paese. Tabatinga è una città di frontiera tra Perù e Colombia. Si era diffusa la voce che in Brasile offrivano lavoro e casa ai rifugiati e, per questo, la rotta degli haitiani era il Brasile. La stessa ONU intervenne nella faccenda e padre Gonzalo fu nominato per coordinare i lavori nella parrocchia della cattedrale. I 1.200 haitiani rimasero due anni ospiti di padre Gonzalo negli ambienti della parrocchia. “Le donne le misi a dormire in chiesa e gli uomini fuori. Organizzavamo un pasto al giorno fatto di fagioli e riso. Per raccogliere alimenti abbiamo organizzato tornei di calcio e, per entrare allo stadio, occorreva portare un kg di alimenti. Avevo scritto anche alle squadre di calcio della serie A italiana. Ci rispose solamente il Milan che ci donò 28 mute complete. Riuscimmo a venderle su internet e, con il ricavato, abbiamo dato da mangiare per due anni a 1200 haitiani”. Padre Gonzalo ridendo ci dice che a causa di questo servizio era stato indagato per traffico di haitiani. In quel periodo a Tabatinga erano spariti i gatti (Miaooo!).