venerdì 29 aprile 2022

CREDO NELLA RISIRREZIONE DELLA CARNE - INCONTRO CON LA TEOLOGA CRISTINA SIMONELLI

 




GALEAZZA, BEVIACQUA, PALATA PEPOLI, DODICI MORELLI


I VENERDI TEOLOGICI

 


VENERDI 29 APRILE 2022



 

Sintesi: Paolo Cugini

 

Credo alla resurrezione della carne riguarda la nostra vita attuale: cosa vale? Cosa ne resta? Perché parliamo di resurrezione della carne? Che cosa significa? È una domanda sul nostro oggi proiettato nel tempo di Dio.

Viene dal simbolo apostolico, una delle forme più antiche.

Dopo aver detto credo in… c’è la resurrezione della carne e la vita eterna.

Ad Aquileia, Ruffino del IV secolo, si dice soltanto la risurrezione di questa carne.

Carne, corpo. Nei testi di Giovanni, Paolo troviamo espressioni diverse. Nel prologo di Giovanni: e il verbo si fece carne.

Oppure Gv 6: il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.

Mc: prendete questo è il mio corpo

In Paolo c’è un aspetto negativo del corpo. 1 Cor 15: vien seminato un corpo animale, risorge un corpo splendente.

Nel mondo ebraico c’è una parola che viene tradotto dal mondo greco con carne, che indica la fragilità. Quello che c’interessa è che qui quando si dice carne, non ci si riferisce ad una parte dell’essere umano, ma all’essere umano come un tutt’uno.

Carne vuole dire il tutto dell’essere umano. Dio benedice per sempre la mia realtà nella sua concretezza, delle relazioni.

Credo nella resurrezione della carne: sta in bilico tra due strapiombi. Chi ha coniato questa espressione volevano dire credo non una cosa come l’immortalità dell’anima.

Alcune chiese che venivano dalla riflessione filosofica greca, come Origene, non amavano troppo questa espressione. Nello sfondo c’è a resurrezione di Gesù.

Che cosa significa resurrezione della carne? È la riedificazione della carne, come Lazzaro?

1 Cor 15,35s: c’è una continuità e una discontinuità. Altro è un corpo corruttibile, altro un corpo incorruttibile. Ci sono dei modelli diversi che interpretano la salvezza, che cosa ne è di noi.

Modello che interpreta la relazione dell’anima con Dio: è un’interpretazione che non prende in considerazione il corpo.

Altro modello: sonno della pace. Quanto dura?

Altro modello siriaco: Alla morte del messia, lo Spirito Santo sta vicino al sepolcro e grida a Dio fino a quando Dio lo solleva.

Resurrezione nella morte. C’è un tempo di durato e un tempo di Dio.

Vita eterna vuole dire vita di una qualità diversa.

Resurrezione come consegna a Dio, che come ha creato può far rinascere. Il testo non vuole dire il come. Anche Paolo afferma questo.

Non è un’altra cosa e non è però neanche uguaglianza. Ma una continuità nella discontinuità. 

LA VIOLENZA NEGATA - ROMA 13 MAGGIO 2022

 


ADOLESCENTI, AFFETTIVITA’ E SESSUALITA’: PARLIAMONE




 Paolo Cugini

Il mondo degli adolescenti, da sempre, non è di facile accesso. È un periodo delicato della vita, fatto di cambiamenti, di formazione dell’identità e, in questo cammino, la dimensione affettiva e sessuale ha un ruolo rilevante. Su questi argomenti spesso gli adolescenti sembrano sicuri, a volte spavaldi, ma in realtà c’è molta confusione e insicurezza sull’argomento. È, inoltre, difficile incontrare persone competenti e capaci di accompagnare gli adolescenti in questa fase delicata della vita e, soprattutto, capaci di offrire loro più che delle risposte, degli strumenti in grado di aiutarli a comprendere il proprio vissuto affettivo.

Le parrocchie di Dodici Morelli, Galeazza, Palata Pepoli e Bevilacqua, hanno pensato di rivolgersi per questo tipo di servizio pastorale, a Elena Ferrari, pediatra e sessuologa di Reggio Emilia, madre di due figli e da anni presente sul territorio con questo tipo di attenzione. Abbiamo realizzato due incontri: uno con i ragazzi e uno con i genitori. L’obiettivo degli incontri è stato quello di sondare il terreno, vedere e capire che cosa sta bollendo nella pentola dell’affettività e sessualità adolescenziale negli adolescenti del nostro territorio e, inoltre, comprendere dai genitori la disponibilità ad un percorso formativo sul tema in questione. “Occorre aiutare gli adolescenti – ha affermato Elena Ferrari- a capire che affettività e sessualità sono un dono bellissimo che il Signore ci ha fatto.  Nessuno parla di come imparare a conoscersi e a conoscere l’altro.  Sessualità come valore e come dono, come rispetto di sé del proprio corpo e del corpo dell’altro. Abituarsi a confrontarsi con le emozioni, sentimenti, anche quelli che ci hanno fatto soffrire”.

Elena Ferrari, pediatra e sessuologa di Reggio Emilia


È questo un primo passo fondamentale, perché permette agli adolescenti un bagno di realtà su un tema che spesso viene presentato in modo artefatto e fuorviante. La pediatra ci ha ricordato che oggi il problema vero non è la sessualità vissuta, ma è la sessualità virtuale. Gli adolescenti, dicono le ricerche, fanno sempre più uso della sessualità in internet. Secondo alcune ricerche apparse recentemente sui giornali, In Italia l’età media di accesso al porno è 11 anni. “Non c’è niente di peggio che la pornografia perché crea dipendenza. Sarebbe importante – ha continuato la Ferrari - tenere aperto come genitori un canale di comunicazione, facendo passare un messaggio positivo sulla sessualità, senza demonizzare. Spesso i ragazzi sono soli”.

Oggi i ragazzi/e si sentono pronti per gestire delle relazioni intime, ma sono poco informati, molto confusi e mettono alla porta la dimensione affettiva. Gli adolescenti iniziano a sperimentare la sessualità in età sempre più precoce e senza consapevolezza dei rischi. Per questo è importante costruire attorno a loro punti di riferimento ai quali potersi rivolgere e, un percorso formativo di questo livello, non può che giovare sia loro che alla serenità dei genitori.

 Per arginare questa solitudine su un tema delicato come questo, nell’incontro con i genitori, alla fine del dibattitto con Elena Ferrari, si è deciso di dare continuità al percorso formativo e di estenderlo anche ai preadolescenti delle medie. Ci vediamo a ottobre. 

mercoledì 27 aprile 2022

CARDINALE MATTEO ZUPPI: PROMUOVIAMO LA PACE CON LA RICONCILIAZIONE

 



“Esiste il diritto alla legittima difesa, ma ancora di più c'è il diritto alla pace. La spada non la vinci con la spada. Anzi, una nuova spada produce altre spade. Certo non possiamo considerare mai allo stesso modo la vittima e il carnefice. Occorre promuovere la pacificazione attraverso la riconciliazione, in modo da fermare l'aggressore e salvare la gente. Ogni minuto quanti sono uccisi, feriti, sfollati? La prima mossa deve essere - oltre alla preghiera e al nostro, personale, disarmo interiore - umanitaria: proteggere i più deboli, le vittime. E poi cercare attivamente il modo di interrompere la catena malefica dell'occhio per occhio. Per questo il simbolo del pensiero cristiano sono Irina, infermiera ucraina, e la sua amica Albina, studentessa russa, che insieme hanno portato la croce con il Papa. Simbolo decisivo nel presente che aiuta a preparare il futuro." (Cardinale Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna 24 aprile 2022).

venerdì 22 aprile 2022

EDUCARE CAMMINANDO A FIANCO - UN LIBRO DA LEGGERE

 




Paolo Cugini


È uscito in questi giorni Sulle strade verso Emmaus – per un’educazione che si fa cammino, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 2022”, l’opera prima del giovane educatore reggiano Francesco Santarello, per gli amici Ciri.  

Una delle caratteristiche più significative dello stile educativo di Ciri è la capacità di elaborare percorsi educativi a partire dall’esperienza concreta dei ragazzi che incontra. L’arte dell’ascolto, dell’avvicinarsi del camminare assieme (sono temi trattati nel libro) non si apprende sui libri, ma si coltiva nel cuore e, soprattutto, fiorisce dall’amore che si mette nelle relazioni che curiamo. Non è un caso, allora, che l’autore narri in due tempi cinque storie di giovani incontrati nel cammino della vita, un cammino fatto di vita vera, quella vita che spesso è piena di difficoltà, di momenti oscuri, di smarrimenti. Sebastiano, Sofia, Alex, Francesco e Camilla – sono questi i nomi dei protagonisti del libro – sono giovani che in un modo o nell’altro passano da Emmaus a Gerusalemme, da situazioni di smarrimento alla luce del Mistero incontrato che riorienta l’esistenza.

Il libro di Francesco Santarello è scritto con il linguaggio della vita, che va all’essenziale, quel linguaggio che non comunica appena concetti, ma che li riesce a trasmettere con la forma che prende il vissuto quotidiano. Si legge, tra le righe, l’amore dell’autore per i giovani incontrati, la passione dell’educatore che ha capito che lavorare con i ragazzi e le ragazze in una prospettiva educativa esige la pazienza dell’agricoltore, che sa aspettare il tempo propizio, senza forzare la mano, nella consapevolezza che ogni persona è un prodigio, un dono diverso di Dio per l’umanità.

C’è un altro aspetto fondamentale nell’arte educativa di Ciri, che si respira in ogni pagina della sua opera prima: la fede. Ciri è un giovane padre di famiglia, cresciuto all’ombra del campanile, per così dire, in continua ricerca del volto del Signore non solo nell’ascolto della sua Parola, ma anche nelle relazioni che instaura. La profonda umanità che si coglie leggendo le pagine del libro, accompagnando le storie di Sebastiano, Sofia, Alex, Francesco e Camilla è la stessa che Ciri mette nel cortile dell’oratorio quando gioca con i ragazzi o in uno dei tanti momenti formativi con gli educatori. C’è l’annuncio del Vangelo che viene proclamato dal pulpito e c’è quello che passa attraverso gli sguardi, gli atteggiamenti, il modo di essere, le scelte quotidiane.

Consiglio la lettura di questo libro non solo agli educatori di professione, ma anche ai catechisti, ai genitori, a tutti coloro che cercano ogni giorno di avvicinarsi al prossimo per consegnare qualcosa di buono, per collaborare alla costruzione di un mondo più vero e umano. Buona lettura.

 Una nota di merito va alle Edizioni San Lorenzo che, in questi ultimi anni, si sta facendo promotrice di percorsi nuovi, per certi aspetti diversi, com'è appunto il percorso educativo di Francesco Santarello.  

Francesco Santarello, per i conoscenti più famoso come Ciri (storia di un soprannome che ha a che fare col suo essere educatore e formatore oggi), è nato nel 1986 a Correggio (RE), sposato dal 2017 con Benedetta, oggi hanno una figlia di nome Letizia. Francesco è educatore professionale con una carriera che spazia dall’ambito scolastico a quello oratoriano. Si occupa in particolare dell’educazione delle giovani generazioni, dalle elementari agli universitari: panorama che gli offre la possibilità di capire le differenze enormi che esistono fra un bambino e un preadolescente, fra un preadolescente e un adolescente, fra un adolescente e un giovane.

 

Don Michele Falabretti, (curatore dell'introduzione) prete di Bergamo, viene dall’esperienza dell’oratorio e ne ha conservato amore viscerale («Non so perché i vescovi italiani abbiano chiamato me. Più che conoscere la mia persona, credo conoscano molto bene l’esperienza di cura dei ragazzi e dei giovani così come la si fa in Lombardia»), è stato nominato Responsabile del Servizio Nazionale di Pastorale Giovanile della CEI nel 2012, e riconfermato nel 2017 con un secondo mandato quinquennale.  Ha partecipato come esperto al Sinodo dei giovani. Ha inoltre organizzato diversi Convegni Nazionali di Pastorale Giovanile. Collabora da anni con la rivista Note di Pastorale Giovanile. 

 

Acquista il libro qui: SULLE STRADE VERSO EMMAUS - di FRANCESCO SANTARELLO, int. MICHELE FALA – Edizioni San Lorenzo

giovedì 21 aprile 2022

Le intuizioni del Concilio Vaticano II sulla liturgia





Paolo Cugini

Il punto di partenza per una riflessione sulla liturgia è il CV II, la cui riforma liturgica è stata una vera e propria rivoluzione nei confronti dell’impostazione tridentina. Con buna pace dei sostenitori dell’ermeneutica della continuità, la riforma liturgica del CVII ha rappresentato una discontinuità radicale nei confronti della tradizione in vigore. Si è, infatti, passati da un’impostazione sacrale che vedeva il sacerdote come unico protagonista della relazione con il sacro, ad una visione comunitaria della liturgia. L’impostazione tridentina riportava al centro quella struttura sacerdotale così osteggiata da Gesù al punto da essere la causa della sua morte. La perdita di contatto con la narrazione originale aveva prodotto il paradosso di capovolgere l’impostazione iniziale. L’impostazione tridentina aveva ridotto la liturgia ad un’esecuzione minuziosa e meticolosa di norme e di rubriche al punto da identificare la validità del rito con l’esecuzione fedele delle stesse. E così, il rito diventa valido quando tutto viene eseguito alla perfezione secondo le norme e quando il sacerdote proferisce fedelmente le parole scritte sulle rubriche, senza alcuno spazio all’interpretazione soggettiva, pena l’annullamento della validità del rito stesso. Proprio nel rito tridentino della liturgia eucaristica è visibile l’influsso nefasto dell’impostazione giuridica e canonistica sulla teologia.  In questo contesto liturgico, il popolo rimane ai margini, senza alcun tipo di coinvolgimento. La passività liturgica del popolo è così forte che non importa nemmeno se i fedeli capiscano o meno quello che il sacerdote dice, in una lingua che è divenuta esclusivamente patrimonio della classe sacerdotale. L’importante non è la partecipazione attiva del popolo, ma fattiva. Santificare il giorno del Signore significa essere presenti al rito. Oltre a ciò, per i fedeli non è importante capire le parole della liturgia, ma vedere l’ostia consacrata. La liturgia tridentina manifesta la netta separazione tra gerarchia e laici, frutto di una interpretazione teista del fenomeno sacrale.

Il CVII ribalta radicalmente l’impostazione tridentina prendendo come ispirazione le fonti dei primi secoli della Chiesa. È osservando la prassi liturgica alla luce dei dati del Vangelo e della prima elaborazione dei Padri della Chiesa che ci si rende conto di aver imboccato una strada che nei secoli ha portato molto lontano la Chiesa rispetto alle indicazioni del Maestro. La preoccupazione del CVII diventa quella di riportare la liturgia nel cuore della comunità, togliendola dalle mani della classe sacerdotale. Per fare questo propone la possibilità di celebrare i riti nelle lingue moderne, permettendo in questo modo la comprensione da parte dei fedeli di quello che si celebra. L’esigenza della partecipazione attiva dei fedeli è in stretta connessione con la scelta di togliere l’obbligo della lingua latina per le celebrazioni liturgiche. È attiva la partecipazione dei fedeli quando riesce a comprendere i riti ai quali partecipa, le preghiere che è invitato a recitare. Per questo, il passaggio centrale in questa prospettiva del documento Sacrosanctum Concilium è il seguente: “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio” (SC, 48). È un passaggio che mostra il cambiamento radicale dell’impostazione liturgica del CV II rispetto a quella tridentina. Ora la chiesa è preoccupata che i “fedeli non assistano come estranei o muti spettatori”, ma partecipino attivamente alla vita liturgica, sforzandosi di comprendere i riti pronunciati in una lingua comprensibile al popolo di Dio. Per questo motivo, viene ripristinata la preghiera dei fedeli, come riposta alla Parola di Dio: “Dopo il Vangelo e l'omelia, specialmente la domenica e le feste di precetto, sia ripristinata la «orazione comune» detta anche «dei fedeli», in modo che, con la partecipazione del popolo, si facciano speciali preghiere (SC, 53). La partecipazione attiva costituisce lo scopo primo e immediato della riforma liturgica: “La madre Chiesa desidera ardentemente che tutti i fedeli vengano guidati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di acquisto», ha diritto e dovere in forza del battesimo” (SC 14). La partecipazione attiva è, dunque, la modalità umana per attingere alla fonte della grazia. Per questo la riforma dell’ordo missae, come di tutti gli altri sacramenti, mira a che “sia resa più facile la pia e attiva partecipazione dei fedeli” (SC 50). Per evitare il rischio di ogni interpretazione di tipo semplicemente cerimoniale, lo stesso concilio precisa: “La fecondità dell’apostolato dei laici dipende dalla loro vitale unione con Cristo... Questa vita di intimità con Cristo si alimenta nella Chiesa con gli aiuti spirituali comuni a tutti i fedeli, soprattutto con la partecipazione attiva alla sacra liturgia” (AA 4). Inoltre l’istruzione Inter Oecumenici (1964) ribadisce: “Attraverso una perfetta partecipazione alle sacre celebrazioni, i fedeli attingeranno abbondantemente la vita divina e, divenuti lievito di Cristo e sale della terra, la proclameranno e trasfonderanno anche negli altri” (n.8).

Il percorso della Chiesa nei secoli era passato da una visione comunitaria della liturgia ad una visione intimista. Questo passaggio è visibile soprattutto nel modo d’intendere l’eucarestia, che lentamente smette di essere il sacramento dell’unità della Chiesa, come insegnava san Paolo (1 Cor 10), per divenire sempre più relegato nell’ambito intimista dell’unione del fedele con Cristo. Gli storici della liturgia affermano che protagonisti di questo passaggio che approda definitivamente nel XII secolo, sono Pascasio e Radberto. Pascasio identifica l’eucarestia con il corpo storico di Gesù, allontanandosi, in questo modo, dalla riflessione dei Padri. Questo spostamento, che potremmo definire materialista, lo si nota nell’utilizzo differente che Pascasio fa dei termini significativi utilizzati dai Padri in ambito liturgico come: figura, verità, sacramento e mistero. Questo spostamento di accento provoca l’incomprensione dei testi della Tradizione. Tanto Pascasio quanto Radberto affermano l’identità dell’eucarestia con il corpo di Cristo che è nato da Maria, ha patito, è morto ed è risorto. Con Ivo di Chartres – siamo nel XII secolo - si passa dalla concezione dell’eucarestia come sacramento dell’unità della Chiesa, alla concezione dell’eucarestia come unione del fedele con Cristo. Il passaggio da Guillaume de Saint- Thierry alla Summa sententiarum – siamo sempre nel XII secolo d. C. - ci fa vedere il passaggio definitivo al tema dell’eucarestia come sacramento dell’unione con Cristo. Tramite Pietro Lombardo il cambiamento arriverà anche a Tommaso d’Acquino. Il Concilio di Trento non ha fatto altro che ratificare e consolidare un processo storico già in atto da diversi secoli ed elaborato da una cospicua produzione teologica. Grazie al Movimento Liturgico sviluppatosi nel XX secolo, assieme alla Nouvelle Teologie, che ha promosso lo studio delle fonti bibliche e patristiche della Chiesa, si è giunti a comprendere la necessità di un ritorno alle origini per tentare di rimettere ordine in una tradizione che aveva perso nei secoli il contatto con i dati originari divenendo, in questo modo, una realtà differente dall’idea del fondatore.

Sappiamo, a distanza di sessant’anni, che il prezzo che la Chiesa sta pagando per aver trascurato i fedeli per secoli, è molto alto. Costretto per tantissimi anni a partecipare a riti incomprensibili, lasciato sui banchi della chiesa in uno stato totalmente passivo, il popolo di Dio fa fatica a scrollarsi di dosso questa passività. Oltre a ciò, soprattutto in questi ultimi anni, sono emersi all’interno della Chiesa, diversi movimenti d’ispirazione tradizionalista, che rivendicano la necessità di tornare a quella che chiamano la vera messa, vale a dire, la messa tridentina. Siamo dunque in una fase estremante delicata dal punto di vista liturgico, quasi di stallo, perché se da una parte non sono ancora stati assimilate le indicazioni principali del Vaticano II, dall’altra c’è quell’onda nostalgica del passato che in tanti modi manifesta l’esigenza di cancellare il Vaticano II, definendolo eretico, arrivando persino a negare la validità delle proposizioni conciliari.

 

mercoledì 13 aprile 2022

Una liturgia con i tratti dell’umanità di Gesù

 




Paolo Cugini


Possiamo comprendere il senso della liturgia nella vita della comunità cristiana solamente ritornando alle origini e, in modo speciale, guardando a Gesù, ai Vangeli. C’è un tratto che colpisce nel modo di Gesù di relazionarsi con il mondo, con le persone: la sua umanità. È questo aspetto dell’umanità di Gesù che dovrebbe modellare la celebrazione liturgica.

C’è un cammino di umanizzazione che la vita cristiana deve compiere. Gaudium et Spes ci ricorda che: “chiunque segue Cristo, diventa anche lui più uomo” (GS 4). È nella qualità umana dei singoli credenti e delle comunità cristiane che si manifesta la credibilità del messaggio cristiano. È la qualità umana del vivere che fa la differenza. L’umanesimo evangelico nella sua profonda complicità con l’umano autentico, rappresenta il presente e soprattutto il futuro del cristianesimo. Ciò che c’è da vedere di Dio lo abbiamo visto in Gesù. Qui sta ogni possibile discorso sul senso umano della liturgia. La ricerca di una liturgia più umana non è semplicemente richiamare la dimensione etica della liturgia, né l’ennesima strategia pastorale, ma è di ordine teologico e, pertanto, essenziale se vuole essere liturgia cristiana e non un mero rito religioso come tanti. La nostra liturgia è cristiana se è conforme all’umanità di Gesù.

Se il mistero di Dio si è rivelato attraverso l’umanità di Gesù, allo stesso modo la liturgia dev’essere fedele al modo di questa rivelazione. Anche la celebrazione della rivelazione di Dio deve avere la forma del Vangelo. Il modo di celebrare nella liturgia dev’essere conforme al modo in cui Dio si è rivelato in Gesù, nella sua umanità. La liturgia è rivelazione in atto. Proprio il documento conciliare Sacrosantum Concilium ci ricorda che “Attraverso la liturgia si attua l’opera della nostra redenzione” (SC 1). Sono queste idee che hanno guidato la riforma del Concilio Vaticano II, per riportare la liturgia alla sua origine, cioè al Vangelo. Gesù parlava la lingua del popolo, e non una lingua sacra. Gesù ha parlato e si faceva capire. Ha celebrato la prima volta l’eucarestia attorno ad una tavola. I primi discepoli nelle loro case spezzavano il pane. Un’umanità quella di Gesù caratterizzata da una convivialità costante. Gesù si sedeva a mensa con tutti. La cena è l’ultima di tante cene con i suoi discepoli. La centralità dell’altare delle nostre chiese, ricorda che la comunità cristiana è una comunità di tavola, perché Gesù l’ha voluta così.

Il riferimento di Gesù nell’ultima cena non è il contesto sacrificale, ma domestico, di comunità, una liturgia guidata dal padre di famiglia, in un contesto informale vicino alla vita. Gesù ha voluto per la sua comunità una tavola condivisa in un contesto familiare. Le forme rituali non si devono allontanare dalla vita. Per questo motivo non si comprendono gli atteggiamenti riverenziali e di distanza, tipici di un contesto sacrificale, ma totalmente estranei al contesto famigliare ed umano voluto da Gesù.  Se togliamo dalla liturgia ciò che c’è di autenticamente umano, togliamo allo stesso tempo ciò che c’è di autenticamente divino. Nella liturgia dobbiamo trovare la grammatica della vita. Ciò vale anche per la lingua della liturgia. Il Vaticano II ha dato la possibilità di accedere alle lingue parlate. Gesù parlava in aramaico, la lingua del suo tempo, grazie alla quale si faceva intendere. Gesù non ha parlato una lingua sacra, ma ha utilizzato espressioni della vita della gente. Gesù non viveva nelle sacrestie o nelle università e utilizzava il vocabolario della vita quotidiana, molto più che quello religioso. “Le folle erano stupite del suo insegnamento” (Mt 7,28). “Mai un uomo ha parlato così” (Gv 7,46).

L’annuncio del Vangelo oggi si realizza in larga parte sul crinale delle risposte credibili alla domanda: “credere mi aiuta a vivere”? Il rapporto tra liturgia e vita si presenta in modo nuovo rispetto all’epoca del Concilio. Oggi si declina chiedendo alla celebrazione di essere un luogo vitale, di rigenerare la vita dei singoli credenti. La liturgia come luogo che genera e rigenera il credente alla vita, luogo sorgivo della vita della comunità, richiede una costante attenzione alla riproduzione nel contesto liturgico, dei tratti dell’umanità di Gesù. Tutto ciò che i vangeli riferiscono di Gesù con la sua gente è un’anticipazione del senso della liturgia. La liturgia, dunque, dovrebbe essere una continuazione dei vangeli in modo tale che, le persone che partecipano ai riti, si sentano avvolte dall’umanità di Gesù e lo riconoscono presente in essi. Nei vangeli incontriamo delle affermazioni che esprimono il desiderio della gente d’incontrare Gesù e che sono delle vere e proprie espressioni liturgiche: “Signore, aiutami!” (Mt 15,25); “Gesù abbi pietà di me!” (Mc 10,47);Signore, il mio servo è in casa che soffre” (Mt 8,6). Questa liturgia dei vangeli ci narra di un uomo Gesù, che ascolta le richieste vitali del popolo, che cammina con gli uomini e le donne del suo tempo, si lascia toccare, si ferma ad ascoltare, accarezza, rie, piange: c’è tanta umanità nei suoi gesti. Per questo, d’ora innanzi, dopo Gesù, il sacro non ha più bisogno di essere rivestito con i segni della potenza per indurre timore e riverenza, ma va spogliato, perché il Padre attraverso il Figlio ha deciso di mettere una tenda in mezzo a noi. È la semplicità dei gesti umani che dicono della grandezza dell’amore di Gesù, che incontriamo nella sua umanità. Gesù ha combattuto una battaglia è per la vita e l’ha combattuta sino alla sua stessa morte. Di fronte alla vastità del messaggio cristiano, all’iperattivismo della vita parrocchiale, alla complessità dei nostri riti, della loro ridondanza barocca, impressiona la semplicità della liturgia dei vangeli. Ritornare ai gesti semplici dell’umanità di Gesù è il compito attuale della liturgia nella Chiesa, compito indicato proprio dal Concilio Vaticano II.

Il teologo tedesco Christoph Theobald diceva che: “vita e fede sono intimante legate”. Non si può trasmettere la fede senza trasmettere la fede nella vita. La celebrazione dei sacramenti della fede è luogo di contatto della vita di Cristo con la vita dell’uomo e della donna oggi. Nei passaggi decisivi della vita unici e definitivi dell’esistenza, là dove la vita è più vita, i sacramenti della Chiesa vi proiettano la luce del Vangelo. Scopo dei sacramenti dovrebbe essere quello di significare la vita con la luce del mistero pasquale, per sottrarli alla logica del caso e del destino. Nei sacramenti si rivela tutta l’umanità della liturgia. La pastorale dei sacramenti è l’odierna Galilea delle genti. Dentro alla domanda di sacramenti c’è un senso profondo della vita che va riconosciuto e onorato, c’è una forma germinale di quella fede naturale che ogni essere umano ha della vita. È fede in Dio autore della vita.

Solo una liturgia umana sa celebrare la vita umana, sul solco tracciato da Gesù. La sofferenza è il luogo massimo dell’umanità. Il criterio della verità della liturgia è quella di farsi carico delle sofferenze: abbandono, esclusione, solitudine. Compito di una liturgia umana è quella di contribuire ad umanizzare. Comunione, carità, accoglienza: la liturgia è risorsa di umanità. Come verso Gesù andavano tutti coloro che si sentivano esclusi dalla società, così oggi alla liturgia della comunità dovrebbero trovare accoglienza tutti coloro che nel mondo si sento esclusi, emarginati, derisi, discriminati. È nel segno dei chiodi che è visibile l’amore di colui che il Padre ha risuscitato. Allo stesso modo, è in una comunità che mette al centro delle sue liturgie i poveri, i crocefissi della storia, che il modo può riconoscere la luce del risorto. Nella preghiera Eucaristica V leggiamo: “donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli”. La celebrazione eucaristica è il luogo della fraternità. L’Eucarestia è il più alto magistero di umanità. Non possiamo ricevere in modo innocente il pane di vita, senza condividere il pane per la vita con chi è nel bisogno. La nostra fede eucaristica ci chiama a vivere un’etica eucaristica, che ci porta vivere un’umanità è più profonda nei confronti dei bisognosi. È il Cristo che nella liturgia ci viene incontro con i poveri, i migranti, gli esclusi. L’eucaristia è una protesta contro l’ineguaglianza. L’eucarestia contiene un’utopia. Non è possibile essere umani quando si celebra ed essere disumani quando si esce dalla Chiesa. 

 

martedì 12 aprile 2022

LA LITURGIA E IL PESO DEL PASSATO

 





Paolo Cugini

 

Il tema della liturgia è importante perché riflette il modo d’intendere Dio. Dal modo in cui una comunità celebra l’eucarestia si capisce in che Dio crede. L’insistenza sul precetto ha provocato lo svuotamento della dimensione relazionale e comunitaria, che è alla base del significato della liturgia eucaristica, intesa come azione del popolo. La predicazione che per secoli ha insistito sull’obbligo del precetto domenicale se, da una parte, ha provocato la diffusione del costume della messa domenicale come abitudine necessaria per la salvezza, dall’altra l’ha consegnata definitivamente nelle mani della classe sacerdotale e togliendola, in questo modo, al popolo di Dio. C’è stato, dunque, un processo di snaturamento rispetto al significato originale che Gesù ha voluto dare all’eucarestia, come segno della sua presenza in mezzo ai fratelli e alle sorelle e come momento di consegna alla comunità del suo messaggio centrale.

Il nuovo contesto culturale nel quale siamo immersi, se da un lato appare insensibile agli aspetti religiosi a causa della sua marcata portata materialista, dall’altra permette di recuperare alcuni aspetti andati perduti nel tempo. Lo svuotamento della lettura metafisica e ontologica della realtà, venuto a compimento nell’epoca post-moderna, ha aperto la strada alla pluralità delle narrazioni possibili degli eventi. Si passa, in questo modo, da un approccio costrittivo della religione, con precetti, obblighi e doveri, che circoscrivono il modo di appartenenza al sacro, ad un tipo di approccio libero, basato più sulla comprensione soggettiva, che dalla coercizione. Oggi le giovani generazione sono totalmente indifferenti agli obblighi e alle minacce nei confronti dei precetti religiosi. Passare da uno stile coercitivo verso una proposta che stimoli l’interesse libero delle persone alla proposta religiosa, esige un cambiamento di paradigma radicale, che richiede la disponibilità a non identificare la bontà della proposta con la quantità numerica di chi partecipa. Il controllo coercitivo del popolo da parte della casta sacerdotale, sorretto dal clima politico e sociale che permetteva tale stile coercitivo, provocava immediatamente la presenza massiccia dei fedeli ai momenti religiosi. Ad un certo punto del cammino, la chiesa più che essere attenta a proporre lo stile del fondatore si è lasciata prendere la mano dalla possibilità reale di controllare le masse che, al contempo, significava la possibilità di contare nel dibattitto politico e sociale. Chi controlla le masse controlla il potere. Certi accorgimenti dottrinali, come la confessione obbligatoria prima dell’eucarestia, hanno esacerbato il controllo della classe sacerdotale sui fedeli, più che proporre un cammino di libertà come proponeva il Maestro. Lo stesso si può dire sull’imposizione del celibato sacerdotale per i candidati al sacerdozio, che ha stigmatizzato un processo di diversificazione del clero nei confronti del popolo e, in modo particolare, delle donne.

La giurisprudenza canonica, la teologia e la spiritualità che si sviluppa a partire dal X secolo d.C., sono tutte alleate per sostenere lo stesso discorso della necessità di una classe sacerdotale per gestire il sacro. La liturgia è lo spazio più idoneo in cui si manifesta questo fenomeno più politico che religioso. L’architettura degli spazi religiosi è il documento storico più visibile di questo processo di decostruzione politica del messaggio evangelico, a favore di un’istituzione che, ad un certo punto, decide di andare per la propria strada dimenticando l’origine del percorso. Negli edifici adibiti alle manifestazioni liturgiche lo spazio in cui la classe sacerdotale gestisce il sacro subisce una doppia operazione architettonica. C’è, infatti, un processo di separazione dello spazio addetto al sacerdote, che compie le sue funzioni dal resto del popolo. Questa separazione è evidenziata da strutture specifiche - le balaustre – che segnalano sin dove il popolo può giungere. In secondo luogo, si assiste ad un progressivo innalzamento della zona chiamata presbiterio, con l’obiettivo di rendere visibile lo spazio sacro. Gli storici della liturgia ci avvertono che queste modifiche avvengono nel periodo in cui, a causa delle invasioni barbariche che devastano l’Impero Romano, si perdono i dati biblici e patristici e la liturgia subisce la nuova impostazione di tipo materialista del mondo religioso. Non si cerca più la dimensione così detta ontologica degli eventi che hanno accompagnato la vita di Gesù, per riproporli nella liturgia, ma si cerca di riprodurre il più fedelmente possibile, ciò che materialmente è avvenuto. L’innalzamento del presbiterio, dovrebbe, in questa prospettiva, significare il monte degli ulivi in cui Gesù ha vissuto la passione.

Contemporaneamente a questo fenomeno, ce n’è un altro che lo accompagna. Si tratta della progressiva identificazione della chiesa con l’impero romano, divenuto Sacro Romano Impero. Un segno chiarissimo nel campo liturgico di questa identificazione, sono le vesti liturgiche, che più che essere il segno della presenza della povertà del maestro, sono il simbolo della potenza politica dell’impero romano. Del resto, nei secoli di dominio temporale della chiesa, non mancheranno liturgie in cui viene manifestato il potere della chiesa su principi, re e imperatori. Queste deformazioni del messaggio originale confluite nella liturgia permettono di comprendere non solo la necessità di una riforma liturgica avvenuta nel Concilio Vaticano II ma, soprattutto, la difficoltà di attuarla a causa dei nostalgici di turno, che non riescono a liberarsi la mente dalle forme del passato. Del resto, come diceva Thomas Khun, le strutture culturali si sedimentano a tal punto che anche una rivoluzione culturale non è capace di provocare cambiamenti immediati. Sessant’anni di storia non sono quasi nulla rispetto ai quindici secoli dell’impostazione precedente.

sabato 2 aprile 2022

SULLE TRACCE DELLA SPERANZA

 




 Davide Maria Turoldo

Voi che credete

voi che sperate

correte su tutte le strade, le piazze

a svelare il grande segreto…

Andate a dire ai quattro venti

che la notte passa

che tutto ha un senso

che le guerre finiscono

che la storia ha uno sbocco

che l’amore alla fine vincerà l’oblio

e la vita sconfiggerà la morte.

 

Voi che l’avete intuito per grazia

continuate il cammino

spargete la vostra gioia

continuate a dire

che la speranza non ha confini