martedì 30 maggio 2017

LA CHIESA POVERA E DEI POVERI NEL DIBATTITO DEL CONCILIO VATICANO II




Matteo Mennini, La chiesa dei poveri. Dal Concilio Vaticano II a Papa Francesco, Guerini e Associati, Milano 2016
Sintesi: Paolo Cugini

Il lavoro di Matteo Mennini ha come obiettivo quello di ricostruire un dibattito che ha segnato profondamente il Concilio Vaticano II e che aiuta a comprendere meglio il significato dell’attuale pontificato di Papa Francesco, vale a dire il dibattito sulla Chiesa ei poveri. I due punti di riferimento di questa ricerca storica sono l’attività del gruppo del Collegio Belga e il ruolo del suo principale animatore vale a dire il sacerdote francese Paul Gautheir (1914-2002). La ricerca si sforza di contestualizzare il dibattito ecclesiale nell’ambito degli eventi per non correre il rischio di ridurlo ad una semplice querelle teologica interna.  Il lavoro è strutturato su tre parti. Nella prima Mennini ricostruisce la genesi del tema in questione, presentando anche i principali protagonisti del dibattito conciliare sulla Chiesa dei poveri. Primo di questi è il Papa Giovanni XXIII che nel il famoso radiomessaggio pronunciato per annunciare l’apertura del Concilio Vaticano II, annunciava che: “In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Linguaggio semplice e chiaro che esprimeva il desiderio di aprire un dialogo con il mondo sui temi scottanti dell’attualità e, trai quali, la disuguaglianza sociale. Del resto i primi anni ’60 del secolo scorso, erano ancora molto vicini alla fine della seconda guerra mondiale e le nazioni erano coinvolte nella riflessione sul tipo di progresso economico da proporre. “Si affermava una prospettiva dinamica che, a partire dalla seconda guerra mondiale e il parallelo al processo di decolonizzazione, sostituiva alla definizione di arretratezza quella di sottosviluppo”. 

Papa Giovanni XXIII con i suoi interventi mostra l’intenzione che il Concilio Vaticano II non intendeva soffermarsi appena per chiarimenti interni alla Chiesa, ma desiderava offrire il suo contributo per affrontare i grandi temi del mondo contemporaneo. Figura importante del dibattito sulla Chiesa dei poveri alla quale Mennini dedica molto spazio durante tutto lo svolgimento della ricerca è il sacerdote francese Paul Gauthier. Vicino alle esperienze dei piccoli fratelli di Charles de Foucauld e attento all’esperienza dei preti operai già presenti in Francia sin dalla decada degli anni ’30, Gauthier durante le prime settimane del Concilio diffonde un dossier in titolato: “Gesù, la chiesa e i poveri”, che offrirà l’occasione ai vescovi e ai teologi approfondire la riflessione sul rapporto tra la Chiesa e i poveri. Il dossier nasceva dalla percezione che la chiesa avendo perso il contatto con la classe operaia aveva perso il contatto con i poveri. Da qui la domanda centrale: la separazione tra la Chiesa e le masse operaie era sintomo della frattura più profonda tra la Chiesa e Cristo? Gauthier metteva il dito sulla piaga della percezione che il mondo aveva di una Chiesa distante dalle masse lavoratrici, “Gauthier mise in connessione l’idea che Cristo si era inserito nel mondo dei lavoratori e dei poveri direttamente alla dottrina della Mystici Corporis, in cui si affermava che quanto proveniva dalla divina pienezza di Cristo affluisce alla Chiesa affinché essa quanto è più possibile sia a Lui somigliante”. Gauthier nel dossier richiamava la Chiesa alla sua originaria vocazione di annunciare il Vangelo ai poveri e, per realizzare tale progetto, era necessario vivere in mezzo a loro. Il sacerdote francese diverrà l’animatore di un gruppo dci vescovi convocati sin dal mese di ottobre 1962 dai vescovi Himmer e Hakim per iniziare a riflettere sulle scottanti questioni del dossier di Gauthier. L’incontro aveva prodotto varie conclusioni e proposte tra le quali quella di rimuovere gli ostacoli che impedivano alla Chiesa di mostrare al mondo operaio la sua vera natura e missione. La percezione condivisa dal gruppo è che i poveri non sono in grado di accogliere i messaggi della Chiesa perché scandalizzati dai segni esteriori e dal tenore di vita dei suoi membri. Due membri del gruppo, i vescovi Mercier e Helder Camara, proposero di rivolgersi al Papa affinché il Concilio si occupasse esplicitamente della povertà della Chiesa.
La seconda parte della ricerca di Mennini ha come titolo: alla ricerca della povertà perduta. L’autore mostra lo sforzo del gruppo di lavoro di elaborare un testo che mostrasse la relazione intrinseca tra l’attenzione ai poveri, la chiesa povera e la liturgia. A dire del gruppo c’è uno sfarzo liturgico che offende i poveri. La chiesa dei poveri deve dunque essere visibile sia nello stile di vita dei ministri, che nelle celebrazioni liturgiche. “Non si corre il pericolo che la sontuosità delle suppellettili e dei paramenti liturgici costituisca occasione di scandalo per color che assistono alle cerimonie?” (p. 74). 

Sono osservazioni di questo tipo, manifestate in aula Conciliare dai rappresentanti del collegio Belga, che animavano le discussioni del Concilio. Veniva sempre più manifestata una profonda preoccupazione per una rinnovata comprensione della povertà della Chiesa come condizione per la sua credibilità nel mondo e che la povertà della Chiesa non poteva semplicemente essere un tema fra gli altri. Secondo Mennini fu proprio questa forte presenza del Collegio Belga nel Concilio che provocò il dibattito della Chiesa povera e dei poveri anche al di fuori delle stanze vaticane. Di fatto, l’autore cita lettere pastorali di molti vescovi e riviste cattoliche parlando ampiamente e approfonditamente del tema in questione. Nel frattempo Paul Gauthier vero e proprio animatore del gruppo di lavoro che si era costituito sul tema della povertà della Chiesa, nel 1963 lancia un nuovo libro nel quale si chiedeva come mai fosse così arduo parlare della Chiesa dei poveri. Gauthier era consapevole che il problema della chiesa dei poveri metteva in discussione il tradizionale impianto ecclesiologico. “Per un cristiano – sottolinea l’autore – Cristo è tanto presente nei poveri come lo è nell’Eucarestia e nella gerarchia. Ammettere ciò significava molto più che un orientamento pastorale, non era l’aggiornamento di una prassi, ma del contenuto stesso della fede” (p. 101).  

Diveniva così sempre più chiaro che il movimento innescatosi con le riunioni del Collegio Belga e, soprattutto, con l’azione di Paul Gauthier, superava l’ambito stesso del Concilio e influenzasse il dibattito pastorale di molte diocesi. Le riunioni al Collegio Belga avevano avviato la promozione di un vissuto concreto e visibile della povertà nella Chiesa e dell’evangelizzazione dei poveri. Lo stesso Gauthier avviò una riflessione sulla povertà in chiave ecumenica e il rapporto della Chiesa col comunismo a cui il gruppo di lavoro guardava con grande preoccupazione pastorale. Durante la seconda sessione del Concilio i membri del gruppo del Collegio Belga s’incontrarono per una verifica del lavoro svolto. Monsignor Himmer sostenne che, accanto ad aspetti positivi tra i quali il diffondersi anche tra i fedeli laici una sensibilità verso il tema della Chiesa povera e dei poveri, non mancavano però alcune perplessità. Himmer sosteneva che le stesse categorie sulle quali si stava da tempo lavorando non erano chiare. “Che cosa significava Chiesa dei poveri? In che modo andava intesa la presenza di Cristo nei poveri? Quale rapporto tra una Chiesa che vuole vivere poveramente, l’evangelizzazione dei poveri e le forme di aiuto paternalistico?” (p. 130). 

Il dibattito sulla Chiesa dei poveri diviene con il passare del tempo sempre più teso, anche perché non tutti riescono ad accompagnare l’irruenza e le continue provocazioni di Paul Gauthier. Alcuni esegeti e teologi quali De Lubac, Mollat e Martelet, dopo aver analizzato le bozza dei documenti prodotte dal gruppo per essere discusse nelle sessioni conciliari ritennero quei testi troppo ideologiche e non esenti da gravi errori. Mennini accompagna l’evolversi del dibattito Conciliare sul tema della Chiesa dei poveri con grande attenzione e con continui rimandi ai documenti non solo conciliari, ma soprattutto a testi che furono prodotti in quel periodo che aiutano nella comprensione dei contenuti elaboratori durante il Concilio sul tema in questione. L’autore riporta alcuni passaggi significativi dell’intenzione del gruppo belga di migliorare i contenuti dei testi criticati. Si afferma, così, che i poveri, intesi in senso biblico come tutti gli oppressi, portano il peso del peccato del mondo e sono associati al mistero della redenzione. Se Cristo infatti, si è identificato con la sua Chiesa e vive misteriosamente in essa, si è anche identificato con i poveri e vive misteriosamente in essi.

Nella terza ed ultima parte del libro Mennini affronta il tema del rapporto della Chiesa con la modernità. Siamo ad un passaggio di svolta del Concilio. La morte di papa Giovanni XXIII e l’elezione di Paolo Vi aveva creato non poche tensioni sia nel mondo ecclesiale che civile. La grande domanda che in molti si facevano era quella di capire se il nuovo Papa avesse continuato sullo stile di Papa Giovanni. Sin dalle prime mosse, come sostiene Mennini e, soprattutto, la prima enciclica di Paolo VI, l’Ecclesiam suam, fugarono ogni dubbio. L’enciclica, infatti, poneva come punto di partenza l’atteggiamento di quel dialogo che era stata la caratteristica dello stile di Papa Giovanni. Uno dei punti più scottanti in questa nuova tappa conciliare a partire dal tema che il libro tratta, ruota attorno secondo l’autore, al nuovo libro di Paul Gauthier: Le Concile et l’Eglise des Pauvres. Il Testo di Gauthier inviato a forma di manoscritto a Himmer e a diversi vescovi per raccogliere le prime opinioni, aveva incontrato a della di Mennini molte resistenze. Comincia sempre più a farsi strada il problema dello stile, del modo giusto da utilizzare da proporre le tesi più significative della Chiesa dei poveri elaborate dal gruppo. Mercier prevedeva che le acquisizioni sul piano teologico del gruppo del Collegio Belga venissero rielaborate da Congar e Mollat, al fine di stimolare ulteriori ricerche, e garantire così maggiori garanzie sull’impianto teorico da presentare in commissione conciliare. Varie strategie vengono studiate sul come presentare il problema della Chiesa dei poveri nel dibattito conciliare. Da un lato, c’è chi sosteneva che era necessario parlare prima di tutto direttamente con Paolo VI e, dall’altra chi non riteneva necessario un simile approccio. In questo contesto viene segnalata dall’autore l’azione dell’allora vescovo di Bologna Lercaro, coadiuvato da Giuseppe Dossetti. Mentre si procede nella riflessione ci si rende sempre più conto che: “non era sufficiente affermare la necessità dello spirito di povertà dei singoli, ma quello delle istituzioni e, inoltre, andavano condannate le moderne forme di usura, superare la carità assistenziale dell’elemosina per sviluppare strutture di cooperazione in favore dell’autonomia dei poveri” (p. 176). 
A questo punto il dibattito si allarga alla ricerca delle cause della povertà. Il Vescovo Zoungrana dell’Alto Volta prese la parola a nome di 70 vescovi africani sostenendo che il ritardo dello sviluppo, soprattutto in Africa era dovuto a diversi fattori. Primo fra tutti era necessario considerare la questione demografica, l’utilizzo del suolo, unito alla scarsa possibilità d’investimenti e la conseguente poca competitività commerciale dei paesi poveri. Mennini riporta a questo punto del suo lavoro, il frutto dell’analisi del gruppo italiano che si era riunito attorno a Lercaro e che aveva elaborato un testo intitolato: Appunti sul tema della povertà della Chiesa. Il documento era diviso in due parti: nella prima veniva esposto un plausibile itinerario per un’elaborazione dottrinale del tema in questione; la seconda presentava i suggerimenti pratici su cui il gruppo stava lavorando. Le tredici pagine degli Appunti trovarono sostegno del gruppo del Collegio Belga. Nonostante ciò, Mennini mostra come tutto questo lavoro non riuscì a portare i frutti sperati. Nel frattempo molte critiche stava ricevendo il manoscritto di Paul Gauthier, non tanto per il contenuto, quanto piuttosto per lo stile. Per come si era mosso, stava emergendo l’idea tra i membri del Concilio, che il testo fosse l’espressione di un gruppo chiuso e che stesse proponendo addirittura un tipo di divisione tra la Chiesa dei poveri e la Chiesa dei ricchi. Il dibattito in aula conciliare proseguì sul tema della questione operaia e sul comunismo. Dalla narrazione riportata da Mennini si coglie la grande importanza che ebbero gli interventi di Woytila il quale insisteva nel presentare e argomentare i pericoli del marxismo e, allo stesso tempo, presentare la Chiesa come unica alternativa ad esso. Nello stesso periodo. L’instancabile Paul Gauthier inviava in forma di circolare un testo che raccoglieva una serie di lettere scritte da operai che lasciava intendere forti accenti di critica nei confronti della Chiesa. Nel dibattito conciliare gli interventi si concentrarono sul tema dell’ateismo dei poveri e degli operai influenzati dal comunismo. Anche in questo caso, illuminanti furono le riflessioni proposte da Paul Gauthier: “L’ateismo dei poveri, diverso da quello dei ricchi, nascondeva una preghiera, resa silenziosa dalla propaganda che abusava dell’ignoranza delle masse, dalla miseria che provocava un sentimento di abbandono e dall’ingiustizia” (p.205). 


Secondo Gauthier, la condanna del comunismo da parte della Chiesa avrebbe allontanato ancor di più gli operai, e quindi i poveri dalla chiesa. Molte delle istanze proposte sia da Gauthier, che dal gruppo riunito al Collegio Belga non passarono o passarono in modo molto offuscato. Fu per questo motivo e con questa consapevolezza che un gruppo di circa sessanta vescovi conciliari si riunì il 16 novembre del 1965, a circa venti giorni di distanza dalla chiusura del Concilio, per celebrare una messa durante la quale siglarono un patto che passò alla storia come il patto delle catacombe. In questo testo, riportato in forma integrale dall’autore, i vescovi presenti all’evento dichiaravano la disponibilità a vivere in modo sobrio per quanto riguarda il cibo, la casa, i mezzi di trasporto “in modo conforme alla vita quotidiana della nostra gente” (p.221). Dichiaravano inoltre di non voler possedere nessuna cosa, affidando la gestione finanziaria ai laici. L’impegno inoltre si estendeva a coinvolgere in questo stile di sobrietà evangelica sia i confratelli che la società civile. Nell’ultimo paragrafo dell’ultimo capitolo Mennini prende in esame l’immediato dopo Concilio sul tema della Chiesa dei poveri e la figura di Paolo VI, il quale sembra continuare le riflessioni conciliari nell’Enciclica Populorum Progressio. Sviluppo integrale dell’uomo e sviluppo solidale dell’umanità erano i due grandi temi del testo. Molto positiva, a detta dell’autore, fu la recezione dell’Enciclica sia in Italia che all’estero e, in modo particolare in America Latina. Nel frattempo si acuì la tensione tra Israele e la Palestina che sfociò nell’attacco dell’aviazione israeliana del 5 giugno 1967. Durissime furono le ripercussioni della guerra sulla popolazione civile. Paul Gauthier e i sui amici presenti sul territorio palestinese si trovarono coinvolti in questo scenario di morte. Come sempre Gauthier prese l’occasione per una riflessione di ampio respiro spirituale. Per Gauthier Nazareth non era più la terra del Carpentier, ma del Crocifisso e dell’agnello sgozzato. “La solidarietà con i popoli oppressi – sostiene Mennini – l’impegno per il riscatto dei poveri, le manifestazioni a favore della pace divennero la grammatica con cui una generazione intera riuscì a rappresentare il desiderio e il bisogno di una mutazione genetica della società” (p.234). Paolo VI tornò a parlare della Chiesa dei poveri nell’udienza del 2 ottobre del 1968. La Chiesa dei poveri fu per Paolo VI la dimensione veritativa della condizione del cristiano nella modernità contemporanea, non solo nel senso teologico, ma anche sociologico. “Dal Concilio a Medellin la chiesa aveva scoperto la periferia in cui sacerdoti, religiosi e laici vivevano condizioni drammatiche che nel proprio apostolato riflettevano le contraddizioni sociali, politiche ed economiche di un mondo sempre più interconnesso, ma diviso” (p. 240. 

mercoledì 24 maggio 2017

L'UMANESIMO DELLA CARITÀ DI PAOLO VI

UNIVERSITÀ GREGORIANA-ROMA





Nulla mi è estraneo di quanto è umano: il cammino della Chiesa da Paolo VI a Francesco


UNIVERSITÀ GREGORIANA-ROMA
Martedì 16 maggio 2017
Relatore: Prof. Fulvio de Giorgi (UNIMORE)
Sintesi: Paolo Cugini

Populorum progressio (PP), 20: ricerca di un umanesimo nuovo che permetta all’uomo moderno di superare se stesso. Lo sviluppo è il passaggio da condizioni meno umane a condizioni più umane. C’è un movimento ascensionale. L’ascesa dalla miseria al necessario. Ampliamento delle conoscenze e acquisizione della cultura. La fede è la conquista più umana di tutte. La possibilità della fede è vista da Paolo VI come la condizione massima dello sviluppo umano. L’umanesimo nuovo prendeva la configurazione dell’umanesimo plenario PP, 42. Senza Dio l’uomo organizza la vita contro l’uomo stesso. Non vi è umanesimo vero se non aperto verso l’assoluto. L’uomo realizza se stesso solamente trascendendosi. L’umanesimo plenario di Paolo VI aveva uno statuto trascendente. PP 16-17: la creatura spirituale è tenuta a proiettare la sua vita verso Dio. 
Questo umanesimo di Paolo VI non è tanto una proposta culturale, o un’ideologia politica, ma è la cifra di una corrente di spiritualità italiana che ha le radici in Rosmini e Manzoni, corrente che possiamo considerare il retroterra del Concilio Vaticano II. L’originalità della proposta di Paolo VI è l’umanesimo della carità. La PP e l’insegnamento sociale di Paolo VI sono stati visti al movimento ottimistici degli anni ’60. E’ un riduzione storica. L’orizzonte di Paolo VI indicava i rischi del razzismo, la disuguaglianza, la paura che i lavoratori migranti non fossero accolti. Paolo VI mostrava le grandi disuguaglianze già attive in quel tempo, e denunciava i rischi del liberalismo. Paolo VI denunciava i guasti che il liberalismo egemone stava provocando. Sul piano etico e spirituale Paolo VI denunciava l’egoismo materialistico che poteva indebolire il piano sociale, implementando la diffidenza invece della fiducia, l’inimicizia e non la solidarietà. Ogni crescita è dunque ambivalente. Rischio che la crescita divenga un bene assoluto, supremo. Rischio che gli uomini non s’incontrino più per l’amicizia, ma per interessa. Consapevolezza di un nuovo paradigma: rischi degli equilibri della biosfera indicata da Paolo VI nel 1971. Testo sinodale della giustizia nel mondo. 
L’umanesimo della carità di Paolo VI era capace di sollevarsi al di sopra del proprio tempo? Secondo De Giorgi la risposta è positiva. L’umanesimo della carità non postula una distinzione tra umano e divino, ma esprime un umanesimo che mira un continuo miglioramento; è un umanesimo che accoglie una rivelazione. Postula una fede religiosa che ha fede nella coscienza. È il dono della grazia che porta nel cuore del cristiano una dilatazione della carità e quindi un universalismo forte. Il cuore piccolo si spezza e acquista la capacità di dilatazioni.
Nel 1964 nell’Eclesiam Suam Montini apriva al dialogo con le religioni. Nel 1975 nell’Evangeli Nuntiandi ribadiva l’idea. Ci sono ambiti umani a cui la santità cristiana sembrava non dire nulla. Nel 1968 uno studioso tedesco tenne una relazione su Gesù compimento della storia. Secondo lui il contributo di Gesù nel futuro sarà esaurito. Si tratta di una sfida radicale per il cristianesimo. La sfida della scristianizzazione e il confronto delle altre grandi religioni. Il processo di secolarizzazione continua a livello globale. L’umanesimo della carità poteva rispondere a queste sfide? Secondo De Giorgi la risposta è positiva. Non si tratta di angosciarsi per un mondo sempre più scristianizzato, ma di riconoscere nel povero il volto di Cristo. Si tratta non di confrontarsi con le altre religioni, ma di mostrare che l’onnipotenza del Dio di Gesù di Nazareth che il Signore s’incarnava nei crocefissi della storia. È la condizione dei piccoli, poveri e sofferenti, diviene la misura per porre l’elemento di contraddizione per ogni credo. Paolo VI sosteneva che la concezione antropologica del Concilio era molto ottimista. Occorre servire l’uomo in ogni sua necessità: chiesa ancella dell’umanità. Nel piccolo è presente Cristo: sacramentalità del povero. La vera struttura profonda dell’umanesimo della carità è tutta qui, ed è a questo livello la proposta alle sfide dei drammi dell’umanità. Ravvisare il volto di Cristo nei poveri, nei piccoli e nei sofferenti. E’ la fede nel Figlio che deve portare i cristiani ad assumere il cammino di Gesù, che è un cammino di abbassamento.

Il magistero di Bergoglio è in linea con Paolo VI. La chiesa crede in Cristo che è venuto nella carne. Evangeli Gaudium cita l’Ecclesiam suam. Il povero non è inteso in senso individuale ma collettivo. Chiesa mandata a spendersi per i poveri e ne assume la cultura e i valori. Chiesa che si evangelizza a contatto con i poveri. Appare evidente la sintonia dei due papi. Il 10 novembre 2015 papa Francesco diceva: Gesù è il nostro umanesimo. In Gesù vediamo il volto di un Dio svuotato. Il volto di Gesù è simile a tanti nostri fratelli svuotati, resi schiavi. Se non ci abbassiamo non potremo vedere il volto di Cristo.

L’umanesimo montiniano è stato uno snodo importante che è stato ripreso e rilanciato da Francesco. Questo umanesimo è oggi la nostra strada. 

venerdì 19 maggio 2017

LA DONNA NELLA CHIESA




RIFLESSIONI SUL DIACONATO FEMMINILE
PIEVE MODOLENA 19 MAGGIO 2017

Relatrice: Alberta Maria Putti (Università Gregoriana-Roma)
Sintesi: Paolo Cugini

Occorre cogliere la questione con un dovuto realismo sia nei termini storici che teologici. Tre premesse:
·         Un approccio di tipo ideologico è pericoloso.
·          Altro problema è il tipo di ministerialità come il diaconato, nella sua tradizionalità lo si guarda come eccezione funzionale.
·          Altro aspetto. Papa Francesco ha aperto nuovi varchi.
Abbiamo davanti un contesto ecclesiale, che non è solo quello dei teologi, che non è preparato a questo tema. Il tema donna chiesa sia dal punto di vista teologico che di diritto la riflessione sulla donna sembra non essere arrivata ad una maturità tale che possa giustificare una visione teologica condivisa. Abbiamo presupposti diversi, dei linguaggi diversi, delle tensioni che non sono solo teologiche, che strattonano l’argomento e non ci aiutano ad un sevizio ecclesiale della donna.
Il mio intervento sarà una riflessione teologica a partire dal contenuto storico.
Il tema è complesso. Chiesa, donna e diaconato. Ruolo della donna, essere nella chiesa con una funzione. La chiesa nella sua organicità prevede dei ruoli legati a dei ministeri, o a delle prassi usuali. La specificità della donna nella storia della salvezza. La donna non può mai esprimere la sua originalità senza l’uomo.
C’è un’opportunità per la donna per parlare di diaconato?
Tre punti:
·         Sintesi storica
·         Analisi teologica
·         Prospettive
ANALISI STORICA. Cosa impedisce alla chiesa d’includere le donne tra i diaconi permanenti? È stata la domanda che è stata posta al papa lo scorso anno. Il papa ha istituito una commissione articolata costituita da membri preparati sul tema. Francesco ha voluto una commissione che sta per ora studiando l’aspetto storico. C’è stata molta libertà del santo padre su questa domanda.
Lla chiesa dei primi tempi era una chiesa maschile con molte donne. Gli Atti degli apostoli manifestano ciò. Queste donne hanno una parte importante nella chiesa, la edificano, aiutano le fondazioni, danno la possibilità di accoglienza. Febe delle diaconesse di Cencre Rom 16,1. Paolo parla delle fatiche delle donne che vivono a servizio di Cristo. Il mistero, il servizio di queste donne è legato al discepolato di Cristo. Paolo sottolinea la continuità del trasmettere qualcosa (2 Tim 1,5) nei luoghi della quotidianità della chiesa. Le donne non si sottraggono alla fatica. Nonostante questo avvio che troviamo nel NT vediamo che il diaconato come servizio alla chiesa ha uno sviluppo anomalo. Uno studio della Commissione Teologica Internazionale si indica una complessa questione non solo sull’applicazione, ma anche nella riflessione su cosa sia.

Ci sono diverse testimonianze sul diaconato. In questi primi due secoli si vede che l’istituzione avviene per ordinazione del vescovo, per ausilio al suo ministero. Il diaconato e il presbiterato sono due funzioni ecclesiali diverse. Nel IV secolo si capisce che il diaconato diventa un servizio specifico autonomo: il servizio della catechesi, di predicare e l’attività sociale legata alla sua stessa persona. Nel IV secolo si comprende che il ministero del diaconato maschile è affiancato al diaconato femminile. Questo ministero esisteva e aveva caratteristiche particolari. Era distinto dal presbiterato e aveva un ufficio d’ausilio al Vescovo.

Come mai abbiamo avuto una perdita della figura del diaconato? Durante la prassi liturgica dopo il mille si ha una decadenza del diaconato maschile perché il presbitero incomincia ad assumere tutte le funzioni del diacono e così scompare. Dopo lo scisma con la chiesa orientale tutte le funzioni liturgiche dei diaconi vengono assunte dai presbiteri. Il Vaticano II fa un grande sforzo.
Moira Scimi: lega la parola diaconessaa alla tradizione più antica della chiesa e mostra come tra il primo e il IV secolo le figure delle donne affiancano le figure dei presbiteri.
Delle testimonianze non cristiane ci aiutano. Plinio il Giovane parla di due schiave cristiane che erano chiamate ministre.

Commento dei padri a Rom 16. Timoteo rivolge questa richiesta a proposito dei diaconi. Queste donne possono essere donne che hanno servito la chiesa, mogli dei diaconi, o diaconi loro stesse. Se si tratta di donne diacono Timoteo ne parla perché dovevano presentarsi da lui. Il Pastore di Erma ne parla. Non c’è arbitrarietà nell’uso di questa parola ma una condivisione sul fatto che il diaconato esistesse e che queste donne avevano una funzione precisa. Cosa facevano?  Diaconesse che distribuivano l’eucarestia. Lo dice Teodoro di Mopsuestia. Ad Edessa e Mesopotamia si diffonde il diaconato femminile. Qui aiutano al rito del battesimo, anche perché era somministrato a persone adulte, soprattutto nelle unzioni. Visite alle donne malate nelle case dei pagani. Questa testimonianza arriva sino all’inizio del quarto secolo. Clemente Alessandrino: le diaconesse oltre alla carità predicavano. Nello stabilizzarsi del servizio diaconale delle donne abbiamo una specificità: le donne si occupano delle donne e le accompagnano al battesimo e aiutano nel rito del battesimo. Nell’oriente cristiano si stabilizza nel monachesimo femminile.  L’Asia minore parla di queste sante donne monache. Giovanni crisostomo parla di Olimpia.
Se nell’oriente cristiano c’è una crescita di questo aspetto, nell’occidente c’è una decadenza. In Gallia ci sono dei pronunciamenti contro l’ordinazione delle donne. A Nimes si dice che sia cosa sconveniente questa consacrazione. Si dice che la donna è fragile, per questo non sarà più data la benedizione del diaconato.
La scomparsa del diaconato femminile diventa la causa della fine del diaconato maschile. Che cosa resta del monachesimo femminile? Le insegne episcopali erano presenti nelle badesse sino a due secoli fa.
Interessante è che di fatto il ministero presbiterale ha concentrato le  competenze del diaconato a sé. C’è stata una sostituzione delle funzioni minori. Il recupero del diaconato che si esplicita nel Vaticano II lascia una porta aperta. Il Vaticano II è l’esplicitazione di una preparazione che è durata più di 150 anni.
Il testo di LG è chiara in questa prospettiva. Ministerialità che passa dall’appartenenza alla chiesa. LG 29. Paolo Vi nel 1972 fa un chiarimento. Sarà Benedetto XVI che attuerà il cambiamento il canone 1008-1009 e asserisce distinzioni profonde. Evidenzia una differenza tra episcopato, presbiterato e diaconato e stabilisce le varie azioni. Il testo del catechismo riprende LG 18 e 26, mentre il canone cambia. 

Riflessione teologica.
a.      Per cogliere il problema del diaconato femminile dobbiamo collocare il problema nel contesto del ruolo della donna nella chiesa, così come la chiesa lo vuole. Occorre superare una visione sociologica, una visione che la cultura contemporanea suggerisce non è di aiuto alla chiesa. Potrebbe impedirci di vedere il centro della visione, che è quello che la donna è in se stressa, quello che la donna è nelle relazioni nella società ecclesiale.
b.      Una funzione ecclesiale non può avere la stessa funzione dell’altra. Paolo per parlare dell’unità dice che ciascuno ha una funzione. L’importanza dell’unità è la differenza. L’annullamento delle diversità è molto in voga. La chiesa nella sua maternità genera e assicura la fede. Dalla chiesa primitiva ha conservato un’attenzione alla donna.
c.       Le donne non sono assimilabili ai diaconi. Vivono un’esperienza differente anche se si chiamano diaconesse. C’è una distinzione tra i ministeri e i ministeri d’aiuto come il diaconato. Questi ministeri agiscono insieme. La prospettiva del diaconato femminile è dentro una prospettiva laicale.
d.      C’è una responsabilità ecclesiale. Non è solo chi decide che vede. C’è una responsabilità di visione sapienziale. Teologia e magistero sono due mani di un unico movimento.

Prospettive. MD 27. Lega la dignità della donna nella chiesa al battesimo e al sacerdozio comune. Due proposte:
Kasper: propone una possibilità delle donne al diaconato. L’ordinazione non abilita a qualcosa, ma apre altro. Abilita ad agire nella prospettiva di Cristo servo e non di Cristo capo. Il diaconato femminile può essere iscritta al servizio al vescovo.
Problema: l’essere donna è un impedimento al diaconato?


Conclusione: non spegnete lo Spirito. Tenete tutto ciò che è buono e conoscere quello che di buono la chiesa ha trasmesso sino a noi. 

martedì 16 maggio 2017

COSTRUIRE COMUNITÀ ACCOGLIENTI-CONVEGNO





CENTRI MISSIONARI DELL'EMILIA ROMAGNA

IMOLA 16 MAGGIO 2017

Intervento di: Erio Castellucci, vescovo di Modena
Sintesi: Paolo Cugini

Punto di riferimento due documenti: Dalle feconde Memorie alle coraggiose prospettive; Evangeli Gaudium.
Comunità. Costruire comunità accoglienti significa cercare di capire cos’è una comunità. Quattro modelli di comunità:
a.      La mia comunità potrebbe essere, in primo luogo, l’insieme degli operatori pastorali.
b.      Comunità anticamente erano tutti coloro che si nutrivano dell’unico corpo di Cristo. I cristiani avevano una visione di chiesa radicata sull’Eucarestia. Per questo ci s’identificava con il Vescovo da cui ci si comunicava. Il primato di Roma nasce anche da questa esigenza di un punto di vista comune.
c.       Con comunità cristiana possiamo indicare anche l’insieme dei battezzati di un determinato territorio, che è molto più ampio dell’insieme dei praticanti e che fanno qualcosa in parrocchia. Occorre avere quest’orizzonte, se no la comunità diventa un gruppetto scelto. Se per esempio un parroco ha un’idea di comunità ristretto, ci sarà un tipo di comunità che lui ha in mente. Anche il significato di comunità come insieme di battezzati deriva dall’antichità, quando il battesimo era considerato la porta d’ingresso nella comunità.
d.       C’è poi la comunità civile, vale a dire l’insieme di tutti coloro che vivono in un teriritorio. Anche questo orizzonte è comunitario da tenere presente.
Quando parliamo di comunità non intendiamo un gruppo rigido, definito, ma intendiamo un’appartenenza che può vivere diversi livelli d’intensità. Con il principio di Evangeli Gaudium 225: il tempo è superiore alo spazio, papa Francesco ci dà la prospettiva che dobbiamo pensare in termini di processi. Nell’Amoris Laetitia parla di situazioni compiute e in cammino. Comunità non è una cittadella, ma un insieme di discepoli in cammino e quindi accoglienti dovrebbe essere inutile specificare che dovrebbero essere inutile. Nel concetto di comunità cristiana c’è già una possibilità di accoglienza, un’appartenenza dinamica. Quale contributo dei fidei donum?
Documento  CEI 2007, n. 9. Questa esperienza di scambio missionario porta la missione come una realtà vicino alla gente. Ha una ricaduta positiva sul presbiterio diocesano. È senza dubbio un compito. Si eredita una concezione di ministero presbiterale statica. Tutti siamo ordinati dentro una chiesa locale per la chiesa universale. Perché è la chiesa locale stessa che è soggetto della missione. Il Concilio ha superato l’idea del prete diocesano che per suo coraggio parte e fa il missionario. Questa idea è superata perché è la diocesi che è missionaria oppure tradisce la sua natura. È la chiesa che si apre a paesi che possono diventare dei fratelli per divenire scambi missionari. È la diocesi che si esprime, perché il soggetto è la diocesi. Il soggetto è il presbiterio nel caso dei presbiteri che partono. I presbiteri missionari sono stimolo per creare comunità di annuncio. Apporto attento alla centralità dell’annuncio. Abbiamo perso la semplicità dell’annuncio e delle relazioni. E’ tutto più macchinoso. I fidei donum ci richiamano il contatto con gli ultimi e i poveri e la religiosità popolare. I fidei donum ci mantengono con i piedi per terra. Vedere con i propri occhi per capire la realtà. Molte fasce di povertà non si affacciano alla vita liturgica ed eucaristica.
Conclusione:
Che cosa significa una conversione missionaria rispetto alla semplice conversione dell’esistente? Papa Francesco parla di riforma. Questa riforma ha tre livelli:
1.      La conversione del cuore. È il primo passo. La conversione è la sorgente di ogni riforma. Se il cristianesimo ha preso piede nella storia è perché non è partito proclamando rivoluzioni di strutture, ma partendo dalla conversione del cuore. Convertitevi e credete al Vangelo: è il punto d’inizio.

2.      Lo stile. La conversione del cuore deve riflettersi a livello personale e comunitario. Uno stile accogliente è lo stile di chi accompagna, discerne e integra. È di chi si mette al punto in cui l’altro è, gli si mette a fianco, lo accompagna. L’Amoris Laetitia contiene uno stile pastorale rinnovato, più che delle novità teologiche. Il tempo è superiore allo spazio. Poi discernere per capire le scelte da fare a partire dalla realtà. Lo stile significa arrivare ad una criteriologia evangelica, che non può non creare tensioni nelle comunità. Dobbiamo avere a cuore l’unità. A volte c’è da chiedersi se in alcuni momenti non sia più evangelico dare degli spintoni. A volte l’integrazione passa per la disintegrazione. Anche Gesù ha un po' disintegrato.


3.      Strutture. S’intende anche abitudini, organismi. Evangeli Gaudium dice di non adottare la frase: si è sempre fatto così. Il cambiamento è sempre difficile soprattutto per chi ha non ha fatto scendere il Vangelo in profondità.
L’esperienza ci deve aiutare a richiamare la riforma ai tre livelli.

Intervento di: Paolo Cugini
Mi sono chiesto: quali sono gli aspetti della pastorale e delle scelte pastorali realizzate in Brasile che mi stanno aiutando nel lavoro pastorale a Reggio Emilia? La scelta pastorale della diocesi è quella delle unità pastorali (60). Presento alcuni nodi che stanno orientando le nostre scelte pastorali.
1.      Rapporto comunità e Unità pastorale: da come s’imposta il rapporto nasce l’indicazione del tipo di Ministerialità e di modo di vivere il ministero. Valorizzare la comunità, fare in modo che la comunità possa vivere di forze proprie. Questo comporta la possibilità di celebrare il giorno del Signore e di avere laici che svolgano ministerialità all’interno delle comunità. Per questo occorrono anche pastori con sensibilità pastorali, che non facciano precedere le idee dalla realtà, ma che si pongano in ascolto della situazione concrete e attivino modalità di accompagnamento e discernimento per giungere ad orientamenti comuni. Difficoltà di aiutare le persone a sentire la comunità come propria e quindi sentire il desiderio di prendere posizione, prendere l’iniziativa. Nel primo consiglio pastorale dell’Unità Pastorale le persone presenti hanno scelto di mantenere vivi i consigli pastorali locali per mantenere vive le comunità. Accanto al consiglio pastorale mensile delle comunità, c’è un consiglio pastorale trimestrale al quale partecipano i consigli pastorali delle cinque parrocchie. La risposta al problema del rapporto parrocchia Unità Pastorale indica anche la modalità di come s’intenda vivere il proprio ministero nelle comunità. Se la priorità è la vita della comunità per aiutarle a vivere uno stile missionario, allora in un qualche modo occorre stare nella comunità. Ho, così, organizzato la settimana trascorrendo una giornata in ogni comunità, pranzando ogni giorno in una casa diversa. L’obiettivo è quello di conoscere lentamente le famiglie delle parrocchie, per fare in modo che l’eucarestia celebrata alla domenica sappia un po' della gente della comunità.  Problema generale: come aiutare le comunità a passare da un’idea statica del presbitero ad una presenza dinamica (uscire dal lamento: non c’è mai).

2.      Sinodalità: creare spazi a diversi livelli in cui sono le comunità a riflettere sui cammini da compiere per prendere le decisioni. Consigli pastorali, coordinamenti. La fatica di pensare insieme e di scegliere insieme. Esempio dell’accoglienza nel progetto Caritas: emergenza freddo. Aiutare le comunità a prendere l’iniziativa, a creare dei momenti assembleari senza la necessità che il parroco sia presente.

3.      Ministerialità: per permettere alla comunità di vivere in assenza di presbitero diviene fondamentale la formazione dei laici. C’è un primo livello della formazione che consiste nel cammino biblico. Abbiamo iniziato un’esperienza di preparazione insieme delle letture della domenica. Sono attivi sul territorio diversi centri d’ascolto della Parola a dimensione famigliare. Abbiamo attivato momenti specifici della formazione, tenendo conto di quello che la diocesi offre e di quello che c’è sul territorio. In questo cammino è molto importante la presenza dei diaconi. Attualmente sono tre nell'unità pastorale. Abbiamo realizzato un percorso di sensibilizzazione al diaconato in tutte le cinque parrocchie che ha condotto all'indicazione di altri tre candidati che hanno già iniziato il cammino formativo.

4.      Missionarietà: siamo alla prima fase, vale a dire, la valorizzazione di quello che già avviene sul territorio che stimola la presenza missionaria della parrocchia: ministri del battesimo e del matrimonio, catechesi nelle case. Abbiamo avviato anche una fase di studio per comprendere in che modo è possibile essere presenti sul territorio a partire dalla situazione attuale in cui il parroco non è in condizione di realizzare le famose benedizioni pasquali. Problema: come passare dalla presenza del parroco sul territorio alla presenza della comunità.

5.      Comunità accoglienti. Accompagnamento spirituale dei gruppi di africani presenti sul territorio: famiglie della Burkina Faso, donne nigeriane, studenti del Camerun, Togo e Congo.Oratorio con il cortile aperto al territorio. Attualmente il 90% dei bambini e ragazzi che frequentano durante la settimana l’oratorio provengono da tante nazioni (circa una ventina). Chiesa che accoglie i cristiani omosessuali, lesbiche, bisessuali, transessuali. Chiesa che allarga la tenda per accogliere divorziati, separati. Sono esperienze in atto.


lunedì 15 maggio 2017

VISITA AI NOSTRI GIOVANI CHE STUDIANO E LAVORANO LONTANO




Paolo Cugini

Nei mesi di maggio-giugno ho deciso di visitare alcuni giovani che studiano e lavorano fuori città. Lo facevo anche in Brasile. Mi ricordo la prima volta che sono andato a trovare alcuni giovani della parrocchia di Miguel Calmon che erano andati a studiare nella capitale dello Stato della Bahia: Salvador. Anche da noi sono tanti i giovani che studiano e lavorano fuori Reggio. C’è chi studia nelle città vicine di Modena, Parma, Bologna. E c’è chi studia più lontano, come Milano, San Marino e altre città e per questo è costretto a cambiare residenza. Ci sono anche diversi giovani che studiano e lavorano all’estero come Siviglia e Londra. Due settimane fa, assieme all’amico Emanuele, siamo stati a Londra ed abbiamo incontrato Federico e Cecilia, già capi scout di Reggio 4. Federico lavora da alcuni mesi come ingegnere, mentre Cecilia sono ormai tre anni che lavora come ostetrica. Li abbiamo trovati in forma e motivati. Siamo stati ospiti a casa di Federico e con lui abbiamo iniziato le giornate con le lodi e terminato con i vespri.


Oggi è stata la volta di Milano. In questa città, secondo i miei calcoli, studiano sette giovani di quelli che conosciamo. Ne ho contattati personalmente cinque e, alla fine, sono riuscito ad incontrarne tre. Gli altri proverò più avanti. Ho incontrato Matteo, Morgana e Luca. Tre giovani ben conosciuti perché, fino allo scorso anno, sono stati educatori dei ragazzi del post Cresima a Regina Pacis. Matteo e Morgana stanno finalizzando un master, mentre Luca è al primo anno della Magistrale. Tutti e tre studiano alla Cattolica. È stato bello incontrarli e li ringrazio per avermi dedicato un po' del loro tempo così prezioso. Gli ho voluti incontrare anche per manifestare la riconoscenza di tutta la parrocchia per il bellissimo lavoro svolto come educatori dei ragazzi. Mentre parlavamo durante il pranzo, ho percepito quanto sia forte nel loro cuore il ricordo dei ragazzi incontrati negli anni di servizio in parrocchia. In fin dei conti, se la fede è trasmessa agli adolescenti delle nostre parrocchie, è anche grazie all’attenzione di questi giovani, spesso nell’età degli studi universitari, che con generosità si dedicano a loro. Lasciamo, allora, lo spazio a loro e ascoltiamo quello che hanno da dirci.





Com’è la vostra vita a Milano?

Matteo: parto la mattina e torno alla sera da scuola.
Morgana: io vado a scuola al pomeriggio e alla mattina sistemo la casa.
Luca: la vita è tra le lezioni, lo studio, le chiacchere con gli amici.

Sembra una vita da vecchi. È, invece, una vita intensa, ma bella. La nostra vita è dinamica. Siamo sempre in giro. Ho imparato più quest’anno che negli altri anni a Reggio. È stato così intenso e con ritmi talmente alti che è stato impressionante. Anche a livello personale sono cresciuta/o molto. Quando vai in una grande città ti provoca, ti apre la mente. Ti accorgi di come va il mondo.

Riuscite a coltivare il vostro cammino di fede?
A livello personale è difficile coltivare il proprio cammino di fede. Ad esempio, non siamo riusciti a prendere il rito delle ceneri perché qui a Milano c’è il rito Ambrosiano. In ogni modo, abbiamo trovato la nostra chiesa di fianco a casa. Facciamo fatica a coltivare il cammino spirituale perché i ritmi sono intensi e gli impegni sono tanti. Rischi di perderti nelle cose che hai da fare. E la mancanza di contatto con la comunità di origine influisce, perché portare avanti un cammino di fede da solo non è facile.

Da lontano di che cosa avete più nostalgia degli anni della parrocchia?
I campeggi, la comunità, i campeggini, i bellissimi Grest. Le esperienze che si fanno insieme con i ragazzi. Abbiamo faticato per formare un gruppo in parrocchia anche perché ognuno di noi tre veniva da cammini differenti. Poi, una volta formato, le cose hanno cominciato a funzionare. Quando torniamo a Reggio nel weekend usciamo con gli amici conosciuti in parrocchia. Anche i momenti di ferie li pensiamo ancora con gli amici educatori e con i ragazzi.

Com’è l’Università Cattolica?
L’università Cattolica è difficile percepirla come cattolica. Dal punto di vista dei compagni e dei prof non c’è nulla di cattolico. La qualità della proposta è molto buona. È una spesa molto grande ma per ora ci viene da dire che ne è valsa la pena.

Un messaggio che volete dare:
Morgana: è un’esperienza che auguro a chiunque. Non fasciatevi la testa prima che le cose succedano.

Luca: Non abbiate l’ansia del futuro. Le cose migliori sono quelle più inaspettate. È importante godersi gli anni della scuola e poi, quando ci sarà da prendere le decisioni, si farà.

Matteo: uscite dalla vostra confort zone e mettetevi in gioco. Dovevo andare a Bologna ma erano esauriti i posti. Ho provato a Milano pensando che sarebbe stato impossibile entrare e invece eccomi qua.


Un grazie di cuore, carissimi amici. A presto.

domenica 14 maggio 2017

RIFLESSIONI DALLA VEGLIA






VEGLIA DI PREGHIERA PER LE VITTIME DELL’OMOFOBIA, TRANSFOBIA E DI OGNI FORMA DI DISCRIMINAZIONE
CHIESA DI REGINA PACIS-REGGIO EMILIA 14 MAGGIO 2017

La Chiesa si è gremita di gente. Molte persone erano già in chiesa mezz’ora prima dell’inizio per provare i canti. C’è un clima d’amicizia, di desiderio di partecipare alla costruzione di un mondo nuovo, un mondo di pace, dove tutte le persone si possano sentire finalmente accolte, finalmente a casa. C’è soprattutto la presa di coscienza che la fede nel Signore Gesù sia il dono più grande che abbiamo e che solo il Signore può condurci verso ciò che l’uomo non riesce ad immaginare. Un mondo dove tutti si sentono accolti, dove nessuno è giudicato e pregiudicato, perché “Dio non fa preferenze di persone” (Atti 10). C’è la coscienza che la misericordia di Dio è più grande dell’odio dell’uomo. C’è il desiderio di stare dalla parte di Dio, che è la parte dei piccoli, delle persone marginalizzate, disprezzate, discriminate. Dove c’è qualcuno disprezzato Dio è con lui. Chi è entrato in chiesa questa sera sa questo, lo sente. Poi la veglia comincia. I testi letti sono di grande profondità. Cantiamo con gioia, meditiamo, ascoltiamo. Poi arriva il brano scelto per la veglia: benedite e non maledite. È Paolo che sprona i membri della comunità a rispondere all’odio del mondo con l’amore. È una logica nuova che è stato il Signore ad insegnarci e poi Lui stesso ci ha dato l’esempio perdonando coloro che lo stavano uccidendo sulla croce. Maria Soave, questa donna che viene da lontano, amica di tante persone presenti in chiesa, ci aiuta a spezzare il pane della Parola. Parole dolci, calme, che scendono in profondità. Filomena, amica della comunità di Codemondo, ci accompagna nella meditazione con il dolce suono della sua chitarra. La vigilia continua con momenti classici come la preghiera dei fedeli, il Padre nostro, l’abbraccio della pace. La benedizione finale di don Giuseppe chiude questo momento che sembra magico.
 Grazie, Signore, per il dono di questa veglia. Grazie perché, attorno all’altare, ci fai sentire tutti fratelli e sorelle, amati da te, senza nessuna esclusione.

[sintesi dell’intervento di Maria Soave Buscemi non rivista dall’autore]


Riflessione di: Maria Soave Buscemi
Sintesi: Paolo Cugini

Guardavo il cero pasquale, le candele che sono sempre così perfette. Sembrano sempre così belle. Nell’anno liturgico il cero pasquale si consuma. Possiamo guardarlo questo cero e si consuma. Siamo all’inizio, siamo al tempo di Pasqua. È grande, maestoso. È la luce dell’annuncio più importante della nostra vita: Gesù è risorto. La morte non ha più potere. Gesù è risorto. Le parole che ascoltiamo ci possono ferire oppure ci possono rendere gravidi di speranza, di fede. È uno dei luoghi dove l’amore si fa carne. Paolo ci dice: Benedite e non maledite. Questa sera siamo in questa chiesa, respiro di una parrocchia per testimoniare la fede fragile e piccola che ci rende forti nella debolezza: Gesù è risorto. 
Lo facciamo da parrocchiani. Abbiamo ascoltato il profeta Isaia. La parola che accompagnava le comunità cristiane: parrocchia. Era il luogo dove venivano accolto tutte quelle persone a cui il potere romano e l’arroganza del tempio non assicuravano i pieni diritti. Tutte le persone senza diritti né civili né religiosi, erano chiamate parrocchiane. La parrocchia era il luogo che li accoglieva. Allarga lo spazio, sposta i paletti affinché ci sia sempre posto per tutti per tutte e per tutto senza nessuno escluso. Allarga lo spazio della tua tenda. Questa è Parrocchia. Gesù sulla croce ha aperto le braccia per accogliere tutti. Nessuno è escluso. Affinché tutti possano partecipare della resurrezione: questa è parrocchia. In questo tempo di cero pasquale che illumina ancora perché è tempo di Pasqua, la lettera ai romani ci dice una parola che è respiro fondamentale. San Tommaso ci diceva che è il principio. 
Papa Francesco ce lo ricorda sulla sua pratica. Tra di noi c’è un principio che è il nome di Dio: misericordia. Vuole dire amare dal basso, fin dai piccoli. Amare chinandosi, amare svuotandosi. Amare per far posto. Misericordia. Vi chiedo di guardare alla vita di ciascuno per far tornare al cuore quel giorno in cui Gesù mi ha amato. Amore che è grazia. Cercatelo nella vita: vi è successo? Perché questa grazia che ci ha toccati ci fa stare umanamente veramente al mondo. È con questi occhi che guardiamo gli altri: il giorno della misericordia. Per questo papa Francesco l’ha scelto come motto del suo papato. Per misericordia siamo figli e figli dell’amore gratuito che nulla chiede. Non amiamo per essere amati, ma siamo amati gratis. Per questo nella nostra pochezza amiamo. Mentre pregavo per questo momento di preghiera dicevo che devo raccontare una cosa. Sono missionaria laica da quasi 30 anni. In Brasile ho avuto in regalo la missione. Ho servito una diocesi per 20 anni, Un uomo Macir si è ammalato di AIDS ed era presbitero della diocesi. Si è talmente rattristato che nessun farmaco ha fatto effetto. Ci siamo trovati insieme e ci siamo chiesti: cosa facciamo? Abbiamo detto: lo curiamo noi. Tutte le comunità hanno fatto a turno giorno e notte per prendersi cura. Anche il vescovo era con noi.
 Una sera prima di morire mi ha detto: Dio ci ama tutti? Ama anche gli uomini che amano altri uomini e le donne che amano donne? A me è venuto in mente una poesia di Fernando Pessoa: tudo vale a pena porque nossa alma nao è pequena. Ogni forma di amore vale la pena perché la nostra anima non è piccola. C’è un respiro di anima che è tutto tessuto di corpo. È questa anima che siamo chiamati ad accogliere. Il nome di Dio è misericordia e per questo ogni forma di amore vale la pena e per questo benediciamo sempre perché il suo nome è misericordia. 

mercoledì 10 maggio 2017

ARCOBALENO


La diversità segno dell’alleanza con Dio
Paolo Cugini

È stato Isaac Newton a scoprire che il bianco, più che essere un colore, era l’insieme dei colori dell’arcobaleno. Lo Ha scoperto quando, giovane studente, leggendo e riflettendo sulle teorie di Boyle, si rese conto che c’era ancora qualcosa da capire. Lo studioso italiano Maurizio Mamiani, leggendo i taccuini del giovane Newton, ha scoperto come procedeva nella ricerca. Mentre leggeva le pagine di Boyle si domandava se era proprio così come lui diceva, poneva nel suo taccuino delle domande che divenivano delle indicazioni di ricerca. Fu così che un giorno decise di andare al mercato per comprare un prisma. Tornato a casa fece in modo di orientare un raggio di luce che, ponendolo dinanzi al prisma scoprì, con sua grande meraviglia, che la luce bianca veniva rifratta nei colori dell’arcobaleno. Non soddisfatto del tutto dell’esperienza, tornò al mercato la settimana seguente per comprare un altro prisma, che mise dinanzi alla luce rifratta, che si ricompose nel fascio unico di luce. Fu in questo modo che Newton scoprì che il bianco, in realtà era l’insieme dei colori dell’arcobaleno. Fece questa scoperta non fidandosi delle idee di un grande scienziato come Boyle, ma volle provare nella realtà quello che i libri dicevano e scoprì che non sempre i libri ci prendono, che non sempre le idee coincidono con la realtà, anzi.

Come ci ha ricordato il filosofo tedesco Wilhelm Weischedel anche per quanto riguarda il problema di Dio occorre procedere in modo scettico, vale a dire in modo riflessivo, “guardando intorno scrutando”. Non si tratta di sfiducia nella ragione, ma di abituare l’anima a non fidarsi troppo dell’apparenza, a non aderire in modo sconsiderato a ciò che appare come ovvio, scontato. Un po' di scetticismo aiuta a prendere per mano la ricerca su ciò che viene presentato alla nostra coscienza dal pensiero comune come un dato immediato, per sviscerarlo e, soprattutto, confrontarlo con la realtà. “Ciò che nell’interrogare si raggiunge come conoscenza ultima è che la realtà, che si dimostra problematica, si presenta come mistero”.

Come Newton che procedendo in modo scettico sulle osservazioni scientifiche sulla teoria dei colori di Boyle scoprì che il bianco più che essere un colore era dato dalla somma di tutti i colori dell’iride, così anche l’uomo occidentale deve imparare a procedere in modo scettico nei confronti del pensiero unico, di tutte le forme di pensiero totalizzanti, che riducono la molteplicità del reale in un’idea fissa e statica. Del resto il filosofo francese Charles Péguy già all’inizio del secolo scorso ci ammoniva sull’abbaglio che la cultura Occidentale aveva preso da secoli nel considerare la realtà in modo uniforme. Contro una tradizione di pensiero ostinatamente attenta ad elaborazioni sintetiche ed uniformi della realtà – i sistemi filosofici – Péguy afferma l’esigenza di accogliere il reale per come esso si manifesta nella mobilità del presente, cioè nella sua pluralità. “Il reale – afferma Péguy – ci presenta non solo delle dualità, ma delle pluralità. La realtà ci appare e si presenta divisa in molte parti”.

La filosofia greca, culla dalla cultura Occidentale, nasce come lo sforzo di cercare l’unità nella diversità, il principio unificatore della realtà. I primi sistemi metafisici tentano di rispondere al problema considerato cruciale nella filosofia, vale a dire: com’è possibile che dall’Uno si dia il molteplice? Con lo sguardo di color che sono venuti dopo possiamo dire che la cultura Occidentale nasce sin dall’inizio da un’aporia, da un errore d’impostazione, che ha condizionato pesantemente lo sviluppo successivo. Sappiamo, infatti, con il senno di poi, che il problema non sta tanto nel capire come dall’Uno si dia il molteplice, ma come il molteplice possa darsi ed esprimersi come tale. Ogni cammino verso l’uno, verso una sintesi, è la negazione della realtà, una forzatura innaturale, che provoca sofferenza e, quando accade, la natura si ribella. Solo nell’Uno come manifestazione e trasparenza delle diversità, la realtà si sente rappresentata. Quando invece il cammino verso l’uno avviene con la violenza, con la soppressione del diverso per imporre un modo unico di essere, un pensiero unico, allora la natura si ribella, prima o poi.

In questa prospettiva ci viene incontro anche la Parola di Dio. Infatti, in una delle prime pagine dell’Antico Testamento, quando Dio rinnova l’alleanza con l’umanità tramite Noè, il segno di questa alleanza è l’arcobaleno. “E Dio disse: «Ecco il segno del patto che io faccio tra me e voi e tutti gli esseri viventi che sono con voi, per tutte le generazioni a venire. Io pongo il mio arco nella nuvola, e servirà di segno del patto fra me e la terra” (Genesi 9,12-13). Per ristabilire l’alleanza distrutta dall’uomo e dalla donna, Dio sceglie un simbolo che indica una direzione, un modo di stare al mondo, un segno della sua presenza nella storia. Ebbene, questo segno non è nella linea del pensiero unico che la filosofia greca alcuni secoli dopo inizierà ad elaborare, ma è nell’ottica della pluralità. In un certo modo attraverso quel simbolo è come se Dio avesse voluto dire all’umanità che, per incontrarlo dovevano percorrere il cammino della molteplicità.

Un mondo plurale rispecchia il sogno di Dio, il suo pensiero, ciò che lui ha voluto esprimere con il segno dell’alleanza: l’arcobaleno. Molteplicità di colori, perché non può essere identificata con un colore la stessa realtà che Dio ha creato che è a tanti colori. Arcobaleno dice naturalità nell’abitare la pluralità, nel pensare la diversità, nell’accogliere la molteplicità. Arcobaleno significa compresenza di elementi diversi senza la necessità che tutto sia ridotto ad uno. Arcobaleno significa libertà di espressione, libertà di coscienza, libertà di esprimere un modo di essere diverso dall’altro senza paura di essere giudicato. Se la nuova alleanza è l’arcobaleno allora il cammino che l’umanità è invitata a compiere consiste nell’apprendere a convivere con le diversità perché la diversità è la cifra della realtà.

Gesù è l’esempio di questo cammino. Non a caso è presentato nel Nuovo Testamento come colui che realizza la Nuova alleanza. In primo luogo, annuncia il Vangelo facendosi accompagnare da uomini e donne e sino alla fine convive con loro. Poi lo troviamo costantemente al fianco di coloro che soffrono, delle persone discriminate dalla società, al lato degli esattori delle tasse, dei lebbrosi, delle prostitute, di tutto ciò che la società non considera come degno di attenzione. In Gesù tutti trovano riparo, tutti si sentono accolti, ascoltati, protetti. “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, perché io vi ristorerò”. In Gesù tutti trovano spazio, perché accostandosi a Lui tutti percepiscono che la differenza non è un problema, ma un’esigenza, un arricchimento. Gesù muore come uno di loro, crocefisso come un brigante, umiliato e malmenato come se fosse un ladro. In un mondo incapace di abitare la diversità, Gesù annunciando l’Alleanza della pluralità, della convivenza della molteplicità, è stato punito, ucciso barbaramente. La sua morte è il segno di un’umanità incapace di accogliere la diversità, modellata sul pensiero unico, sulla forza di coloro che stanno al potere e che esigono che tutti la pensino allo stesso modo.

La chiesa che nasce sotto la croce è la chiesa che sgorga dall’arcobaleno e porta il segno di un duplice significato: la continuazione dell’annuncio della Nuova Alleanza rinnovata da Gesù e la sofferenza che questo annuncio provoca nelle culture monotematiche. La chiesa maestra di umanità, discepola del Signore è quella che permette alle diversità di esprimersi, che rimane continuamente aperta a tutti, che si pone al fianco soprattutto di quelle diversità che fanno più fatica a manifestarsi. La chiesa è maestra di umanità, segno della Nuova Alleanza, testimone dell’Arcobaleno tutte le volte che fa sì che la molteplicità del reale si realizzi. Quando invece la chiesa si rinchiude per difendere una forma, un pensiero, una teologia, rischia di forzare la realtà e di ferire chi rimane fuori dal sistema proposto. Aiutare la chiesa ad essere spazio della diversità per essere fedele alla missione di Gesù è il compito di ogni cristiano.

Com’è difficile questo cammino. C’è da disintossicarsi di tutto quel fardello che si è accumulato nell’anima, fardello fatto di idee, di teologie, di catechismi, di filosofie e metafisiche, di pensieri fissi che interpretano la realtà e non la lasciano respirare. Che voglia di aria pura, di colori, di relazioni autentiche non deformate dalle convenzioni culturali, sociali, etiche. A volte mi chiedo se esiste un luogo così. Lo sognavo da giovane. L’ho desiderato abbracciando il ministero. L’ho intravisto nella preghiera. L’ho rincorso lottando contro i corrotti. Non riesco a vederlo nei volti duri di coloro che sanno già tutto e, per questo, condannano coloro che non si allineano. Quel sogno vagheggiato lo rivedo in Francesco. Speriamo il bene.