giovedì 28 gennaio 2021

A PIEDI NUDI SULLA NUDA TERRA

 


Paolo Cugini

 

       I piedi per terra che camminano sulla nuda terra, per sentire la vita che scorre, per sentire la vita così com’è nella realtà e non come la raccontano. Sentire il freddo d’inverno salire dai piedi, camminando sulla terra nuda. Non ci sono filtri, scarpe, sandali: solo i piedi sulla nuda terra, che sentono il fastidio dei grumi di terra. Senza filtri, appunto, si percepiscono le cose così come sono e non come te le raccontano. Mantenere un contatto nudo e crudo con la realtà aiuta a coglierla così com’è, nella sua verità, nella sua immediatezza, nella sua genuinità, per avere un’esperienza diretta, così diretta che nessuno te la può scalfire, perché nessuno potrà mettere in discussione ciò che avrai sentito quando avevi i piedi nudi sulla nuda terra.

      Qualcuno che ha fatto la stessa esperienza potrà dire che ha avuto sensazioni diverse. Già questa è un’indicazione importante sulla realtà che si manifesta attraverso le sensazioni nel tempo diverso: è molteplice, viva, creativa, plurale. E così, ponendo i piedi nudi sulla nuda terra potrai scoprire, carissima amica, che non c’è un’unica narrazione su ciò che vedi dinanzi a te, ma tante narrazioni quante sono le persone che la guardano, e nessuna contraddice l’altra, perché la molteplicità è l’essenza della vita reale.

    Forse è questo il problema, che non tocchiamo più per terra. Siamo sui social, ma non nel sociale. Cerchiamo le notizie su internet e non siamo più capaci di fare due passi per la strada. Sappiamo tutto, ma non capiamo più nulla e ci sfugge il senso profondo delle cose. Tornare a mettere i piedi nudi sulla nuda terra: è questo il cammino.

giovedì 21 gennaio 2021

LA FERITA NON E' IL TUTTO




Paolo Cugini

 

È già il segno di un grande cammino spirituale ed umano riuscire a guardare senza paura la ferita che ci brucia dentro l’anima, senza cercare di nasconderla, come di solito facciamo. Quando poi impariamo a non identificare la ferita con il tutto della nostra identità vuole dire che di strada dentro di noi ne abbiamo fatta e tanta. La ferita, infatti, non è il tuto dell’esistenza, ma un aspetto del cammino. Vincere la tentazione di lasciare che il sangue della ferita ci devasti di paura richiede molta energia spirituale. Occorre avere chiaro l’orizzonte della propria esistenza per non farsi sorprendere dai sentimenti negativi del momento. Ed è proprio in questi attimi di possibile disperazione che emerge con forza il cammino fatto o non compiuto. Prendersi tempo per curare la ferita, per lasciarsela curare, per permettere all’amore di entrare là dove la paura ha preso il sopravvento. Tempo e amore vanno sempre in compagnia, perché non si ama davvero se non ci si dà il tempo di amare e lasciarsi amare. Ed è nel tempo che la ferita lentamente si chiude, lasciando probabilmente una lieve cicatrice, necessaria per ricordarci chi siamo e da dove veniamo.

La ferita dell’anima è anche sintomo della vita che ci richiama ad un’armonia infranta. Nel vortice degli eventi della vita quotidiana a volte ci dimentichiamo di noi stessi. Un giorno, una ferita, ci obbliga a fermarci, a guardarla e, tanto più è profonda, tanto più necessita di cura. Benvenute le ferite profonde che ci obbligano a sederci, a piangere dal dolore, a pensare alle cause, a come è potuto succedere, infine, a pensare un po' a sé stessi. È curando le ferite che scopriamo che il tempo dedicato a noi stessi, non è un lusso che ci concediamo, ma un dono che tonifica l’esistenza. E allora, lentamente, le lacrime si trasformano in sorrisi, il pianto in allegria, il dolore in amore. Perché, come diceva Gesù, non possiamo amare gli altri se prima non amiamo noi stessi. Non possiamo chinarci sulle ferite degli altri, se non abbiamo imparato a curare le nostre.

Grazie, Signore, del dono della ferita. E della gioia della cura, che riempie il cuore e dona la forza di continuare il cammino con una maggiore consapevolezza di sé.

 

martedì 19 gennaio 2021

SULLA RIVA DEL FIUME

 



 

Paolo Cugini

 

Il fiume l’ho frequentato da ragazzo. O meglio, l’ho frequentato per un’estate. Mi piaceva camminare sulle rive del fiume, guardare l’acqua scorrere e pensare alla vita. Il fiume, infatti, assomiglia molto alla vita.

L’ho incontrato nel periodo in cui la vita mi sembrava eterna. Guardavo il fiume e non riuscivo a vedere l’orizzonte della mia vita: mi sembrava infinita. Mi sentivo immortale.

Guardavo lo scorrere del fiume e mi sentivo trasportare. I pensieri andavano lentamente verso mondi sconosciuti, ogni giorno diversi.

Guardavo il fiume e pensavo spesso a Gesù e alle sue parole. Com’è difficile ascoltarle e coglierle nella sua autenticità. C’è tutto un linguaggio religioso che le ha deformate, deturpate, rendendole spesso incomprensibili e, di conseguenza, insignificanti.

Forse è stato sulle rive di quel fiume montano che ho iniziato a vedere e a pensare la vita e il mondo in modo diverso. E anch’io sono diventato un altro.

E così il fiume mi ha insegnato tante cose. Lo scorrere della vita, l’importanza di vivere il presente, che poi non torna più, l’attenzione per ogni singola goccia del vivere.

Ogni goccia è importante nella misura in cui contribuisce a formare il fiume. Se schizza fuori, svanisce, non è più nulla. Percepire il proprio significato rimanendo nel fiume.

Tutto è importante. Ogni singola goccia è parte del fiume e il fiume stesso non esisterebbe senza le gocce.

Il fiume sembra una cosa unica. Da vicino ci si accorge che non è così.

Solo avvicinandoci possiamo cogliere la realtà delle cose che vediamo.

 

 

giovedì 14 gennaio 2021

CHE TRIO!

 



 

Paolo Cugini

 

È stato bello rivedere martedì pomeriggio negli spazi di quell’oratorio così significativo e così problematico nel mio ministero, due carissimi amici: Clara e Ciri.

Clara l’ho conosciuta nel parco del Gelso tra l’inverno del 2013 e la primavera del 2014. In quel periodo l’oratorio di Regina Pacis era in costruzione e allora trascorrevo spesso i miei pomeriggi alla ricerca dei luoghi frequentati dai ragazzi e, il parco, era uno di questi. Avevo visto Clara in azione sul campetto del Gelso e mi aveva colpito la sua relazione spontanea e, allo stesso tempo educativa, con i ragazzini che in quel periodo frequentavano il parco. Ci eravamo risentiti nelle festività di Natale del 2013, dove avevamo condiviso i vissuti e, come si suol dire in gergo, ci siamo “nasati” subito. Ho sempre pensato che un prete che gli viene affidato un incarico di pastorale giovanile in un territorio, non può limitare il suo campo di azione ai soli bambini e giovani che frequentano la catechesi. Clara univa un suo personalissimo e ricco cammino di fede, con un istinto naturale nei confronti dei ragazzi in difficoltà, che sapeva coinvolgere nello sport e, in modo particolare, nel calcio. Queste doti erano, a mio avviso, fondamentali per i ragazzi che in quel periodo frequentavano il campetto vicino all’oratorio.

La nascita dell’oratorio, la mia nomina a parroco dell’unità pastorale e il contatto con altre realtà giovanili, fecero sorgere l’esigenza di una figura professionale, che potesse lavorare con uno stile di chiesa aperta sul territorio e non chiusa in sé stessa a curare le proprie pecorelle. Fu così he un giorno don Giordano Goccini che in quel periodo coordinava sia l’oratorio cittadino che la pastorale giovanile diocesana, visto il lavoro e lo stile che stavamo mettendo in piedi, mi propose la figura di un educatore professionale, con una significativa esperienza con bambini e ragazzi stranieri. Ciri venne così in aiuto al progetto che stavamo elaborando. Di Ciri mi ha sempre colpito la sua fede fresca e giovane e la capacità di coinvolgere i bambini con uno stile di ascolto. Dopo i primi mesi, anche se era stato destinato solo sull’oratorio di Regina Pacis, vista la sua capacità di ascolto e la sua intelligenza educativa, gli proposi d’iniziare ad articolare un progetto educativo su tutte le realtà dell’Unità Pastorale. Ciri è stato il primo nella Diocesi di Reggio Emilia a strutturare un percorso educativo che mettesse in sinergia le specificità di cinque parrocchie in un percorso comune. Per fare questo, strumenti significativi sono stati i weekend dell’educazione e il Sinodo degli oratori, che Ciri aveva preparato anche con una serie di articoli pubblicati sia sul giornale dell’UP Insieme, che sul blog degli oratori. I percorsi formativi attivati per gli adulti sul tema dell’oratorio assieme ad uno stile nuovo di fare catechesi attenti più alle relazioni che ai programmi da rispettare, che vedevano frate Antonello protagonista significativo del progetto, condussero naturalmente a pensare l’oratorio come spazio sul territorio aperto a tutti.

Significativa, in questa prospettiva, è stata la collaborazione fra Ciri e Clara. Mentre, infatti, il primo stava lavorando per mettere le basi di un progetto a lunga durata, con la formazione anche di educatori del territorio – è stato Ciri a lanciare l’dea della proposta formativa di un anno di esperienza spirituale ed educativa per i giovani universitari che poi avrebbero interagito sugli oratori dell’UP – Clara, nel frattempo, aveva messo in piedi un’associazione – P.A.C.E. – che metteva nero su bianco le linee educative di un progetto formativo diretto ai ragazzi con problematiche sociali significative. Clara, mentre produceva un’azione educativa ne pensava altre sette contemporaneamente: un vero e proprio vulcano di idee. Insieme lavoravamo su tutto il territorio con una proposta educativa che giorno dopo giorno si stava articolando e strutturando al punto che interagivamo con le agenzie educative e sociali presenti sul territorio.

A Clara e Ciri devo moltissimo. Innanzitutto, la stima reciproca, la capacità di mettere le proprie specifiche competenze a servizio di un progetto comune. Come prete appena arrivato dalla missione e sotto il magistero di papa Francesco, tutto quello che stavamo facendo sul territorio sembrava essere la trascrizione educativa dell’idea di Chiesa aperta sul mondo, come una tenda da campo che si pone a disposizione dei piccoli, soprattutto i più in difficoltà.

Carissimi Clara e Ciri, grazie per la vostra amicizia, l’esempio della vostra fede nella proposta di Gesù, della vostra dedizione, del vostro spendervi a tutte le ore. Grazie dell’esempio della vostra resistenza alle critiche, che vengono sempre quando le cose del Signore si realizzano. Vi penso spesso e vi pongo nelle mie preghiere. Un abbraccio.

giovedì 7 gennaio 2021

PENSIERI DALL'ESILIO

 



Paolo Cugini

 

Pensare positivo. Guardare avanti con i piedi fissi nel presente.

Quando parliamo di Dio di che cosa stiamo parlando? Come si fa a dare un contenuto a questa parola? Il contenuto di quella parola per un cristiano si chiama Gesù di Nazareth, che ha dato un nome, una forma, un contenuto a ciò che prima di lui si diceva di Dio.

Il modo in cui si reagisce all’ingiustizia, al torto subito, nella pena dell’innocente, rivela lo spessore della coscienza che si ha di sé stessi.

Non importa dove siamo, ma l’amore che ci mettiamo nel luogo in cui viviamo.

Dove cerchiamo la consolazione nella vita quotidiana? È la domanda che rivela il sentimento religioso, la radice profonda del rapporto con Dio. Dimmi come ti consoli e ti dirò chi è il tuo Dio.

È il contatto con la realtà che aiuta a comprendere il senso della vita.