sabato 30 settembre 2017

SINODO DEGLI ORATORI-RELAZIONE INTRODUTTIVA




UNITA’ PASTORALE SANTA MARIA DEGLI ANGELI
SINODO DEGLI ORATORI
SABATO 30 SETTEMBRE-DOMENICA 1 OTTOBRE 2017

Introduce i lavori: Monica Salsi (educatrice e pedagogista)

Sintesi: Paolo Cugini

“Oratorio è espressione educativa della comunità ecclesiale con la quale condivide il desiderio e l’urgenza della missione evangelizzatrice, che consiste nel realizzare l’annuncio e la trasmissione del Vangelo e insieme annunciare il Signore Gesù con parole e azioni, cioè farsi strumento della presenza e azione del mondo” (CEI).
Non ci sono definizioni di oratorio univoche anche perché ci sono esperienze diverse in giro per l’Italia con nomi diversi.
L’oratorio è un laboratorio, una sperimentazione: s’impara facendo. Al centro c’è l’uomo, lo sviluppo integrale della persona.
L’oratorio si dedica all’educazione. L’oratorio è una faccenda della comunità, quindi di tutti e non degli addetti ai lavori. C’è il bisogno di parlare di evangelizzazione. L’oratorio è testimonianza.
Prima qualità: la tensione educativa. Il centro e la finalità degli oratori è l’educazione delle nuove generazioni. Cammino è una metafora che dice di una fatica di vedere i frutti crescere nel tempo. Parlo di cammino quando vedo il trascorrere del tempo. Il cammino si fa nel tempo. Il cammino dice anche di una meta. Se non ho chiaro una meta vado per tentativi e posso perdermi. Questo cammino lo si fa insieme. Occorre sospendere il giudizio e guardare i giovani per quello che sono oggi. Occorre cercare il vero nei giovani e guardarli come sono.
Seconda qualità: stile missionario. Occorre cercare i giovani. Uscire, frequentare i luoghi e i tempi dove vivono i giovani. Per questo l’oratorio ha uno stile missionario. L’oratorio si fa là dove sono i giovani. Questo ci costringe a muoverci. Andare a cercare.
Terza qualità: formazione integrale della persona. Si parla di mente, emozione, corpo, spirito, relazionale e sociale.
Ciascuno cresce solo se sognato (Danilo Dolci). Educare è accompagnare lasciando aperte le strade del desiderio.
Oggi vediamo dei giovani con delle passioni tristi. Occorre educare il desiderio. Occorre suscitare un desiderio di senso. Non insegno a vivere dicendo che cosa i giovani devono fare.
Le nostre proposte educative devono avere vitalità, creatività.
Mi fai volare! Significa dammi qualcosa che mi faccia sentire pieno. Aiutare i ragazzi a volare, non a sballare.
Negli oratori ho incontrato i giovani che frequentano gli oratori. Mi hanno consegnato alcune frasi:
·         L’oratorio fa crescere e diventare partecipe.
·          Oratorio è responsabilità verso gli altri.
·         L’oratorio è la città.
·         L’oratorio è un luogo che protegge ed è protetto
·         L’oratorio è accogliente verso tutti e non fa differenze
·         Noi in oratorio stiamo bene
·         In oratorio anch’io posso ricambiare
·         Oratorio è un luogo giovane per i giovani
·         I bambini ci vedono come esempi
·         Vengo in oratorio perché ci sono i miei amici
·         L’oratorio è una casa, una famiglia
Desiderio di diventare le figure che vedo e incontro. Oratorio è a volte l’unica alternativa allo stare a casa. Per i ragazzi l’oratorio non è mai un luogo fisico, ma è relazione.
L’esperienza non è sempre formativa ed educativa. Occorrono alcune chiavi. Occorre saper interiorizzare le esperienze. Accorgersi dell’altro: avvien quando porto l’altro vicino al cuore. Accorgersi non è sentire, ma ascoltare.
Generare. Quando ricevo qualcosa di bello non riesco a tenerlo per me, lo devo mettere in gioco. Aiutare i ragazzi a sentirsi generatori, a poter fare qualcosa anche loro.



lunedì 25 settembre 2017

SIAMO TUTTI MISSIONARI




Editoriale Insieme ottobre 2017
Paolo Cugini
Il mese missionario ci offre la possibilità di riflettere sulla comune indole missionaria dei battezzati. Missionarietà che siamo soliti pensarla come qualcosa di specifico, di una vocazione specifica di qualcuno che esce dal proprio paese per annunciare il Vangelo altrove. Missione significa desiderio di annunciare il Vangelo alle persone che vivono accanto a noi. Per fare questo è necessario, in primo luogo, trovarsi insieme a pregare, a chiedere allo Spirito Santo un’ispirazione, un’idea che orienti il nostro desiderio. E poi bisognerebbe cominciare, passare dall’idea all’azione, per ascoltare la realtà e da lì elaborare un progetto missionario da attuare nel nostro territorio.

Lo slancio missionario fa bene alla comunità, perché la libera dalle paure e, soprattutto, dalla tentazione di chiudersi in se stessa. Quando la comunità si preoccupa d’annunciare il Vangelo sul territorio, ha meno tempo da perdere per curare l’arredo interno, divenendo quindi più essenziale. Come ci farebbe bene questo slancio di uscita all’esterno, per lasciare le comode poltrone e così stare un po' sulla strada! Forse ci aiuterebbe anche nel cammino che stiamo realizzando nell’unità pastorale, a scoprire il dono della diversità dell’altro, ad imparare a vedere il bicchiere mezzo pieno, ad abbandonare il cronico atteggiamento di giudizio negativo verso tutto ciò che non collima con i nostri gusti e desideri.

È bello leggere nei vangeli lo sforzo che faceva Gesù per agganciare gli interlocutori e inserirli in un cammino di salvezza. Gli itinerari di evangelizzazione difficilmente escono fuori a tavolino, frutto esclusivo delle nostre proiezioni. L’uscire per andare verso coloro che non frequentano i nostri spazi, stimola la creatività pastorale e ci libera dall’ossessione di ripetere sempre le stesse proposte, allo stesso modo. La creatività pastorale sgorga dal contatto con la realtà, perché, come c’insegna papa Francesco, la realtà deve sempre precedere l’idea.


Senza dubbio lo sforzo missionario delle nostre comunità porterebbe materiale nuovo sul tavolo dei nostri consigli pastorali. Ci aiuterebbe a scoprire la situazione sociale di tante famiglie di immigrati e anche di italiani che vivono in pessime condizioni sul nostro territorio. Ci aiuterebbe a comprendere meglio la situazione giovanile dei nostri quartieri, per elaborare una pastorale giovanile meno di élite e più in sintonia con la realtà circostante. Uscire dai nostri spazi potrebbe produrre un pensiero nuovo nei nostri consigli pastorali, un’attenzione nuova, più sensibile e misericordiosa, nei confronti di tutti coloro che sotto la nostra “tenda da campo” – così come simpaticamente chiama la chiesa papa Francesco – ci stanno ancora molto stretti. Aquele abraço carinhoso. 

martedì 19 settembre 2017

L'AVVENIRE DEL CONCILIO





Christoph Theobald, L’avvenire del Concilio. Nuovi approcci al Vaticano II, EDB Bologna 2016

A cura di Paolo Cugini

Sin dalle pagine introduttive Theobald chiarisce che il testo è in continuità e sintonia con il suo precedente lavoro del 2009: La recezione del Vaticano II. A suo avviso la questione ermeneutica dell’interpretazione dell’evento conciliare è sempre all’ordine del giorno nel cammino della Chiesa. L’ispirazione per questo nuovo libro a detta dello stesso autore, viene dalle intuizioni di Papa Francesco elaborate nell’Evangeli Gaudium. Il testo è suddiviso in due parti. La prima è riservata al problema ermeneutico, mentre la seconda è un ritorno ai testi principali del Concilio per proporre una lettura intertestuale per tentare di cogliere una visione più globale del messaggio conciliare.
Sfogliando l’indice della prima parte dell’opera, che è senza dubbio più corposa della seconda, si nota chiaramente l’intento del taglio ermeneutico che Theobald ha voluta dare. Si passa così dall’analisi dello stile pastorale del Concilio Vaticano II, alla riflessione sulla sua recezione e sui possibili sviluppi futuro. C’è innanzi tutto una premessa ermeneutica he non può essere sottesa, vale a dire che non si può separare mai l’opera del Concilio dalla sua recezione. Sempre in queste prime battute, Theobald chiarisce che il tanto decantato principio di Pastoralità come chiave ermeneutica dei testi del Concilio Vaticano II, non emerge direttamente dalla struttura del corpus, ma è di ordine stilistico “e indica una maniera di procedere, una conversione o una riforma individuale e collettiva come viene sottolineato con forza dal discorso finale di Paolo VI”. È il modo di gestire la conflittualità e la violenza interna alla Chiesa che offre al Vaticano II la sua credibilità evangelica. Sono diversi i passaggi in cui questa scelta di stile evangelico è evidente. Theobald evidenzia quel passaggio della Dignitatis Humanae in cui nella ricerca della verità il testo manifesta il rispetto delle verità degli altri. In questo frangente come in altri, il Concio Vaticano II opta per lo stile del dialogo più che la condanna. Ecco perché secondo Theobald parlare in termini di stile pastorale è un modo di riconoscere il cambiamento di un paradigma nel modo di affrontare i problemi nella Chiesa. Per confermare questa opinione Theobald riporta la tesi di John W. O’Malley secondo il quale la novità del Concilio consisterebbe nell’evento di linguaggio che esso rappresenta. “A poco a poco – sostiene O’Malley – Il Vaticano II ha configurato un nuovo gioco linguistico, cioè una nuova retorica unica in se stessa, che culmina in Gaudium et spes”. Secondo O’Malley lo stile risulta da due elementi: un genere letterario e una terminologia ad esso adeguata. O’Malley identifica il genere letterario nell’eloquenza epidittica che sostituisce quella giudiziaria. Per quanto riguarda la terminologia individua cinque tratti: l’accentuazione delle relazioni orizzontali; l’insistenza sul servizio a discapito del controllo; l’orientamento verso il futuro; la sostituzione di una terminologia inclusiva a quella di esclusione; la preponderanza della partecipazione attiva di tutti rispetto ad un’adesione passiva. Theobald sostiene che per individuare i tratti distintivi dello stile pastorale del Vaticano II sia necessario collegare il corpus all’evento conciliare stesso, che tra l’altro è l’indicazione dell’Officina Bolognese guidata da Giuseppe Alberigo. Se si prende sul serio il principio di Pastoralità indicato da Giovanni XXIII al Concilio, è necessario collocare l’unità nel modo di procedere, più che cercare nei generi letterari. Questo modo id procedere “consiste nel comprendere il corpus testuale del Vaticano II da subito come espressione di un’esperienza extratestuale, esperienza di ascolto della parola di Dio e di incontro effettivo con l’infinita varietà di coloro ai quali l’assemblea vuole rivolgersi”. Secondo Theobald lo stile pastorale del Vaticano II non può essere ridotto né alla configurazione sincronica di un evento di linguaggio ((O’Malley) né all’esperienza storica degli attori conciliari (scuola di Bologna), “ma si colloca bene in un modo evangelico di procedere e di mettersi d’accordo, inscritto nel corpus testuale aperto che, proprio a causa di questa <apertura>, resta a sua volta intimamente legato ad una maniera di collocarsi hic et nunc tra la Parola di Dio e i suoi possibili recettori”. Il principio pastorale ed ecumenico si carica di due importanti implicazioni: il suo legame con l’idea di riforma e il suo rapporto con il radicamento storico e contestuale dei destinatari del Vangelo vengono progressivamente esplicitati e rifluiscono sulla forma che il magistero prende man mano durante il suo percorso conciliare. L’autore è consapevole che l’adozione di un modo evangelico di procedere, non può essere imposto ma dipende dalla conversione non programmabile dei partecipanti. Forse è stato questo il problema dell’assunzione di questo stile dialogico e attento alle diversità all’interno del Concilio composto da tante persone provenienti da ogni angolo del mondo. Per mostrare il valore della recezione dello stile pastorale del Concilio Vaticano II, l’autore propone alcuni esempi. Il primo è l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1974. Come sostenne lo stesso autore dell’Esortazione, l’obiettivo principale del Concilio consisteva nel rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il Vangelo all’umanità del XX secolo. L’altro esempio riportato dall’autore è l’enciclica di Giovanni Paolo II Ut Unum sint del 1995 che ripropone una rilettura di quanto è scaturito nel dibattito teologico sul tema dell’ecumenismo, in sintonia con il documento conciliare Unitatis redintegratio. Secondo Theobald lo stile del testo è evangelico e narrativo. Il tono dialogico Ve aperto lo si percepisce anche dalla domanda che il papa rivolge per aiutarlo a svolgere al meglio il servizio del primato. Ultimo esempio proposto di recezione dello stile di Pastoralità proposto dal Concilio Vaticano II è l’incontro interreligioso id Assisi del 1986. La novità principale di questo evento è secondo l’autore, la visualizzazione, la gestualità del rispetto della differenza religiosa nel cuore dell’umanità. C’è un grande messaggio di apertura che proviene da questo evento epocale: “Un nuovo modo di articolare l’alterità dell’altro e ciò che lega gli uni agli altri: esiste un modo di comprendere il fondamento comune della comunità umana che non è superamento o soppressione della differenza religiosa ma, al contrario, rispetto di quest’ultima in Dio”.

Nel terzo capitolo della prima parte Theobald affronta il problema della recezione del Concilio Vaticano II ponendo sullo sfondo la funzione normativa della storia nella teologia cattolica. Dinanzi ai criteri classici d’interpretazione – Theobald cita i luoghi teologici di Melchior Cano in cui la storia era al decimo e ultimo posto – il Concilio Vaticano II proprio per il suo carattere pastorale sembra avere un valore canonico minore rispetto ai precedenti. Oppure si tratta di un nuovo genere che ha provocato la mutazione stessa del “dogmatico” e del “dottrinale” collocandoli all’interno stesso della relazione pastorale che è segnata dalla storia. Per Theobald la risposta la si trova solamente dando spazio alla storia del Vaticano II. Sin dal 1962 viene posta in evidenza l’articolazione tra stile pastorale e stile ecumenico. Lo pone in risalto per la prima volta Karl Rahner e la maggior parte degli oratori della maggioranza s’ispirerà a questa argomentazione. Theobald fa notare che a partire dal terzo e quarto periodo del Concilio verranno precisate due ulteriori implicazioni del principio di pastoralità. Il primo riguarda l’introduzione del vocabolario della “riforma” che prevede la presa in considerazione della ricettività ecumenica. La seconda determinazione riguarda la posizione storica e culturale dei recettori e, di conseguenza, la storicità della rivelazione stessa. un certo senso il principio di pastoralità resta controverso e senza effetto di ritorno sull’interpretazione globale del corpus. Tutto ciò perché, al di là delle prime apparenze che vedevano emergere nell’elaborazione dei testi una centralità del tema ecclesiologico, in realtà tale centralità svanisce nel proseguo del Concilio. C’è a detta di Theobald un’apertura storica che proviene dal processo di apprendimento interno al Concilio che fa si che: “la formulazione relativamente compiuta del principio di pastoralità del 1965 resti senza effetto di ritorno sul trattamento di un certo numero di questioni particolari, sulla comprensione del legame indissolubile tra il <dottrinale> e il <pastorale> e, a maggior ragione, sulla comprensione dello statuto normativo del corpus conciliare nella sua globalità”. E’ per questo motivo che Theobald si chiede se la redazione di un catechismo come compendio di tutta la dottrina cattolica, che fu proposto nel 1985 e realizzato nel 1992 sia il sintomo di uno smarrimento che oggi è ancora più profondo.

Sul problema del valore teologico dei testi Theobald appoggia la tesi di O. Semmelroth che sostiene che se il Concilio non ha usato il mezzo della definizione dogmatica è sempre in vista della forma pastorale che plasma anche l’impegno dottrinale. In questo modo il Concilio è riuscito  ad integrare la coscienza storica del nostro tempo. La recezione del principio di pastoralità da parte del Concilio ha senza dubbio richiesto un lungo processo di apprendimento e assimilazione anche nei decenni successivi allo stesso Concilio. Questo principio di pastoralità che dice della storicità della verità annunciata da Gesù è comprensibile solamente se si tiene conto che la relazione originaria di Gesù e i suoi è fondatrice della storicità stessa del processo di tradizione, E’, allora, la creatività dei discepoli, come recettori attivi del messaggio di Gesù. Che diviene visibile nel cammino del Concilio di recepire e trasmettere, sotto l’ausilio dello Spirito Santo il Vangelo alle nuove generazioni. E’ per questo motivo che Theobald afferma che: “Il Concilio Vaticano II ha inaugurato la mutazione stessa del dogmatico, legata nella sua forma classica alla cristianità, e ha collocato la “normatività”, inscritta nell’identità cristiana, su un altro piano, ossia all’interno della relazione pastorale di tradizione, anch’essa sempre segnata dal suo contesto culturale e storico”. Prendendo spunto dalla famosa espressione di Benedetto XVI che a proposito del Concilio Vaticano II parlò di ermeneutica della riforma, Theoblad indica quattro tappe della suddetta riforma. In primo luogo il Vaticano II è senza dubbio il primo concilio generale che mette in gioco la totalità della tradizione cristiana nelle sue diverse tappe, anche se questa presa di coscienza appartiene al periodo post-conciliare. In secondo luogo, Theobald sottolinea il fatto che l’acquisizione di Dei Verbum consiste nell’aver iniziato l’integrazione tra la fase patristica, medievale e moderna nella tradizione della Chiesa. In questa prospettiva, la tradizione nel senso processuale del termine, diventa il concetto integrativo. In terza battuta Theobald sostiene la tesi di Rahner che nel 1966 affermava che il Vaticano II rappresenta il primo Concilio di una Chiesa in via di globalizzazione. Infine, quando si percepisce il compito di reinterpretazione del Vangelo per il nostro tempo, ci si può interrogare di nuovo sullo statuto normativo dei testi del Vaticano II e sul loro genere. Su può così affermare che: “Il concilio ci propone una visione del mistero della Chiesa nel cuore della storia dell’umanità illuminata dalla luce del Dio trinitario”.

Secondo Theobald la sfida principale oggi consiste nell’entrare più profondamente nelle modalità di procedere che il concilio ha saputo inventare. La posta in gioco di una lettura genetica o processuale del Vaticano II è di poter mettere il futuro del Vangelo e della Chiesa in seno alla società nelle mani di tutto il popolo di Dio. Nel capitolo settimo Theobald riflette sul concetto di stile che secondo lui è implicato nel principio pastorale proposto al Concilio da Giovanni XXIII. Ci sono tre aspetti indispensabili che il concetto di stile evoca. In primo luogo, la singolarità di un’opera o la creatività unica del suo autore. Quest’opera creativa non può dispiegare – ed è il secondo aspetto – il suo effetto specifico che in un determinato processo d’incontro dove: “lo spettatore, l’uditore o il lettore si impegnano personalmente nel processo creativo della messa in forma artistica”. Questo effetto dell’opera sul suo recettore si dispiega, in terzo luogo, nel mondo. Lo stile, allora, dice di un modo di abitare il mondo. Il Vaticano II ha aiutato a comprendere che il cristianesimo non può essere integralmente colto attraverso enunciati dogmatici, ma dev’essere compreso come un processo d’incontri e di mutue relazioni. È questo che s’intravede nello stile di Gesù, che non ha semplicemente offerto delle informazioni, ma ha trasmesso dei contenuti attraverso le relazioni che stabiliva.
 Secondo Theobald la prospettiva di fondazione di Lumen Gentium e il punto di partenza della visione ecclesio-genetica di Ad Gentes possono convergere proprio a partire da questa indicazione dello stile evangelico che rimanda sempre ad una reciprocità tra relazione ed annuncio. “La presenza ecclesiale del cristianesimo si mostra come un processo specifico d’incontri e di mutue relazioni nel mondo, che diventa sacramentale quando le persone implicate in questo processo nella loro unicità, soprattutto gli ultimi di un gruppo o di una società, diventano segni messianici”. La Lumen Gentium approfondisce il discorso sullo stile nel capitolo riguardante la vocazione universale alla santità nella Chiesa (c. V). Considerando l’andamento della Chiesa in Europa Theobald sostiene che il suo avvenire non può essere affrontato che attraverso un rapporto creativo con l’origine del cristianesimo. Per questo l’autore sottolinea come tappe significative della ripresa da parte della Chiesa di elementi significativi dello stile delle origini l’ospitalità, la relazione con la Sacra Scrittura, la percezione delle dimensioni corporali della fede, la presa in considerazione della dimensione universale della Chiesa e, infine, la vita contemplativa.

Nell’ultimo capitolo Theobald affronta il tema della recezione della Gaudium et Spes. L’autore si sofferma ad analizzare in modo dettagliato soprattutto la recezione franco-tedesca del principio dei segni dei tempi. Theobald sottolinea la tipologia della recezione germano- tedesca così com’è stata presentata da Hans-Joachim Sander, il quale sosteneva che: “la novità affascinante e inquietante della costituzione consiste nel suo modo di articolare ciò che non può essere relativizzato, cioè la verità, e ciò che è relativo, cioè i luoghi dove ne è questione” (193). I segni dei tempi sono, dunque, secondo Sander, indicazioni di luoghi nel mezzo di questo tempo. Essi liberano qualcosa che è messo sotto silenzio, ma che è rappresentativo della lotta per l’umanità dell’uomo e per condizioni di vita degne di lui. Il Cardinal Lehman, a proposito di questo dibattito, sosteneva che la versione finale della Gaudium et Spes dev’essere oggi riletta, prestando attenzione a molte parti del testo che secondo lui comportano diversi livelli, a volte ricche di tensioni e di contraddizioni. In ogni modo, secondo Theobald, occorre ammettere le difficoltà che dipendono dal carattere incompiuto del testo della Gaudium et Spes e dal carattere settoriale del suo approccio da parte di discipline teologiche diverse. L’autore mette in evidenza anche il nuovo contesto culturale che provoca il discernimento di nuovi segni dei tempi che vanno interpretati. A questo riguardo Theobald indica un triplice criterio di discernimento. In primo luogo la fede, che dev’essere compresa alla maniera alla maniera dei racconti di guarigione, vale a dire come una fede che sorge a contatto con il Signore, ma che è già all’opera nel suo interlocutore. La Gaudium et Spes conosce l’equivalente di questa fede antropologica che definisce con l’aiuto di nozioni come dignità umana e vocazione dell’uomo. Altro elemento importante di questa fede così com’è presentata nei vangeli è la sua presenza in coloro che non fanno parte del popolo d’Israele. È il meravigliarsi della fede dell’altro che costituisce il secondo criterio di discernimento nell’epoca attuale. L’ultimo criterio che Theobald sottolinea è la fecondità che gli eventi messianici che sono prodotti dalla fede, che apre la storia di qualcuno e che influenzano le moltitudini. “Questo criterio – sottolinea l’autore – si trova nei sinottici, ad esempio nella parabola del seminatore, ma è già all’opera nella missione apostolica di Paolo. Esso rende difficile il processo di discernimento perché il tipo di fecondità messianica al quale tende non cessa di mescolarsi agli eventi prodotti dall’opinione pubblica ed ecclesiale, formando con essi una sorta di corpus permixtum” (209).

Nella conclusione Theobald ribadisce che ritiene il Concilio Vaticano II il primo di una Chiesa divenuta mondiale e interculturale più l’ultimo di una cristianità euro-atlantica. Dinnanzi alla possibile critica di una lettura parziale in chiave eurocentrica dei testi del Concilio Vaticano II, soprattutto per quanto riguarda la Gaudium et Spes, L’autore si difende sostenendo che “il cattolicesimo europeo ed euro-atlantico rimane insostituibile nella polifonia delle Chiese particolari”. Al di là di queste affermazioni cha aprono il fianco a tante critiche, riusciamo ad accompagnare Theobald quando sostiene che è possibile abbandonare una lettura prevalentemente eurocentrica nell’attuale contesto storico, riflettendo sulla presa di coscienza che la sua visione messianica e genetica della Chiesa è sostenuta e attraversata da un’ermeneutica pastorale. In questa prospettiva si percepisce nelle pagine dei testi conciliari, il rispetto assoluto dell’alterità dell’altro e quindi di una pluralità di punti di vista. Questa sensibilità è per l’autore visibile nella centralità che viene data ai poveri, conforme alla prospettiva data dal gruppo conciliare “la Chiesa dei poveri”. 
La maggior sorpresa di Theobald nei confronti del dibattito post conciliare, consiste nella percezione del poco spazio dato alla liturgia. Nonostante ciò vanno riprese e approfondite le raccomandazioni della Sacrosantum Concilium sulla partecipazione attiva dei fedeli, che hanno avuto l’intento di consegnare ai fedeli i tratti di una fede adulta.




domenica 17 settembre 2017

MASCHIO E FEMMINA DIO LI CREO’ - ENZO BIANCHI AL FESTIVAL DELLA FILOSOFIA 2017






FESTIVAL DELLA FILOSOFIA
17° EDIZIONE
MODENA 17 SETTEMBRE 2017




Sintesi: Paolo Cugini

Cammino di convergenza politica e culturale. Antidoto verso la patrologia delle paure è l’iniziativa culturale.
Riflettiamo sulla creazione all’interno della tradizione ebraico cristiane. Due capitoli all’inizio della Bibbia cercano di dire che cos’è l’uomo. Sono composizioni teologiche che cercano di alzare il velo su Dio. Sono capitoli che vogliono fare emergere un progetto di umanità. Abbiamo davanti a noi degli scritti umani composti da autore e redattore umani, segnati da una precisa cultura, in un tempo definito della nostra storia. Il genere letterario di questi testi è il mito. Il mito è dotato di una visione specifica, e che vuole dire ciò che è universale e rispondere alla domanda: che cos’è dell’umano?
Attenzione al vocabolario. Adamo non è il nome di un uomo. Adam è il terrestre o il terroso, colui che è tratto dalla terra: adamà.

Primo racconto (VI a.C.): Gen 1,1-2,4a. E Dio disse facciamo Adam a nostra immagine, A NOSTRA SOMIGLIANZA... E Dio creò adam.
Questa pagina ci parla di Dio, dell’umanità e ci parla degli animali, di Dio e dell’umanità nei suoi rapporto. Rispetto agli animali, rispetto a Dio chi è il terrestre? Adamo non era maschio. E’ un’umanità che si manifesta come maschio e come femmina,.
Nella Bibbia non c’è nessuna creazione dal nulla. Dio crea il terrestre a sua immagine. Ma non lo crea a sua somiglianza. La somiglianza spetta all’umano, al terrestre.
Non c’è scritto che il terrestre è fatto a somiglianza di Dio. Lo fa a sua immagine ma a SUA somiglianza no. Dio creando l’umano a sua immagine vuole che sia il suo rappresentante nel mondo. Dio lo creò il terrestre. Adam designa l’umanità intera che porta in sé la differenza del maschio e della femmina, come tutti gli animali. Non c’è ancora l’uomo e la donna nel primo racconto. Davanti a Dio c’è tutta l’umanità.

Crescete e moltiplicativi. Quella realtà terrestre è un’umanità plurale. L’essere umano è in sé relazione. L’umano esiste in quanto maschio e femmine. Non sono pluralità esclusive. Gli umani sono immagine di Dio e si realizzano accettando la differenza reciproca. C’è una valorizzazione della completezza che da solo l’uomo e la donna non possiede.
Non c’è una visone cinica della differenza sessuale come più tardi comparirà nel cristianesimo. Dio vuole che l’uomo e la donna portino a compimento l’umanizzazione e deve avvenire nel vivere e nella vita. Vivere significa venire al mondo. Gli umani sono animali: questo lo dimentichiamo. La differenza sta nella responsabilità. L’umano deve farsi responsabile della terra.
Fruttificate, moltiplicatevi, riempite la terra.

Sottomettetela e dominate. Non significano un’AZIONE violenta, ma di dare ordine alla terra, di custodire. E’ servizio alla vita, alla terra.

Responsabilità: la devono prendere insieme maschio e femmina. Quando si dice dominare sugli animali, dominate sull’animale che è in voi. Siamo animali chiamati a diventare uomini sottomettendo l’animale che è in noi. Abbiamo un’animalità che va dominata. In ciascuno di noi c’è qualcosa di selvatico che dev’essere dominata. L’animalità è la sessualità selvaggia che dev’essere dominata.
L’animalità può anche essere collettiva: il branco, la follia omicida di un popolo in certi momenti della storia.
Agli umani Dio da come cibo verdure e frutti della terra. Gli animali non possono essere mangiati dall’uomo. L’uomo ha la vocazione di essere vegetariano. Alla fine di questo racconto: E Dio vide che era cosa molto buona.

Secondo racconto (16 a. C.). E’ un racconto molto più antico. I miti s’incrociano. Vuole collocare l’umanità nel mondo. Vuole dirci che l’umanità è relazione. Abbiamo all’interno di questo brano come il maschio e la femmina sono chiamati a diventare uomo e donna. Donna non si nasce ma si diventa.

Si dice che Dio fa come un vasaio. L’uomo è tratto dall’umus e appare la madre dell’umanità, dei vegetali che nascono dalla terra, ma anche degli animali. L’uomo ha una natura: viene dalla terra e torna alla terra. Comunione con i minerali, con i vegetali, con gli animali. Il mondo è una grande comunità. Qual è la differenza tra gli animali e gli uomini? L’uomo è creato, ma mortale, come gli animali. Questo soffio che Dio dà all’uomo non è il soffio degli animali. Che cosa sta in questo soffio? Col soffio della bocca dio ha creato il mondo. Solo l’uomo ha la parola, gli animali hanno la voce. Questo è il soffio che Dio ha messo dentro l’uomo. Bonhoeffer: quel corpo tratto dal fango, ma in cui Dio ha messo il suo soffio è la porta dell’esistenza dello spirito di Dio nel mondo. Il nostro corpo è la porta del respiro di Dio nel mondo. Ecco l’umano che Dio colloca in un giardino perché lo custodisca. Dio assegna all’uomo un compito. Deve vivere nel giardino del mondo, deve custodirlo. A questo umano Dio consegna il giardino e lo invita a mangiare di ogni albero, ma di un albero no.
Il limite: non posso dare vita a me stesso. Se l’uomo diventa una pluralità, devo avere dei limiti nel mangiare, perché chi sta accanto a me, ha diritti come me. L’altro diventa il limite. Sartre: gli altri sono l’inferno. L’altro mi ricorda il limite. Per vivere l’umano deve accettare una mancanza, deve rinunciare al tutto e subito.

Quest’uomo non è una creazione finita. Non è buono quest’uomo che sia solo. L’uomo che viene creato è un uomo che non conosce la differenza. Deve accedere alla differenza. Uomo e donna devono farsi nella vita perché l’umanizzazione è un compito nostro.

Voglio fargli un aiuto di fronte a lui. E’ un terrestre e non conosce ancora la differenza. Dio addormenta quell’uomo che lo porta a perdere la conoscenza. Dio tagliò in due l’uomo. Non c’è nessuna costola: è una traduzione occidentale. Dio taglia in metà l’essere terrestre: un fianco è il maschile e uno femminile: uno di fronte all’altro. L’uomo finalmente parla. La parola è dare del tu, è rivolgersi all’altro. Dopo la separazione uomo e donna, allora grida. Sono nati così, da questa separazione. Questo grido che fa accedere il maschio alla parola e la femmina la parola, in questo faccia a faccia, dovrebbe essere un grido. L’uomo che cosa dice? Fa un grido verso se stesso: qualcuno che è carne della mia carne: pari natura umana.

Ci sono dei verbi possessivi. La narrazione ci dice che l’uomo ha la pretesa che la donna sia una sua proprietà. Non accetta la piena alterità della donna. E qui inizia la tragedia. Da quel giorno l’umanità è distinta in uomini e donne. Paradosso: l’uomo e donna hanno bisogno uno dell’altro. Da soli non ci sarebbe completezza. Il desiderio di non accettare l’alterità e quindi il tentativo di sottomettere l’altro. Questa è la ferita che ci portiamo. La paura ci vince fino a suggerirci la violenza. Perché l’uomo ha bisogno di anni per umanizzare la sessualità per avere amore in una reciprocità?

Dramma dell’incontro uomo e donna. La differenza uomo e donna non è facile. Perché il femminicidio? Perché nell’uomo c’è la pretesa che la donna è sua. La Bibbia vorrebbe che ci fosse sintonia, collaborazione tra uomo e donna. Non siamo uguali: è il primo apprendistato verso la differenza.
Rispetto della differenza nella società. Differenza di nuove culture, popolazioni e abbiamo paura. Questa paura è nelle radici dell’umanità, a partire dalla differenza uomo-donna.
Uomo e donna sono il risultato di un cammino di essere maschi e femmine. Affinché un maschio diventi un uomo e una femmina diventi una donna è un cammino lungo, ma che può essere realizzato solo se lo si fa insieme.





venerdì 15 settembre 2017

INTRODUZIONE ALLA FIGURA DEL CARDINAL CARLO MARIA MARTINI



SAGRA DI REGINA PACIS
Venerdì 15 settembre 2017


Don Fernando Borciani

Sintesi: don Paolo Cugini

E’ stato un personaggio completo. È stato uomo di Chiesa e uomo di confine, con lo sguardo oltre la Chiesa. Innestato in Cristo che generava aperture al mondo e sguardo in avanti.

La dimensione contemplativa della vita
Ogni anno scriveva una lettera pastorale alla diocesi. Appena arrivato a Milano, a settembre scrisse la sua prima lettera pastorale: la dimensione contemplativa della vita. Fu molto chiara questa sua prima mossa: non c’è vita cristiana se non c’è vita spirituale. Martini viveva una grande intimità con Gesù. In ogni incontro Gesù non si ripete mai. Nel 2008 quando rientrò da Gerusalemme scrisse: “Ciò che mi costa di più è che in alcuni momenti la mia debolezza fisica m’impedisce di mantenere vivo il mio contatto con Gesù”. Martini scrive nel 1995-96 la lettera pastorale: Ripartire da Dio.

Il Cardinal Martini: l’uomo della Parola di Dio
Quando parliamo della Sacra Scrittura si arriva al cuore della spiritualità di Martini. È difficile che un papa citi singole persone ancora vive nella Chiesa. Papa Benedetto XVI citò Martini come vero maestro della Lectio divina. Giovanni Paolo II disse: “Mi piace menzionare il cardinale Martini le cui catechesi attiravano molte persone alle quali svelava il tesoro la Parola di Dio”. Papa Francesco disse: “Martini aveva una grande familiarità con la Parola di Dio… È stato per molti di noi un maestro per far apprezzare la Bibbia”. La Parola di Dio è stata la passione del Cardinale Martini. Non fu solo studioso, ma un innamorato della Parola di Dio. Martini era convinto che tanti errori della Chiesa fossero dovuti ad un deficit delle sacre scritture. “Ciò che sto facendo… Sono conforme al Vangelo?”. Il segreto di martini era la lectio divina quotidiana. Inventa la scuola della Parola nel suo primo anno di episcopato. Li faceva il primo giovedì del mese. Colpiva il vocabolario semplice di Martini. La Parola di Dio plasmò soprattutto lui, una figura diversa, senza tattiche, né strategie: un pastore autentico. Dio ci chiede di essere veri, non perfetti.

La cattedra dei non credenti
Attenzione a chi non è credente. “L’espressione dei non credenti va intesa come dare voce, dare voce ai cammini suscitati nel credente. La presenza di non credenti che con personale sincerità si dichiarano tale, e la presenza di redenti che hanno la volontà di entrare in se stessi è utile agli uni e agli altri”. Vennero realizzate 12 sezioni. Vennero affrontati i maggiori temi umani e spirituali: scienza, speranza, dolore, ecc. Fu un’iniziativa pioneristica e coraggiosa. Altri vescovi poi fecero la stessa cosa. L’obiettivo fu una palestra di addestramento per un dialogo non conflittuale tra il credente e non credente. Pensava che c’è in tutti un credente e non credente: siamo tutti credenti e non credenti insieme. Approfondiamo insieme: questo è stato l’obiettivo di Martini. Se ci togliamo maschere, ruoli, funzioni, ci troviamo tutti sulla stessa strada verso la verità. Invito a viere nell’autenticità, senza paure. Novembre 1989 Martini disse: “La differenza è tra pensanti e non pensanti”. La cattedra fu l’indicazione di una metodologia pastorale profondamente rinnovata.

Chiesa e missionarietà
Il Signore ci ha fatti cristiani per renderci testimoni della speranza che è in noi. Martini tenne sempre molto presente le parole della liturgia episcopale: “Per coloro che non appartengono al gregge del Signore, prenditi cura anche di loro”. Scrisse: Alzati e va a Ninive la grande città (1991). Nel 2002, durante una veglia in Duomo disse: “Attraversate la città contemporanea sapendo che insieme è possibile conoscerla nella sua diversità. Favorite i rapporti tra persone che sono diverse. Siate promotori di nuove agorà”. Nel 1980 entrò in Milano a piedi con un Vangelo in mano. Aveva scelto la strada. La sua pastorale era la strada, perché la strada è di tutti, è laica e ti costringe a parlare la lingua di tutti. Dell’episcopato si deve dire che ‘ un sacramento della strada (Giovanni Paolo II). L’episcopato è il sacramento della strada. Nel 1996 disse: “Vorrei farmi tuo compagno di strada”. Lettera pastorale: Partenza da Emmaus, sul tema della missione. Fu una lettera poco capita. Manca l’entusiasmo di fede che è contagioso. “Solitamente partiamo dalle comunità già costituite. Mettere la missione dopo non dice come stanno davvero le cose. Dobbiamo trovare l’armonia tra la pastorale e la dimensione missionaria. La tradizione c’insegna che nella realtà storica la missione ha preceduto la comunità”.

Come vedo e desidero la Chiesa di domani?
Una chiesa che si muove come la prima Chiesa, quella degli Apostoli. “Non ci proponiamo nessun proselitismo. Ci basta essere come Gesù, vivere il Vangelo”. L’opera dello Spirito Santo nella Chiesa. Martini riteneva che grazie allo Spirito Santo la Chiesa è in grado di aiutare il mondo a trovare la direzione giusta. La Chiesa è una goccia capace di orientare la società. Per questo non ha vita facile nella società. Diceva che sarebbero solo minoranze qualificate a cambiare la Chiesa. Per cambiare la Chiesa bisogna amarla fino al dono della propria vita. Martini era cosciente che su alcuni punti era necessario parlare. “Ho fatto un sogno”. Auspico un confronto su questi temi: ruolo della dona, la visone cattolica sulla sessualità. Martini morì con la convinzione che le sue idee sarebbero rimaste solo un sogno. Sognava una Chiesa che infonde coraggio, aperta e giovane. Martini diede un’intervista al Corriere della Sera in cui usò l’espressione: noi viviamo in una Chiesa che è rimasta indietro 200 anni. “Portiamo ai sacramenti che necessitano una nuova forza? Come può la Chiesa a portare aiuto a chi ha situazione familiari complesse?”.

Due tratti personali di Martini
Aveva una grande capacità di ascoltare le persone. Solo chi sa ascoltare è capace di orientare le persone. Quando eri con lui, eri tutto per lui. Martini non parlava molto. Rifletteva molto rimettendo tutto nelle mani di Dio. Fu questa dote che lo rese un padre comprensivo. Un altro tratto di Martini: era allergico alle polemiche. Molti però polemizzavano con lui. “La mormorazione rappresenta la spia di un’aria stagnante sottilmente avvelena e deprime”. Martini aveva idee avanzate sulla Chiesa, volte a far evolvere il cammino della Chiesa. Mai si collocava in logiche di contrapposizione e polemica. Tutto in Martini poggiava su Gesù. Ogni appunto per la Chiesa partiva da un grande amore per la Chiesa.

Conclusione

Martini ogni anno a Natale scriveva una lettera. Martini amava molto Gerusalemme e il popolo ebraico. Scrisse 22 discorsi alla città. Ci sono anche discorsi sulla vita sacramentale. Fu anche presidente dei vescovi europei. Molti libri di Martini sono stati trascritti dal registratore. 

OMOSESSUALITÀ DONO DI DIO





Ho ricevuto da don Eugenio questa bellissima e profonda omelia del vescovo brasiliano Carlos Cruz Santos, che pubblico volentieri nel mio blog




Mons. Antonio Carlos Cruz Santos, Vescovo di Caicò (Rio Grande do Norte – Brasil), ha sostenuto, nella sua omelìa nella Messa del 30 luglio 2017, che la omosessualità è un dono di Dio.
(traduzione di don Eugenio Morlini)

In questa settimana, mercoledì giorno di Sant'Anna, nel programma di Marcos Dantas c'è stata una intervista che mi ha preoccupato. Marcos Dantas ha intervistato il professor Eldes Dos Santos Filhos sulla sua discussione di dottorato; questa era la sua tesi: “prevalenza e fattori associati all'idea suicida tra i travestiti e i transessuali.
La tesi che questo professore sosteneva era presentare il numero dei suicidi tra i travestiti e i transessuali”.
Dopo aver assistito a questo reporter ho pensato a quei tanti fratelli e sorelle con orientamento affettivo che si sentono incompresi e non amati da noi, che siamo della Chiesa, dalle loro famiglie, dalla società e pure da se stessi, proprio come capitava nel tempo della schiavitù.
Ho ricordato in questi 25 anni di ministero pastorale le tante storie di sofferenza di fratelli e sorelle con orientamento affettivo che sono venuti a confidarsi da noi, portando il loro dolore e sopratutto il dolore di non sentirsi accolti e amati.
Mi ricordo di un fatto. Una volta una mamma mi cercò perché il suo figlio giovane gli aveva rivelato il suo orientamento (la sua tendenza) omoaffettiva (omosessuale). Questa donna aveva una posizione sociale di un certo prestigio ed ella non riusciva ad accettare questa tendenza del figlio. Come mamma voleva bene, ma per il peso della cultura insita in essa, per il peso della società, non riusciva ad accettare. Ella comprendeva che la tendenza del suo figlio era una tendenza negativa nella confortevole società in cui si trovava. Ho tentato di fare con questa mamma un cammino, ma non è facile fare un cammino quando siamo davanti a queste situazioni. Mi proposi accompagnare il figlio che però non mi ha mai cercato. Poco tempo dopo questa mamma ebbe un tumore, possibilmente quel tumore era frutto della somatizzazione del dolore che aveva nel non accettare la tendenza del suo figlio, e questo tumore la condusse alla morte. Quando andai a fare le esequie il figlio stava al mio fianco ed egli mi disse, piangendo, io so che sono colpevole della morte di mia mamma. Gli dissi di venirmi a trovare, ed egli non è venuto. Pensai molto nel dolore che questo figlio porta dentro di se di questa colpa che egli non ha: la colpa non era della sua tendenza, ma era della sua mamma per non aver superato i suoi preconcetti.

Tutti voi sapete che c'è un problema che mi preme molto ed è il tema del suicidio attorno a noi, e questa intervista che ho ascoltato mi ha colpito molto.
La statistica ufficiale ci dice che il 90% della nostra popolazione si dice cattolica, quindi il 90% della gente beve questo brodo della cultura cattolica e lo conferma la vostra numerosa presenza in questa festa di Sant'Anna. Allora mi chiedo se questo non è una sfida per noi, che abbiamo dentro questa cultura cattolica, il dare una buona notizia per questi nostri fratelli e sorelle che tanto soffrono come questa mamma ha sofferto, che soffrono come questo figlio ha sofferto, che con certezza ci stanno ascoltando e sono anche qui in mezzo a noi, e molte volte attendono da noi una buona parola, una buona notizia.
Il Vangelo per eccellenza è vangelo della inclusione; il Vangelo è una porta stretta, è esigente, ma è una porta sempre aperta: Dio non chiude mai la porta per nessuno; per questo forse è il momento; così come siamo stati capaci di intendere meglio il vangelo e vincere la schiavitù; non è giunta l'ora di intendere meglio, nella prospettiva della fede, e superare i preconcetti contro i nostri fratelli e le nostre sorelle omo-affettive (omosessuali). Pensiamo sinceramente, con una prospettiva di fede, quando noi osserviamo la omosessualità, noi non possiamo dire che l'omosessualità è un opzione, una scelta. Una scelta è una cosa che tu liberamente scegli, e l'orientamento, la tendenza, nessuno la sceglie, un giorno uno si scopre con questa o con quella tendenza; la scelta riguarderà soltanto la maniera come tu vivrai nella tua tendenza, se in una forma degna, etica o in una forma promiscua, ma la promiscuità si può vivere in qualsiasi tendenza, orientamento, che uno ha (eterosessuale o omosessuale).
Considerato che non è una scelta, che l'Organizzazione Mondiale della salute non lo considera più come una malattia, nella prospettiva della fede noi abbiamo solo una risposta: se non è una scelta, se non è una malattia, nella prospettiva della fede solo può essere un dono, e un dono è dato da Dio. Non c'è verso, se non è scelta, non è malattia, è dono, è dono dato da Dio; ma forse i nostri preconcetti non permettono di comprenderlo come dono di Dio. Così come i preconcetti nei confronti dei neri, e si diceva che i neri non avevano l'anima, il nostro preconcetto non permette di percepire questo dono.
È un preconcetto, gente, ed un preconcetto avviene prima della cosa, dell'esperienza.
Come il preconcetto ha reso possibile la schiavitù, come il preconcetto di fronte ai profughi in Europa, come un preconcetto a volte rende insensibili tanti politici del nostro Paese davanti al dolore dei più poveri, come il preconcetto rende possibili leggi ingiuste per le comunità indigene… tanti e tutti preconcetti gente mia.
Papa Francesco è visto da tanta gente della Chiesa come colui che rende povera la dottrina cattolica e la svende; in verità ciò che Pappa Francesco desidera è che il punto di partenza della dottrina cattolica sia la misericordia… e la misericordia costa molto cara, Cristo ha pagato un prezzo molto caro e anche noi paghiamo questo prezzo caro per essere fedeli al Maestro Gesù.

Quando Papa Francesco per la prima volta è stato qui in Brasile nella Giornata Mondiale della Gioventù nel 2013, ritornando a Roma, nella solita intervista che concede sull'aereo, una giornalista brasiliana fece una domanda rispetto a quello scandalo omosessuale che avvenne nel Vaticano in quei giorni. Nella risposta egli ci diede una perla preziosa nel comportamento verso i nostri fratelli omosessuali: se una persona è gay e cerca il Signore ed ha buona volontà, chi sono io per giudicare? il catechismo della Chiesa Cattolica dice che non si devono marginalizzare queste persone ma devono essere integrate nella società. Nell'ultimo sabato del 2015, in una udienza privata (l'ha rivelato la persona stessa) il Papa ha ricevuto il transessuale Diego Nerìa Leharrada e la sua compagna. Come è avvenuto questo incontro? Il Papa ha ricevuto una sua lettera che parlava del dolore che soffriva e del preconcetto che soffriva nella sua comunità cattolica. Allora il Papa gli telefonò e fissò l'udienza; e dopo l'udienza questo ragazzo diede una intervista. Diceva che nella sua comunità era chiamato dal parroco e dalla gente come figlio del diavolo. Papa Francesco, sensibilizzato, volle accogliere colui che non era stato accolto dalla Chiesa.

Papa Francesco nell'Enciclica “Amoris laetitia” dedica tutto il capitolo 8° per le situazioni irregolari; ed egli propone tre passi per accompagnare questi fratelli. Mi chiedo se quei tre passi noi possiamo percorrerli con i nostri fratelli omo-affettivi (omosessuali): accompagnare, discernere, integrare. Non sarebbe questa la sapienza salomonica che dovremmo imparare da Gesù, non sarebbe questa la misericordia che abbiamo ricevuto in eredità da Dio; non siamo tutti, indipendentemente dalla nostra tendenza, immagine di Cristo? Quando Cristo ci ama, non guarda i nostri organi genitali, ma guarda il nostro cuore, e quando ci chiama, ci chiama per il cuore e noi andiamo con tutto, compresa la nostra tendenza, e siamo immagine del Signore. Non è questa la perla preziosa che Sant'Anna ci sta dando oggi, come ci ricorda il Vangelo, la perla della misericordia del suo nipote, del suo Dio e del nostro Dio, del Figlio di Maria, del Figlio di Dio, nostro fratello. Che Sant'Anna ci insegni come ha insegnato a Maria, a fissare gli occhi nel trapassato Gesù e nello sguardo misericordioso per i trapassati nella storia; ed oggi vorrei contemplare come trapassati nella storia i nostri fratelli e le nostre sorelle omo-affettive (omosessuali) che non sono accolti e né amati da noi. Che Sant'Anna ci mostri il cammino verso Gesù.

giovedì 14 settembre 2017

IL SIGNORE LE VUOLE LIBERE E PIENE DI DIGNITÀ (Papa Francesco)



CHIESA-DONNA

Maria Soave Buscemi
CONVENTO DEI CAPPUCCINI – REGGIO EMILIA

Sintesi: Paolo Cugini

Ci dobbiamo aiutare a vedere e a guardare alcuni respiri che vanno interpretati rispetto alla violenza sulle donne, sul respiro delle donne. Siamo qui per agire, perché non possiamo più rimanere a braccia conserte.

Vedere. Atti sessuali degradanti, abusi o molestie fisiche gravi, stupri e tentati stupri. Il 21% delle donne italiane li ha subiti nel corso della propria vita. 2 donne ogni 10 in Italia. 1 milione e 700 mila li ha subiti. I principali autori delle violenze sono ex partner. Nel 2016 sono state 120 e nel 2017 c’è una media di una vittima ogni tre giorni. Negli ultimi dieci anni le donne uccise in Italia sono state 1240 di cui più del 70% in famiglia. Oggi la famiglia nel mondo Occidentale è uno dei luoghi meno sicuri per la salute di donne e bambini. C’è qualcosa che bisogna domandarsi. In che modo i testi sacri del cristianesimo hanno contribuito al fatto che queste cose accadano? Vi propongo un processo di ermeneutica femminista dei testi sacri. Primo passo la possibilità di sospettare. Alle brave bambine è stato insegnato che non bisogna fare domande. La domanda apre spazio. Ci pone come soggetti in una interlocuzione. Imparare a permetterci domande. Iniziamo a cercare assieme le risposte. La vita cambia le domande. Il segreto del vivere è permettersi domande.

Giovanni 8. Quanti anni ha la donna protagonista di questo testo? Lo stereotipo che è stato costruito è che la donna ha tra i 20 e 40 anni. Gli uomini hanno una visione della donna di Giovanni 8 molto dettagliata. C’è un tipo d’immaginario. Secondo la legge la donna dev’essere lapidata. C’è solo un caso: Dt 22, 24. Quando una giovane donna vergine, promessa in sposa di un uomo… Perché non ha gridato. Chi viene da culture mediterranee sa che chi lava l’onore è il sangue della donna. Due possibilità per cui questa ragazzini di 12/13 dev’essere lapidata perché non ha gridato. La prima è la paura e quindi è stata imposta. Secondo l’ha scelto e non aveva voglia di gridare. 

Per onestà dobbiamo percorrere questi due cammini.
Cammino A: è stata stuprata. Il peccato è non aver gridato.
Cammino B: lo ha voluto. Come funzionava la scelta del marito? Si passa ad essere la faglia di, la moglie di, la mamma di, e la nonna di. Se l’identità è data dall’essere moglie di, quando di viene meno tu non sai più chi sei. Gesù mai dice mamma, sorella, moglie, figlia. Dice sempre donna. La scelta del marito era o del padre, o del fratello: non veniva interpellato la donna. L’ipotesi di questa ragazza è: voglio amare chi scelgo io. Il peccato è aver permesso che tuo padre, tuo fratello scelga per te. È un testo che dice no alla violenza del patriarcato. Secondo Brown questo testo ci ha messo 938 anni ad entrare nella Bibbia. Perché? Qui, in questo testo, Gesù ha una pratica così scomoda che si fa fatica ad accettarla. Gesù sta dalla parte di quella ragazzina. Gesù è in terra dove sta la ragazzina. Si alza quando gli uomini vanno via. Dagli uomini le donne si aspettano lo stesso respiro, co-spirazione.
 Gesù rimane in terra tutto il tempo che questa ragazzina è in terra e non se ne va. Gesù invita a dire no al potere patriarcale. Libere tutte, liberi tutti. La Chiesa per 938 anni ha fatto fatica. Posizione del corpo mistico-politica. Gesù destruttura il Dio dei potenti. Poi è entrato nel canone. Si è fatto di tutto di buttar fango su Maria Maddalena, perché era un modo di essere Chiesa. Maria Maddalena doveva essere decostruita. C’era un unico ordine simbolico che è Pietro e la chiesa petrina. Nell’anno mille bisognava cancellare il modo di essere Chiesa tra uguali, il modello di Maria Maddalena, dove l’unico potere è servizio, senza gerarchie, affinché rimanesse solo l’ordine petrino. Il Papa di allora mise insieme questo testo appiccicandolo vicino a Maria Maddalena. Il grosso problema è che questo tipo di testi se usati per fortificare ordini violenti costruiscono violenza. Costruiscono nell’immaginario che le donne sono un pericolo, che sono perverse ontologicamente, che portano il male, che donna e serpente sono amiche. Dobbiamo rileggere questi testi. Decostruire le violenze. Gesù sta completamente con questa ragazzina. 
Le Chiese devono dire no alla violenza contro le donne. Dobbiamo prendere i testi sacri e decostruire. Gridiamo se qualcuno fa violenza perché nessuno si perda. No alla legge del padre.




martedì 12 settembre 2017

LA CONTAMINAZIONE CONCILIARE




Paolo Cugini

Nonostante tutti gli sforzi messi in atto da Joseph Ratzinger per dimostrare la continuità del Concilio Vaticano II con i precedenti concili[1], è fuori discussione che il Vaticano II è stata una vera e propria ventata di novità, che ha rotto con lo stile di Chiesa in vigore e indicato un nuovo cammino. Se di continuità si vuole parlare è con la Chiesa dei primi secoli. Non a caso lo stesso Concilio Vaticano II a più riprese e in diversi documenti ha invitato i fedeli a ritornare alle fonti, a cercare le motivazioni del proprio cammino nella Chiesa dell’epoca d’oro, la Chiesa dei Padri. Quali sono, allora, quegli aspetti che hanno contaminato tutta la Chiesa, nonostante gli sforzi fatti nel dopo Concilio per attutirne l’impatto innovativo?
Prima di tutto lo stile. Il teologo francese Christoph Theobald[2] chiarisce che il tanto decantato principio di pastoralità come chiave ermeneutica dei testi del Concilio Vaticano II, non emerge direttamente dalla struttura del corpus, ma è di ordine stilistico: “Indica una maniera di procedere, una conversione o una riforma individuale e collettiva come viene sottolineato con forza dal discorso finale di Paolo VI”. È il modo di gestire la conflittualità e la violenza interna alla Chiesa che offre al Vaticano II la sua credibilità evangelica. Sono diversi i passaggi in cui questa scelta di stile evangelico è evidente. Theobald indica quel passaggio della Dignitatis Humanae in cui nella ricerca della verità il testo manifesta il rispetto delle verità degli altri. In questo frangente come in altri, il Concio Vaticano II opta per lo stile del dialogo più che la condanna, come invece era avvenuto nei precedenti concili. Ecco perché secondo Theobald parlare in termini di stile pastorale è un modo di riconoscere il cambiamento di un paradigma nel modo di affrontare i problemi nella Chiesa. Per confermare questa opinione Theobald riporta la tesi di John W. O’Malley secondo il quale la novità del Concilio consisterebbe nell’evento di linguaggio che esso rappresenta. “A poco a poco – sostiene O’Malley – Il Vaticano II ha configurato un nuovo gioco linguistico, cioè una nuova retorica unica in se stessa, che culmina in Gaudium et spes”[3].
Secondo O’Malley lo stile risulta da due elementi: un genere letterario e una terminologia ad esso adeguata. O’Malley identifica il genere letterario nell’eloquenza epidittica che sostituisce quella giudiziaria. Per quanto riguarda la terminologia individua cinque tratti: l’accentuazione delle relazioni orizzontali; l’insistenza sul servizio a discapito del controllo; l’orientamento verso il futuro; la sostituzione di una terminologia inclusiva a quella di esclusione; la preponderanza della partecipazione attiva di tutti rispetto ad un’adesione passiva. Theobald sostiene che per individuare i tratti distintivi dello stile pastorale del Vaticano II sia necessario collegare il corpus all’evento conciliare stesso, che tra l’altro è l’indicazione dell’Officina Bolognese guidata da Giuseppe Alberigo. Se si prende sul serio il principio di Pastoralità indicato da Giovanni XXIII al Concilio, è necessario collocare l’unità nel modo di procedere, più che cercare nei generi letterari. Questo modo id procedere “consiste nel comprendere il corpus testuale del Vaticano II da subito come espressione di un’esperienza extratestuale, esperienza di ascolto della parola di Dio e di incontro effettivo con l’infinita varietà di coloro ai quali l’assemblea vuole rivolgersi[4].
 Secondo Theobald lo stile pastorale del Vaticano II non può essere ridotto né alla configurazione sincronica di un evento di linguaggio ((O’Malley) né all’esperienza storica degli attori conciliari (scuola di Bologna), “ma si colloca bene in un modo evangelico di procedere e di mettersi d’accordo, inscritto nel corpus testuale aperto che, proprio a causa di questa <apertura>, resta a sua volta intimamente legato ad una maniera di collocarsi hic et nunc tra la Parola di Dio e i suoi possibili recettori[5]. Il principio pastorale ed ecumenico si carica di due importanti implicazioni: il suo legame con l’idea di riforma e il suo rapporto con il radicamento storico e contestuale dei destinatari del Vangelo vengono progressivamente esplicitati e rifluiscono sulla forma che il magistero prende man mano durante il suo percorso conciliare. L’autore è consapevole che l’adozione di un modo evangelico di procedere, non può essere imposto ma dipende dalla conversione non programmabile dei partecipanti. Forse è stato questo il problema dell’assunzione dello stile dialogico e attento alle diversità all’interno del Concilio composto da tante persone provenienti da ogni angolo del mondo. 
Per mostrare il valore della recezione dello stile pastorale del Concilio Vaticano II, Theobald propone alcuni esempi. Il primo è l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1974. Come sostenne lo stesso autore dell’Esortazione, l’obiettivo principale del Concilio consisteva nel rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il Vangelo all’umanità del XX secolo. L’altro esempio riportato dall’autore è l’enciclica di Giovanni Paolo II Ut Unum sint del 1995, che ripropone una rilettura di quanto è scaturito nel dibattito teologico sul tema dell’ecumenismo, in sintonia con il documento conciliare Unitatis redintegratio. Secondo Theobald lo stile del testo è evangelico e narrativo. Il tono dialogico e aperto lo si percepisce anche dalla domanda che il papa rivolge per aiutarlo a svolgere al meglio il servizio del primato. Ultimo esempio proposto di recezione dello stile di Pastoralità proposto dal Concilio Vaticano II è l’incontro interreligioso id Assisi del 1986. La novità principale di questo evento è secondo Theobald, la visualizzazione, la gestualità del rispetto della differenza religiosa nel cuore dell’umanità. C’è un grande messaggio di apertura che proviene da questo evento epocale: “Un nuovo modo di articolare l’alterità dell’altro e ciò che lega gli uni agli altri: esiste un modo di comprendere il fondamento comune della comunità umana che non è superamento o soppressione della differenza religiosa ma, al contrario, rispetto di quest’ultima in Dio[6].
Lo stile evangelico del dialogo, più che del giudizio, dell’ascolto, più che la presunzione sommario di sentirsi in dovere d’indicare al mondo cosa deve fare, ha contaminato positivamente il cammino della Chiesa. I consigli pastorali, gli organi sinodali a vari livelli, rappresentano senza dubbio il frutto positivo dello sforzo messo in atto dal Concilio.
Un altro elemento emerso nel Concilio Vaticano II che ha contribuito a contaminare tutta la Chiesa è stato il dibattito sulla chiesa povera e dei poveri. È vero che non molto di questo dibattito è passato nei documenti conciliari. Sta di fatto, però, che le riflessioni proposte e dibattute all’interno del Concilio hanno lasciato un segno profondo in molti vescovi, al punto da contaminarne le scelte future nelle diocesi di appartenenza. Figura importante del dibattito sulla Chiesa dei poveri è il sacerdote francese Paul Gauthier[7]. Vicino alle esperienze dei piccoli fratelli di Charles de Foucauld e attento all’esperienza dei preti operai già presenti in Francia sin dalla decada degli anni ’30, Gauthier durante le prime settimane del Concilio diffonde un dossier in titolato: “Gesù, la chiesa e i poveri”, che offrirà l’occasione ai vescovi e ai teologi approfondire la riflessione sul rapporto tra la Chiesa e i poveri. Il dossier nasceva dalla percezione che la chiesa avendo perso il contatto con la classe operaia aveva perso il contatto con i poveri. Da qui la domanda centrale: la separazione tra la Chiesa e le masse operaie era sintomo della frattura più profonda tra la Chiesa e Cristo? Gauthier metteva il dito sulla piaga della percezione che il mondo aveva di una Chiesa distante dalle masse lavoratrici, “Gauthier mise in connessione – Come ricorda il teologo Matteo Mennini in un suo recente lavoro[8] -  l’idea che Cristo si era inserito nel mondo dei lavoratori e dei poveri direttamente alla dottrina della Mystici Corporis, in cui si affermava che quanto proveniva dalla divina pienezza di Cristo affluisce alla Chiesa affinché essa quanto è più possibile sia a Lui somigliante[9].
Gauthier nel dossier richiamava la Chiesa alla sua originaria vocazione di annunciare il Vangelo ai poveri e, per realizzare tale progetto, era necessario vivere in mezzo a loro. Il sacerdote francese diverrà l’animatore di un gruppo dci vescovi convocati sin dal mese di ottobre 1962 dai vescovi Himmer e Hakim, per iniziare a riflettere sulle scottanti questioni del dossier di Gauthier. L’incontro aveva prodotto varie conclusioni e proposte tra le quali quella di rimuovere gli ostacoli che impedivano alla Chiesa di mostrare al mondo operaio la sua vera natura e missione. La percezione condivisa dal gruppo è che i poveri non sono in grado di accogliere i messaggi della Chiesa perché scandalizzati dai segni esteriori e dal tenore di vita dei suoi membri. Due membri del gruppo, i vescovi Mercier e Helder Camara, proposero di rivolgersi al Papa affinché il Concilio si occupasse esplicitamente della povertà della Chiesa. Veniva sempre più manifestata una profonda preoccupazione per una rinnovata comprensione della povertà della Chiesa come condizione per la sua credibilità nel mondo e che la povertà della Chiesa non poteva semplicemente essere un tema fra gli altri. Secondo Mennini, fu proprio questa forte presenza del Collegio Belga nel Concilio che provocò il dibattito della Chiesa povera e dei poveri anche al di fuori delle stanze vaticane. Di fatto, l’autore cita lettere pastorali di molti vescovi e riviste cattoliche parlando ampiamente e approfonditamente del tema in questione.
Nel frattempo Paul Gauthier vero e proprio animatore del gruppo di lavoro che si era costituito sul tema della povertà della Chiesa, nel 1963 lancia un nuovo libro nel quale si chiedeva come mai fosse così arduo parlare della Chiesa dei poveri. Gauthier era consapevole che il problema della chiesa dei poveri metteva in discussione il tradizionale impianto ecclesiologico. “Per un cristiano – sottolinea Mennini – Cristo è tanto presente nei poveri come lo è nell’Eucarestia e nella gerarchia. Ammettere ciò significava molto più che un orientamento pastorale, non era l’aggiornamento di una prassi, ma del contenuto stesso della fede[10].
Sappiamo come le cose sono andate a finire. In ogni modo, il patto delle catacombe, sancito da un gruppo di vescovi alla vigilia del Concilio, per assumere l’impegno di realizzare una chiesa povera e per i poveri, e la significativa recezione avvenuta nel Continente latinoamericano proprio su questo punto, rivela quanto importante sia stato l’influsso del Concilio in questa direzione.
L’altro tema che ha contribuito a ripensare la Chiesa nel suo modo id presentarsi al mondo e che l’ha contaminata, è stata la presa di coscienza che, prima di essere una gerarchia e presentarsi come tale, la Chiesa è popolo di Dio. Molti in questi anni, sono stati gli studi apparsi su questo modo di pensare la Chiesa. Molto si è scritto anche, sul recupero del concetto di Chiesa come popolo di Dio dal punto di vista biblico. Significative mi sembrano le riflessioni di P. Neuner[11] il quale sostiene che, sfogliando le pagine dei documenti del Concilio Vaticano II, si percepisce come la chiesa non è più pensata solamente nelle istituzioni e nei ministri ordinati e che il popolo è più ampio di loro. La riflessione sul laicato raccoglie la ricchezza della ricerca biblico-patristica dei decenni precedenti al Concilio. “Ogni laico in virtù dei doni che gli sono stati fati, è testimonio e insieme vivo strumento della stessa missione della chiesa” (LG 33). Già da passi come questo si percepisce l’intenzione dei padri conciliari di andare al di là delle contrapposizioni, per camminare verso una visione di Chiesa come popolo di Dio. In questa prospettiva Neuner sottolinea l’importanza storica del decreto sull’apostolato dei laici nel quale si afferma che i laici sono deputati dal Signore all’apostolato.
Nei più diversi ambiti tipici della complessità del tempo presente, spesso la missione della chiesa può essere esercitata solo dai laici. Questa presenza significativa dei laici nella comunità viene ribadita nella Sacrosanctum Concilium, dove viene sottolineata la partecipazione attiva di tutti i fedeli alla celebrazione eucaristica. Neuner parla senza mezzi termini di rottura delle affermazioni conciliari sul laicato rispetto all’insegnamento ufficiale precedente. “La valorizzazione dei laici nella chiesa è uno dei punti nei quali il concilio ha superato se stesso[12]. Neuner riconosce comunque, che il Concilio Vaticano II ha avuto nei confronti della sua minoranza conservatrice un tratto estremamente premuroso. Integrare le minoranze fu un desiderio dei padri conciliari e soprattutto di Paolo VI. In ogni modo “nelle affermazioni del Concilio sui laici si vede allora una nuova e fondamentale presa di coscienza che è in discontinuità con una lunga tradizione di segno opposto[13].
C’è la presa di coscienza che dopo il Concilio i laici hanno assunto di fatto in maniera intensa diversi compiti e doveri che prima erano svolti dai preti. Ci si interroga sulla responsabilità comune di tutti i fedeli, soprattutto in quelle comunità che non possono più beneficiare della presenza permanente del presbitero. Si giunge così a percepire che esiste un’unica missione della chiesa che viene svolta dai molteplici servizi che vanno esercitati in dipendenza l’uno dall’altro. È il principio della comunione nella diversità, che esige dal canto suo la valorizzazione degli organismi che permettano il funzionamento della comunità come, ad esempio, il consiglio pastorale.
Senza dubbio sono molti gli aspetti presenti nel Concilio Vaticano II che hanno rappresentato una novità e una sfida per tutta la Chiesa. Sottolineare lo stile, il dibattito della chiesa povera e dei poveri, il recupero della visione della Chiesa come popolo di Dio, significa stimolare una direzione del discorso ecclesiologico, soprattutto alla luce delle provocazioni pastorali di Papa Francesco. Lo stile conciliare ha messo in discussione il tono arrogante delle asserzioni ecclesiali, ha mostrato cioè il limite di un modo di entrare in relazione con il mondo che, invece di annunciargli il Vangelo, l’ha allontanato. Stile conciliare significa attenzione all’interlocutore, perché Gesù c’insegna che il primo modo per portare la vita di Dio all’uomo e alla donna che incontriamo nel nostro cammino, consiste nell’agganciare l’interlocutore. E se questo comporta l’abbassarsi, il farsi prossimo, la grandezza di quello che si desidera offrire è tale che il discepolo e la discepola non hanno problemi a compiere il cammino di abbassamento, che è il cammino percorso da Gesù nell’incarnazione. Il Concilio, allora, ponendo attenzione all’uomo e alla donna, non ha insistito sull’evidenza delle asserzioni, ma sulla simpatia con coloro alle quali s’intendeva dirigersi. Questo stile dialogico e empatico ha contaminato la Chiesa, smascherando da una parte l’arroganza di uno stile autoritario di porsi con il mondo e, dall’altra provocando il desiderio di vivere sino in fondo la novità del Vangelo, anche nello stile, nel mondo di porsi in relazioni con gli altri, con il mondo.
Lo stile evangelico esige come manifestazione esterna, non la pompa che proviene dalla ricchezza, ma una sobrietà che solo la povertà può donare. Il dibattito sulla Chiesa povera e dei poveri, oltre ad essere un programma dei discepoli e delle discepole del Signore sulla parte nella quale si decide di stare nel mondo, vale a dire dalla parte dei poveri, manifesta anche l’esigenza intrinseca di una vita povera e sobria come conseguenza della sequela. Anche a questo livello la contaminazione provocata dal Concilio apre un processo di smascheramento, che mette il dito sull’inautenticità della ricchezza della Chiesa e sulla necessità di promuovere un cammino di ripensamento delle strategie di evangelizzazione messe in atto, che non possono essere affidate alla sola possibilità delle strutture e delle condizioni economiche. La Chiesa povera e dei poveri mette sotto accusa il modello economico capitalista e neo-liberale, come antitetico al messaggio di Gesù e allo stile della Chiesa. Se, infatti, lo stile di Gesù è povero e a favore dei poveri, basato sulla condivisone e l’attenzione agli ultimi, ben diversa è la proposta della visione capitalista basata sulla rivalità e la competizione, che stimolano uno stile di vita individualiste ed egocentrico. Solamente stando dalla parte dei poveri e toccando la loro carne è possibile smascherare i discorsi edulcorati del capitalismo che con i potenti mezzi comunicativi tende a mascherare le menzogne vendendole come verità. Mentre il Vangelo è annuncio di vita per tutti, promovendo l’uguaglianza degli uomini e delle donne, la proposta del capitalismo che stiamo pagando sulla nostra pelle, è un cammino di esclusione della maggioranza a favore di pochi privilegiati. La contaminazione conciliare che propone lo stile povero di Gesù, mette a nudo l’inganno del discorso capitalista, che favorisce la libertà per pochi privilegiati a scapito delle moltitudini di poveri che vivono di stenti. La Chiesa deve schierarsi denunciando le disuguaglianze del sistema capitalista e proporre uno stile di vita evangelico fondato sulla solidarietà, sulla condivisone nelle piccole comunità di fratelli e sorelle.
Popolo di Dio, allora, - ed è la terza contaminazione che intendo sottolineare promossa dal Concilio Vaticano II – dice dell’uguaglianza dei figli e delle figlie di Dio, fratelli e sorelle del Signore. Uguaglianza che non significa negazione delle differenze, ma valorizzazione delle stesse. Solo in una Chiesa Popolo di Dio, infatti, le persone possono esprimere la propria diversità in quanto nella comunità trovano spazio per esprimerla. Al contrario, in un modello di Chiesa che s’identifica con il potere gerarchico, solo qualcuno trova spazio per esprimersi, a scapito della maggioranza. La Chiesa come Popolo di Dio stimola la democraticità della comunità, che non si ferma ad aspettare che qualcuno dica dall’alto che cosa si deve fare e pensare, ma trova lo slancio, stimolati dall’esempio di Gesù, di cercare il cammino da intraprendere mettendosi in ascolto della Parola e camminando assieme ai fratelli e le sorelle incontrati nella comunità. Le intuizioni Conciliari espresse nella Lumen Gentium e nella Dei Verbum hanno stimolato non solo la Chiesa latinoamericana, che sin dall’Incontro avvenuto a Medellin (1968) ha fatto proprie le indicazioni conciliari promovendo e incentivando le Comunità ecclesiali di Base (CEBs), ma anche nelle tante scelte pastorali messe in atto nelle diocesi di tutto il mondo nell’immediato post-concilio, affinché i fedeli prendessero sempre più coscienza della loro dignità di Figli e figlie di Dio, membri attivi della Chiesa, chiamati a prendere l’iniziativa nella vita della comunità.
Contaminazioni quelle conciliari, che, anche se in alcuni momenti si è fatto di tutto per disinnescarne la forza dirompente, sono ormai il fermento di un nuovo modo di essere Chiesa, ben visibile nell’attuale papato di Francesco.




[1] Nell'indire un Anno della fede in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell'apertura del Concilio Vaticano II, Joseph Ratzinger parlò di una "giusta ermeneutica" di quell'evento. La corretta comprensione del Concilio – precisano le istruzioni per l'Anno della fede – non è la cosiddetta "ermeneutica della discontinuità e della rottura ma l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa".
[2] Christoph Theobald, L’avvenire del Concilio. Nuovi approcci al Vaticano II, EDB Bologna 2016
[3] Ivi, p. 71.
[4] Ivi, p. 83
[5] Ivi, p. 96.
[6] Ivi, p. 113.
[7] Paul Gauthier (1914-2002) è stato un prete e teologo francese, considerato uno dei precursori della Teologia della Liberazione. Ha operato soprattutto in Medio Oriente e in America Latina in favore delle persone più povere. Assieme ad Ettore Masina ha fondato la Rete Radie Resh per la solidarietà internazionale.
[8] MENNINI, M., La chiesa dei poveri. Dal Concilio Vaticano II a Papa Francesco, Guerini e Associati, Milano 2016
[9] Ivi, p. 38.
[10] Ivi, p. 79.
[11] NEUNER, P., Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana, Brescia 2016
[12] Ivi, p. 110.
[13] Ivi, p. 111.