Paolo Cugini
Usciamo da una lunga stagione durante
la quale si è identificata la verità con l’idea astratta, con i sistemi
filosofici e teologici, con la presunzione di capire il reale a partire
dall'applicazione di sistemi teorici pensati a tavolino. In questo processo
anche la chiesa è stata coinvolta. Nel mondo Occidentale l’epoca della
cristianità ha visto la religione a braccetto del potere, lontano dalle classi
povere, anzi spesso e volentieri contrapposte ad esse. Per molti secoli le
sorti dei popoli erano decise nei palazzi episcopali. Il messaggio del Vangelo
è stato proposto per molti anni da una chiesa forte, potente e gloriosa. Se
viviamo un processo di scristianizzazione, le cause vanno cercate anche nel modo
nel quale il cristianesimo si è proposto al mondo.
L’epoca attuale, che sta
strutturandosi sulle rovine delle meta narrazioni moderne, sgretolatosi nell'impatto
con la realtà, offre nuove possibilità per il sapere e per la comprensione
della stessa realtà. Se la modernità si è configurata in Occidente come
possibilità d’interpretazione del reale a partire da predefiniti presupposti
teorici, l’epoca postmoderna offre la possibilità di percorrere il cammino
inverso. Possibilità di ascoltare il reale per come si manifesta, di cogliere
la realtà nella sua novità. Ciò comporta la disponibilità a lasciarsi
contaminare, a cambiare opinione, a mettere in moto processi di adattamento al
reale. In questa prospettiva la verità non è più esclusivamente un pensiero che
viene dall’idea, ma un dono che riceviamo dalla realtà e che esige
l’accoglienza. Il dono che si rivela nel presente della storia, per essere
colto nella sua novità, ha bisogno di una coscienza libera da precomprensioni,
da pregiudizi, da idee belle e fatte, per dirla alla Péguy. Non è un caso che
il devozionismo religioso sia un’esperienza squisitamente moderna. Nell'epoca
dove viene rafforzato il pensiero sistematico, quel pensiero che precede la
realtà e che ha la pretesa di organizzarla, di capirla, di spiegarla senza
ascoltarla, la religione dell’impero, che s’identifica con la chiesa della
cristianità, perdendo il contatto con la realtà del dato rivelato, produce la
religione di cui ha bisogno. La devozione, intesa in tutte le sue
manifestazioni, risponde al bisogno d’intimismo soggettivo stimolato dal quadro
culturale della modernità, dalla separazione tra fede e ragione, sacro e
profano, tra liturgia e vita. E allora il luogo della vera devozione a Dio è il
cuore dell’uomo, l’intimità soggettiva con il sacro, perdendo di vista la
possibilità di una trasformazione del mondo richiesta dall'annuncio del Vangelo
del Regno di Dio.
Il nostro rapporto con la realtà,
come la consideriamo e come ci relazioniamo con essa, dice anche del nostro
modo d’intendere Dio, il dato rivelato e i contenuti che ad esso attribuiamo.
La modernità è stata la massima espressione di un pensiero che si organizza per
difendersi dalla realtà, per proteggersi dalla sua forza. Soprattutto, però,
bisogna dire per onestà di pensiero, che la modernità si è organizzata contro
la realtà, in contrapposizione ad essa e per questo l'ha per così dire
imbavagliata, per lo meno ci ha provato. Il cambiamento climatico in atto, la
perenne crisi economica nella quale stagna il modello neo-liberale sono, tra le
altre, le conseguenze dell’impostazione
moderna di approcciarsi alla realtà. Un Dio interpretato a partire da
precomprensioni concettuali è divenuto sempre più distante dall'uomo e dalla
natura. Proprio questo, il Dio distante è stato gestito da una classe
sacerdotale che nel tempo anch'essa è divenuta distante al popolo e al mondo
circostante. La scristianizzazione del mondo occidentale non è altro che la
logica conseguenza del distanziamento dell’uomo e della donna dal Dio pensato
da un élite. Scristianizzazione che si manifesta come secolarizzazione, come
desiderio di autonomia da un Dio percepito come indifferente al vissuto
dell’uomo e della donna, un Dio assente alle sorti dell’umanità un Dio, quindi
che per certi versi risulta inutile. La
secolarizzazione del mondo occidentale significa l’addio ad un modo di pensare
Dio che deturpa la realtà interpretandola, che separa il mondo in classi, che
produce un mondo sul modello di chi lo pensa. Secolarizzazione come desiderio
di scrollarsi di dosso secoli di umiliazioni, per divenire finalmente autonomi,
cioè liberi. La scristianizzazione del mondo postmoderno significa, allora
liberazione dal Dio dei sacerdoti del tempio, di quel tempio simbolo del potere
che s’impone sul mondo non solo con la forza delle armi, ma anche e soprattutto
con la violenza dell’imposizione delle proprie idee.
Più che di scristianizzazione si
dovrebbe parlare di fenomeno di de-ecclesializzazione. Un certo modo di gestire
la proposta di Cristo da parte dell’istituzione ecclesiale ha identificato il
Dio dei cristiani con l’istituzione. E’ questa, in realtà, che è andata in
crisi. E’ il suo modo di presentare Dio, che nel mondo postmoderno non funziona
più. Basterebbe sfogliare la storia della chiesa per cogliere il graduale
allontanamento dell’istituzione dal messaggio originale, il Vangelo di Gesù,
per incamminarsi verso un irrigidimento istituzionale che poco spazio lascia al
kerigma. Da Gregorio VII in poi il papato si è gradualmente assunto a potere
temporale assoluto, diminuendo il ruolo dei vescovi e del collegio episcopale.
Nei documenti ufficiali della chiesa spariscono gradualmente il riferimento
alla Sacra Scrittura per fare posto alle citazioni dei papi, identificando così
sempre più la chiesa con il papato. Per cogliere la cecità di questo processo
progressivo d’irrigidimento dell’istituzione papale nei confronti della realtà
del Vangelo, basterebbe sfogliare le encicliche del XIX secolo, che ha visto la
chiesa impegnata da un lato ad affermare la supremazia del papa –
l’affermazione dogmatica del Concilio Vaticano primo dell’infallibilità del
papa in campo di fede -, dall’altro a lottare contro la soppressione dei beni
ecclesiali da parte dello stato italiano (la famosa questione romana). L’apologetica
esasperata delle encicliche papali del XIX secolo, tutte in trincea per
difendersi dagli attacchi del mondo, giungendo persino ad inveire contro la
libertà di stampa e la libertà di coscienza (Mirari Vos, 1838), sono l’espressione penosa di quanto andiamo
dicendo, vale a dire la progressiva ed inesorabile distanza della chiesa non
solo dal mondo comune, ma dallo stesso Vangelo.
Una chiesa che non ha più bisogno di
difendere titoli onorifici e beni temporali diviene allo stesso tempo più
debole, vulnerabile e più evangelica, più simile al Signore che da ricco che
era si è fatto povero, che si è spogliato per farsi uomo come noi e camminare
insieme a noi, non rivestito di vesti sacerdotali ma con il grembiule per
lavarci i piedi. La chiesa del Grembiule, come Tonino Bello amava dire, è la
chiesa libera dalla seduzione del potere e così disponibile a camminare con la
gente, a dialogare con loro.
Una chiesa che dialoga con il mondo circostante,
dialoga nel vero senso della parola, significa che anche si mette in ascolto,
che accoglie le provocazioni esterne, che non giudica inferiore tutto ciò che
non coincide con la propria esperienza. La chiesa che dialoga è la chiesa che
si lascia contaminare da ciò che incontra e, per questo, diviene più debole,
più umile, più attenta. E’ la chiesa che entra nel mondo scendendo dalla
cattedra e si mette al livello delle persone che incontra, proprio come ha
fatto Gesù che è disceso per mettersi a servizio dell’uomo e della donna
incontrati nelle strade del mondo. E’ la chiesa che comprende che il suo
compito non è quello d’insegnare dalla cattedra, ma di ascoltare il grido degli
uomini e delle donne del tempo presente.
Una chiesa in ascolto dei fratelli e
delle sorelle comporta la disponibilità al cambiamento, alla conversione. La
chiesa contaminata, è così la chiesa convertita, che si lascia mettere in
discussione e provocare da ciò che incontra, che è disposta a fermarsi per
ascoltare, proprio come faceva Gesù. Ciò comporta un nuovo modello di
comprensione e d’interpretazione dell’idea di verità e di rivelazione. E’ un
cambiamento radicale di paradigma: dalla chiesa che insegna, alla chiesa che
ascolta. Dalla chiesa che dall'alto dice al mondo cosa deve fare, quali valori
vivere e come si deve comportare, alla chiesa che accetta consigli, che
modifica le sue posizioni: in definitiva una chiesa che scende dal piedistallo.
Da chi dovrebbe lasciarsi contaminare
la chiesa oggi? In primo luogo dal mondo laico. Può essere un paradosso, ma non
lo è. S’incontra spesso nel mondo cattolico un’idea di laico come se fosse
identificato con anticristiano, negatore dei valori evangelici. In realtà quel
mondo laico che non si riconosce in nessuna religione non per questo si pone contro,
è antagonista: semplicemente vuole vivere in pace senza che nessuno voglia
imporre dall'esterno i propri valori. C’è molta sete di libertà, di umanesimo,
di uguaglianza in quel mondo laico che, non identificandosi nella chiesa,
persegue quegli ideali che ogni uomo e ogni donna di buona volontà, che prende
sul serio il proprio cammino esistenziale, sente pulsare dentro di sé. Da
questo mondo che lotta per la vita e per la libertà la chiesa deve mettersi in
umile ascolto.
Nell'epoca postmoderna la chiesa non
incide più con la forza, con i proclami, volendo imporre il proprio stile di
vita, le proprie idee; la chiesa è incisiva e stimolo della società quando vive
quello che ascolta dalla Parola di Dio. In questo modo diviene fermento nella
massa, granello di senapa. In un contesto culturale sempre più pluralista
ognuno deve poter aver il diritto di vivere i propri
valori senza che nessuno gli dica che cosa deve e può fare. Concordo con
Habermas quando afferma che in una società pluralista e multiculturale il
garante di ciò che è giusto non può essere né una religione, né un partito, né
alcuna forza esterna, ma il consenso deve avvenire attraverso un dialogo ove
tutti hanno la possibilità di esprimere il proprio parere. Una verità del
consenso, che nasce orizzontalmente e che sempre ha la possibilità di
rinnovarsi, di rimodellarsi a partire dalle nuove esigenze. Può sembrare una
verità debole, ma è la sola che possa rispettare il cammino di tutti. La chiesa
contaminata è per l’appunto la chiesa che accetta di confrontarsi alla pari con
le opinioni altrui, che non impone la propria, anche se la può vivere
all'interno delle sue comunità.
Ciò significa che il mondo
postmoderno non ha più bisogno di liturgie pompose, di piviali decorati, di
pontificali maestosi, di mitrie dorate, di vescovi imbalsamati dentro camici
inamidati: non rappresentano altro che la fine di un’epoca che ci sta ormai
alle spalle e che non ritornerà più (per lo meno speriamo). Le liturgie delle
quali il nuovo contesto culturale ha bisogno per comprendere la forza del
Vangelo, dovrebbero manifestare quell'orizzontalità che Gesù ha dimostrato
quando camminava per le strade di Nazareth, quella circolarità che rivela il
desiderio di uguaglianza tra tutti coloro che sono attorno all'altare, quell'attenzione
ai rifiutati della storia, segno della misericordia del Padre. Liturgie dove il
celebrante non ha bisogno d’indossare paramenti che marcano una differenza di
grado, ma gli abiti quotidiani che indicano una relazione di prossimità e di
eguaglianza. Liturgie dove si celebra ciò che si vive: è di questo che abbiamo
bisogno.