Paolo Cugini
È possibile pensare e percepire Dio
al di fuori delle categorie metafisiche della filosofia occidentale che da
sempre lo descrivono nei termini ontologici dell’Essere? Ci ha provato il
filosofo francese Jean Luc Marion a liberare Dio dalla prigione dell’essere. Forse,
però, non c’è bisogno di scomodare la filosofia per capire che Dio è al di là
delle nostre griglie concettuali.
La percezione di Dio avviene, prima
di tutto, nella storia personale di una persona e, quindi, nell’orizzonte delle
percezioni sensibili, interiori ed esteriori. Non arriviamo a Dio perché dimostriamo
razionalmente la sua esistenza, ma perché ne percepiamo la presenza. Arriviamo
a credere in lui perché, per certi aspetti, lo vediamo, lo sentiamo, ci
accorgiamo che c’è qualcosa di nuovo, di qualitativamente differente. E,
allora, più che dimostrare la sua esistenza con argomenti razionali, lo
testimoniamo, perché lo abbiamo visto, sentito, percepito. Se l’argomentazione
razionale ha bisogno di una logica ferrea, si sillogismi ben articolati che
giungo ad una conclusione che non lascia spazio al dubbio, ben differente è ciò
che procede dalla testimonianza.
In primo luogo è sempre personale,
soggettiva. Ciò non significa che abbia una validità minore rispetto ad una
prova che ha un fondamento esclusivamente oggettivo, come un’equazione
matematica. Stiamo, infatti, parlando di Dio, il quale non può essere incasellato
da alcuna argomentazione, nel senso che di Dio c’è sempre qualcosa che ci sfugge,
che rimane fuori dal nostro orizzonte di conoscenze. Questo è un aspetto
importante da considerare. Nessuno può avere la presunzione di sapere tutto di
Dio, o comunicare in modo apodittico qualcosa di Lui. Ogni volta che parliamo
di Dio, dobbiamo imparare a toglierci i calzari, come fece Mosè quando si avvicinò
al roveto ardente dove vide la presenza di Dio.
In secondo luogo, Dio non si
manifesta con fattezze umane. Lo chiamiamo Padre per comodità di espressione
filtrata dalla cultura patriarcale. Dio non ha sesso, né genere. Di Dio
possiamo solo parlare per supposizione, per approssimazione. Per difetto,
dunque. Possiamo condividere quella particolare esperienza sensibile così
diversa dal punto di vista qualitativo e, spesso emotivo, che la chiamiamo Dio,
senza sapere bene di che cosa si tratta. Chi può discernere le nostre
impressioni e verificarne la bontà, possono essere solamente coloro che
provengono dallo stesso tipo di esperienza, che hanno un vissuto simile da
condividere.
C’è, poi, la sua Parola, quella che
si trova scritta nella Bibbia e che viene definita Parola di Dio. Anche questa,
però, va filtrata, verificata, perché ripiena di elementi culturali dell’epoca
in cui è stata scritta. Dio si rivela e lo fa utilizzando la cultura del tempo
per potersi comunicare con quegli uomini e con quelle donne. I testi che
leggiamo nella Bibbia sono ripieni di elementi culturali specifici del periodo
in cui è stato scritto quel testo in particolare. Riusciamo a cogliere la
verità della Parola rivelata sia attraverso il lavoro degli esegeti, che
attraverso l’esperienza personale, che ci permette di riconoscere il Signore ascoltato
nella Parola, con quello incontrato nella vita.
Dire Dio in questo particolare
frangente della storia, che in pochissimi decenni ha smantellato la fragilità
dei sistemi razionali, che alla distanza si sono dimostrati incapaci di
descrivere il Mistero, significa il coraggio di piegare le sbarre arrugginite
della metafisica, che per secoli hanno preteso di rinchiudere il Mistero e così
liberarlo, permettendo alle persone libere d’incontrarlo per come si manifesta
e non per come lo si rappresenta.
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