martedì 29 marzo 2022

SOCIAL FORUM MUNDIAL 2022 MEXICO 1-6 MAGGIO

 



Lettera di invito a organizzazioni e movimenti in tutto il mondo.

 

Diverse sono le iniziative che cercano di incanalare l'incertezza e il malcontento prevalenti per costruire un movimento globale e trasversale, capace di superare il capitalismo neoliberista, patriarcale, razzista, guerrafondaio e predatorio.

 Purtroppo oggi ci troviamo di fronte a scenari ancora più drammatici di prima, e gran parte dei movimenti sociali ancora attivi nel mondo sono disgiunti su scala globale.

 Trovare opportunità per riarticolare la nostra resistenza e le alternative è la sfida più grande e più importante. Il World Social Forum, che quest'anno celebra il suo ventesimo anniversario, è uno spazio di processo in cui contribuire ad affrontare questa sfida. Per questo ci troviamo in un nuovo FSM 2022 che cerca di culminare in un evento planetario a Città del Messico, che permette di ampliare la voce e le articolazioni dei diversi movimenti che operano nella costruzione di alternative al mondo in in cui viviamo e progrediamo nella costruzione di un soggetto sociale globale.

 Una nuova edizione planetaria del Forum Sociale Mondiale a Città del Messico svolgerà il suo ruolo con la necessaria rilevanza politica solo se prendiamo in considerazione la realtà attuale e riusciamo a rafforzare le nostre articolazioni per portare avanti i nostri sogni e le nostre utopie e costruire agende trasformative comuni.

 È il senso degli Obiettivi che sono stati formulati per l'agevolazione di questa edizione 2022 

 È per questo motivo che le organizzazioni e i movimenti sociali messicani che hanno deciso di costituirci nel Comitato di Facilitazione del FSM, quelli che fanno parte del Consiglio Internazionale del FSM e altri che si sono riuniti in uno spazio di movimenti globali.

 Mai prima d'ora la necessità di una maggiore cooperazione e convergenza è stata più evidente di quanto lo sia oggi. Rafforzeremo l'unione di idee e azioni per cambiare il mondo. La grave realtà che affrontiamo richiede questo impegno da parte di tutti. Contiamo sulla vostra partecipazione. 


Link utili: https://wsf2022.org/ 


sabato 19 marzo 2022

POST-TEISMO E CRISTIANESIMO




Indicazioni metodologiche

Paolo Cugini

 

Il dibattito sul post-teismo si sta sviluppando su due fronti molto diversi tra loro. Il primo, si presenta come una sorta di resa dei conti nei confronti della religione, prendendo in questo modo, una deriva atea, di negazione di Dio, con sfumature nuove, ma sempre di ateismo si tratta. Il secondo, nel quale provo ad inserirmi, prende le mosse dalle provocazioni del post-teismo per tentare una lenta rilettura dei contenuti del cristianesimo con un linguaggio più attento alle dinamiche culturali dell’attualità. In fin dei conti promuovere un processo di decostruzione culturale, che ha offerto chiavi di lettura del sacro per molti secoli, non è semplice né indolore. In questa seconda prospettiva, alcuni punti metodologici, a mio avviso, vanno chiariti.

Il primo, è la percezione del fallimento della lettura metafisica del discorso su Dio e della sua pretesa di codificarlo in un sistema onnicomprensivo, a discapito della realtà. Valgono, a questo proposito, le parole di Paul Ricoeur quando sosteneva che, il simbolo religioso rivela la pluralità dell’essere, vale a dire che il sacro per come si manifesta offre prospettive pluraliste che prendono le distanze da ogni forma unilaterale dell’evento. La violenza prodotta dalla visione monoteista del sacro è la prova della negazione di ciò che intende manifestare e professare.  Il monoteismo biblico da una parte, come lettura teista della manifestazione del sacro e, dall’altra, l’interpretazione metafisica platonica e aristotelica prodotta dall’agostinismo prima e poi dal tomismo, hanno codificato il sacro all’interno di un reticolo concettuale predefinito. In questa prospettiva, Dio viene pensato (e non sperimentato) come un’entità le cui caratteristiche vengono prese direttamente dalla filosofia, vale a dire il sacro come entità perfetta e, dunque, immobile, onnipotente. Liberare il Mistero da questi reticoli concettuali che lo hanno posto come entità in contrasto con altre, è il difficile compito del percorso di decostruzione che il non-teismo sta proponendo. Questo percorso è di fondamentale importanza perché apre lo spazio alle diverse narrazioni del sacro prodotte al di fuori del contesto culturale Occidentale e ne permetterebbe le reciproche contaminazioni e i possibili contributi.

Il secondo punto da chiarire riguarda il momento d’inizio del processo di decostruzione del discorso teista sul sacro. Se si ritiene che espressioni come: l’al di là, il “cielo”, fanno parte della lettura teista della realtà, ciò significa che il punto di partenza per una riflessione non teista del Mistero deve avvenire nel piano della storia, degli eventi. Proprio l’attenzione a questo livello della realtà permette di percepire che non tutti gli eventi possono essere letti allo stesso modo perché non tutti esprimono gli stessi significati. Ve ne sono alcuni, infatti, che sfuggono a un’interpretazione di tipo logico-matematico, o scientifico. Il rischio è una lettura unilaterale che cade nello stesso errore della lettura metafisica della realtà o anche, nell’errore di prospettiva in cui è caduta la lettura scientifica del mondo proposta negli anni ’20 del secolo scorso dal Circolo di Vienna. In questa prospettiva, a mio avviso, vale la pena tener conto dello sforzo fatto dalla corrente fenomenologica che, mettendo tra parentesi qualsiasi tipo di precomprensione, si è posta in ascolto degli eventi storici che si manifestano nella realtà presente. Tra questi Jean Luc Marion ne individua alcuni che sono qualitativamente diversi e che lui chiama saturi.

Il passaggio ulteriore consiste nel mettersi in ascolto di coloro che hanno avuto esperienza di questi eventi saturi. Pensando al Nuovo Testamento è indubitabile che Pietro e gi altri discepoli, così come Paolo, Maria di Magdala e le altre donne citate nelle narrazioni delle apparizioni del risorto abbiano avuto e vissuto un’esperienza di un evento straordinario. Sono, infatti, passati da sentimenti negativi e di ripudio (rinnegamento, tradimento) nei confronti del messaggio di Gesù, alla disponibilità di morire per lui. Senza dubbio, qualcosa di strano, per così dire, di qualitativamente diverso rispetto all’orizzonte materiale degli eventi storici, è avvenuto. Il problema è capire che cosa sia avvenuto e cioè, il contenuto espresso in questi eventi, tentando di rileggere queste situazioni in modo non teista.

Se qualcosa di qualitativamente diverso è avvenuto nella testimonianza che offrono questi personaggi, rispetto all’orizzonte materiale degli eventi storici che abbiamo a disposizione ogni giorno, possiamo parlare di rivelazione, cioè di un contenuto che viene da altrove, che non può essere letto e interpretato in modo storicista e materialista? Secondo Jean Luc Marion si, perché l’evento saturato è nell’ordine della rivelazione. Non mi sembra che l’analisi di Marion sia da inquadrare nelle letture teiste del sacro.

Da qui allora la domanda finale: l’ammissione di eventi rivelati portatori di contenuti altri, testimoniati da coloro che ne hanno avuto esperienza, può essere in linea con una lettura non teista del sacro e avviare il processo di decostruzione delle sue interpretazioni metafisiche? Detto in altri termini: può una lettura non teista della realtà rinunciare o mettere da parte gli eventi rivelati senza correre il rischio di essere pre-concettosa e cadere nelle stesse paludi delle letture metafisiche e unilaterali della realtà e riproporre una nuova forma di dualismo?

venerdì 18 marzo 2022

CONTAMINATA? LA CHIESA IN UN CONTESTO POST-CRISTIANO

 



Paolo Cugini


Diversi aspetti del processo di contaminazione culturale li vediamo già in atto non solo nell’universo culturale come l’arte o la letteratura, ma anche nelle situazioni esistenziali. Gli artisti della contaminazione sono i giovani. Si lasciano contaminare in continuazione e senza problemi perché, per loro, non esistono valori assoluti o non negoziabili. Si negozia tutto perché tutto è negoziabile. Non è un giudizio di valore, od etico: è una presa di coscienza. Le nuove generazioni sono nate nel nuovo contesto tecnologico che li sollecita alla velocità di cambiamento e di adattamento, che richiede libertà nei confronti del passato, delle sue tradizioni e dei suoi valori. Se sino a qualche decennio fa sin da bambini si faceva di tutto per inculcare i valori ritenuti fondamentali per vivere in un preciso contesto culturale, oggi il principio di sopravvivenza non è radicato nel passato, ma nella capacità di abitare i mondi che si manifestano nel presente. Siccome non ci sono maestri in questo nuovo percorso educativo, sono loro stessi ad ingegnarsi, a provare, a scoprire nuove possibilità e combinazioni. Ancora una volta, se nel passato l’istinto di sopravvivenza agiva sull’importanza di obbedire ai principi culturali ritenuti fondamentali, per le nuove generazioni è possibile sopravvivere solamente assorbendo la novità, modificando rapidamente i punti di riferimento, per non correre il rischio di rimanere indietro, incapace di cogliere le novità.

La chiesa entra in questo contesto liquido e contaminabile, come un corpo duro, impenetrabile e, di conseguenza, perdente, nel senso letterale del termine, destinato a scomparire o, perlomeno, a rimanere un pezzo più o meno sofisticato da museo. È una struttura lenta e, quindi, impossibilitata ad abitare la velocità postmoderna. Ci mette troppo tempo per prendere decisioni e, per questo, con il tempo, è divenuta una struttura inattuale, con delle proposte sul piano etico ed esistenziale inadeguate perché obsolete.  La chiesa si è così abituata nei secoli a determinare le leggi morali e spirituali della società in modo unidirezionale, che ritiene impensabile dover assimilare dei valori esterni. Nel tempo, è divenuta così autoreferenziale da essere incapace di mettersi in discussione: è un aspetto che non appartiene al suo codice genetico. La necessità di rispondere in modo deciso e fermo alle situazioni difficili incontrate nei vari periodi della storia, l’hanno progressivamente indurita. Per questo motivo, l’aspetto giuridico della struttura ecclesiale è divenuto, per diversi secoli, così preponderante da determinare le scelte sul paino etico. Allo steso tempo, per l’impianto teologico messo in atto per spiegare i propri contenuti, tra i tanti materiali a disposizione, la chiesa ha utilizzato quelli che potevano garantire la maggior solidità e durata nel tempo. Da narrazione degli eventi del fondatore, la teologia si è fatta sistematica, costruita in modo tale da non lasciare alcun tipo di spiraglio per l’immaginazione o la creatività. La caratteristica dei sistemi teologici e, in modo particolare, il sistema tomista, consiste proprio nel fatto che deve garantire l’impenetrabilità assoluta dal punto di vista concettuale, vale a dire, la capacità di rendere ragione di qualsiasi aspetto della vita, senza aver mai bisogno di correggere la prospettiva o le definizioni di tipo assiomatico da lei elaborate. Dinanzi a sistemi teologici siffatti, si deve solo apprendere, mai mettere in discussione: è impossibile. Proprio per questi motivi, la struttura ecclesiale in tutti i suoi aspetti giuridico, teologico, etico e burocratico non ha alcuna chance di sopravvivere nel mondo dei sistemi contaminati e contaminabili. Le strutture rigide si spezzano, si sbriciolano, vanno in frantumi.  

Occorre, però, fare immediatamente una distinzione. È lenta, anzi lentissima la struttura gerarchica della chiesa, gestita costantemente da persone anziane, che sono arrivate alla dirigenza proprio perché ponderate, moderate, dotate di quella saggezza che li conduce a mantenersi sempre dentro i binari della tradizione del passato, senza osare mai un passo in avanti.  Diversa, invece, è la base della chiesa, proprio perché fatta di persone che vivono quotidianamente in mezzo a mondi contaminati e in continua contaminazione. A questo livello e, cioè, al livello della Chiesa popolo di Dio, il futuro è possibile, perché anche se professano i valori non negoziabili che, all’interno del nostro quadro culturale, sono perdenti, nella realtà, nel vissuto quotidiano, agiscono in modo totalmente diverso, perché mossi dal loro istinto di sopravvivenza, più che dalla necessità di difendere dei valori. In fin dei conti, chi vive nei piani alti della chiesa, sopravvive indipendentemente da come si muove il mondo. È così abituato a lavorare sui massimi sistemi eterni, che gli elementi della contingenza quotidiana, non rientrano nei loro problemi e difficilmente si lasciano scalfire da essi. La mamma che deve amministrare una famiglia, un padre che deve far quadrare i conti, vive a contatto con mondi che costantemente sollecitano una velocità di decisioni tali da non permettere pensieri troppo profondi. E così, mentre nei piani alti, i gerarchi procedono per deduzioni, nei piani bassi, si procede per intuizione. Questa differenza di modalità di azione fa si che la comunità cristiana abbia la possibilità di lasciarsi contaminare e di interagire in modo propositivo con i mondi circostanti. Ho scritto che la comunità ha la possibilità e non che realizzi questa possibilità. Per farlo, dipende molto da dove è situata geograficamente. Più la comunità è distante dal perimetro geografico in cui ha sede la gerarchia, maggiore è la possibilità di interagire con i sistemi circostanti in modo libero. Una struttura centralizzata, infatti, come è la chiesa, non lascia molti margini di azione libera ai fedeli della comunità circostante. Non a caso, le esperienze più significative e creative dal punto ecclesiale del dopo Concilio, sono sorte a migliaia di chilometri di distanza da Roma, come ad esempio, le comunità ecclesiali di base in America Latina, tanto per citarne una.

Il dato più significativo, che mi sembra opportuno segnalare, è che questa modalità che potremmo definire contaminata, è iscritta nella proposta cristiana. Lo si vede già in atto nello stile di Gesù, che non teme la rivalità di coloro che operano il bene anche se non lo fanno nel suo nome, perché: non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi (Mc 9,39-40). La stessa intuizione la comprende Pietro quando, vedendo che lo Spirito Santo era sceso anche sul pagano Cornelio, afferma: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10, 34-35). È Gesù, dunque, che mostra il cammino di un’umanità aperta allo scambio con l’altro, all’accoglienza del bene e dell’amore che proviene dall’esterno dal proprio circolo di amici e amiche, proprio perché la comunità di amici e amiche che lo seguono non sono chiamati a difendere nessuna dottrina e nessuna fortezza, ma a vivere uno stile di amore senza frontiere. “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35). Non una dottrina, dunque, né un sistema teologico onnicomprensivo e nemmeno dei valori non negoziabili da difendere con i denti, ma un unico comandamento: amatevi gli uni gli altri. Per questo motivo, Paolo intuisce che nella comunità desiderata da Gesù, non c’è spazio per relazioni disuguali e ingiuste, perché: “non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). È il superamento di una visione protettiva e settaria della fede, che conduce ad uno stile di comunità aperto, accogliente, che interagisce con i mondi circostanti, capace di accogliere ciò che di buono c’è in ogni proposta, proprio perché non si tratta di difendere dei baluardi, ma condividere il tesoro dell’amore donato da Cristo. È la comunità che sorge spontaneamente dal basso, che trova nel Vangelo una luce per il proprio cammino esistenziale e, in questo cammino apprende a non temere di lasciarsi contaminare dagli elementi che provengono dall’esterno, perché ha imparato che lo Spirito soffia dove vuole e nessuno può pensare d’imprigionarlo (cfr. Gv 3, 8).

Dove dovrebbe essere visibile lo stile aperto e contaminato delle comunità cristiane? A mio avviso nella liturgia. L’umanità di Cristo è la sorgente dell’umanità della liturgia. La ricerca di una liturgia più umana non è semplicemente richiamare la dimensione etica della liturgia, né l’ennesima strategia pastorale, ma è di ordine teologico e, pertanto, essenziale se vuole essere liturgia cristiana e non un mero rito religioso come tanti. La nostra liturgia è cristiana se è conforme all’umanità di Gesù. È nella umanità della liturgia che si rivela la forza dell’amore di Gesù e, per questo, dovrebbe avere la forma del Vangelo, più che delle norme e delle rubriche, retaggio della struttura rigida. Ebbene, come abbiamo visto, uno dei tratti caratteristici dell’umanità di Gesù è la sua apertura, la sua libertà nel porsi dinanzi alle proposte esterne, ma anche nei confronti della religione del tempio, che critica radicalmente. In questa prospettiva, una liturgia che sa di Vangelo non dovrebbe essere preoccupata di riprodurre fedelmente delle indicazioni normative, ma di esprimere i tratti dell’umanità di Gesù inculturata nel particolare contesto in cui si celebra. È triste assistere a delle liturgie che non presentano alcun elemento di novità del luogo in cui viene celebrata, preoccupata solo di essere fedele alle norme. Belle invece e comunicative di contenuti, sono quelle liturgie in cui è visibile lo sforzo di lasciarsi contaminare, accogliendo elementi culturali e religiosi del luogo in cui la liturgia viene celebrata. È quello che diceva Papa Francesco a proposito del contributo dei popoli indigeni: “si tratta di raccogliere nella liturgia molti elementi propri dell’esperienza degli indigeni nel loro intimo contatto con la natura e stimolare espressioni native in canti, danze, riti, gesti e simboli” (Querida Amazonia, 82).

La chiesa che si lascia contaminare accogliendo al suo interno le provocazioni positive dei mondi circostanti, ha la possibilità di crescere, di trasformarsi e di contribuire nella costruzione di un mondo più giusto e più umano, in forza anche del suo patrimonio di valori. E così, mentre più rapidamente del previsto, si odono i rumori dello sbriciolamento della struttura ecclesiale formatasi nei secoli, sbocciano da tante parti quelle comunità cristiane che, come la semente di mostarda o come il lievito nella pasta, contribuiscono alla trasformazione del mondo permettendo che lo Spirito presente nei tanti cammini di pace, di giustizia e di amore presenti ovunque, contamini e trasformi coloro che vi aderiscono.

 

mercoledì 9 marzo 2022

CONTAMINAZIONE È IL FUTURO DELLA SOCIETA’

 



Paolo Cugini

 

Nel nuovo contesto culturale definito come post-moderno o post-secolarizzato, oppure anche postcristiano e post-teista, che da decenni sta prendendo piede in Occidente a ritmi vertiginosi, le strutture rigide sono destinate ad essere soppiantate. Una struttura culturale è rigida quando considera immutabili i principi su cui è retta e li difende contro ogni possibile contaminazione. Le strutture culturali rigide si sono costituite nel tempo in cui la vita presente era pensata come sussistente da principi metafisici, posti in un mondo e in un tempo oltre la realtà temporale e, proprio per questo, capaci di durare per sempre. È stata la struttura metafisica della realtà ad offrire i significati esistenziali per intere generazioni. C’è tutta un’arte, una filosofia, una politica e una religione che ha descritto queto stile di vita fondato sui valori metafisici eterni. La velocità dei cambiamenti in atto, elemento caratteristico dell’attale quadro culturale, richiede allo stesso tempo, la capacità di mettersi in discussione e di mettere sul tavolo le proprie idee e, in secondo luogo, la disponibilità ad entrare in dialogo, al confronto rapido. Le strutture di pensiero sistematico e dogmatico, così significative nel periodo medievale e moderno, non funzionano più, proprio perché non permettono la modificabilità necessaria richiesta dalle strutture di pensiero postmoderno. Ci vuole ben altro.

       L’attuale contesto, dunque non permette a nessuno di dormire sul sofà dell’abitudine, del “si è sempre fatto così”.  I punti di riferimento esistenziali vengono ricercati per la qualità della vita che possono offrire e, dunque, sul piano quantitativo piuttosto che qualitativo. Vale ciò che è buono ed efficiente nell’immediato, più che puntare sui significati eterni, quelli che durano – o sembrano durare – per sempre. È, dunque, proprio questo aspetto del “per sempre”, che è entrato in crisi e viene sostituito con il bene immediato. Occorre essere desti, attenti, veloci nel capire cambiamenti in atto, le novità del momento. Dura nel tempo ciò che si adatta al cambiamento, che sa cogliere le sintonie con i propri paradigmi culturali e non chi pensa di essere dotato di strutture metafisiche eterne e immutabili. Diviene proponibile quella realtà contaminabile, perché disposta a crescere mettendo a disposizione le proprie competenze, i propri punti di forza. Rimangono sul mercato della vita quelle realtà che hanno compreso che la possibilità di crescere e di migliorare non sta nel difendere a denti stretti il proprio patrimonio cultuale di valori, ma nel metterlo a disposizione e nel lasciarsi contaminare dagli altri mondi circostanti.

Questa primissima presa di coscienza ci porta a comprendere che non solo siamo immersi in un contesto di rete – lo sapevamo già -, ma che ogni organismo ha la possibilità di vivere o di sopravvivere imparando ad accogliere al suo interno elementi dei mondi che incontra. Non c’è possibilità di sopravvivenza per quella cultura che intende salvare la propria presunta purezza. Può sopravvivere, senza dubbio, ma come cimelio del passato, residuo storico da museo, senza alcuna possibilità di avere alcuna incidenza nel presente. Anche perché una caratteristica specifica della postmodernità è la vita nel presente come unica dimensione in cui c’è possibilità di esistenza. Se la caratteristica del pensiero medievale da una parte, e di quello moderno dall’altra con significati diversi, consisteva nel sacrificare il presente per una prospettiva positiva nel futuro, diametralmente opposta è la percezione del tempo nella postmodernità. Nessuno è più disposto a sacrificare qualcosa in vista di un futuro che non è più considerato come positiva prospettiva esistenziale. C’è solo questo mondo e questa vita a nostra disposizione e, di conseguenza, vale solo lo sforzo che migliori qualitativamente e anche quantitativamente il presente: il resto è tempo perso.

Per entrare in modo significativo in questo nuovo paradigma culturale sono necessari alcuni requisiti fondamentali, che potremmo definire principi epistemologici. Il primo, consiste nella disponibilità a riconoscere come valido e positivo alcuni elementi del mondo che incontriamo. Ciò comporta la presa di coscienza che il nostro mondo non detiene il coprite della verità e, allo stesso tempo, che c’è del buono e del vero anche nei mondi che incontriamo. Dal punto di vista cristiano questo requisito si traduce nella presa di coscienza che lo Spirito Santo agisce ovunque, non solo nella Chiesa cattolica. Ce lo ha ricordato il Concilio Vaticano II quando affermava che le smentì del Verbo sono sparse in tutte le religioni e tutte coloro che conducono i propri fedeli verso un’esperienza di amore dicono qualcosa del messaggio centrale del Vangelo. Giustino nel II secolo è stato il primo ad utilizzare l’immagine delle sementi del Verbo riferita non tanto alle religioni, ma alle culture, alle filosofie, a tutti color che prima e dopo di Cristo operano in favore del bene, della giustizia e dell’amore, indipendentemente dal fatto di appartenere alla Chiesa o di conoscere il Vangelo. C’è tanto amore, c’è tanta giustizia, c’è tanto bene nel mondo in tanti contesti che non sono controllati dalla Chiesa: grazie a Dio. C’è lo Spirito santo che agisce in ogni luogo, che è sempre all’opera per costruire un mondo di amore e di giustizia.

Il secondo requisito, che è una sorta di corollario del primo, anche se più complesso e problematico, consiste nella possibilità di fare spazio alla bontà, alla positività del mondo incontrato al punto di assimilarlo e permettere un cambiamento prodotto da un elemento esterno. Si tratta, in altre parole, del processo di contaminazione che esige la disponibilità a questa operazione. Assimilare un materiale che viene dall’esterno significa non solo riconoscerne la bontà, ma anche percepirne la possibilità di novità e di miglioramento per chi l’accoglie. Contaminazione, in questa prospettiva, significa disponibilità al cambiamento, al lasciarsi modificare e, allo stesso tempo, consapevolezza che si è entrati in un processo capace di modificare anche la struttura dalla quale si è ricevuto il contributo. Il processo di contaminazione, in altre parole, non è mai univoco, ad un’unica direzione: si cambia cambiando. Si lascia contaminare quella struttura che ha compreso che è l’unica possibilità per rimanere positivamente sul piano della storia presente.

Il processo di contaminazione per coloro che ne accettano la sfida, rivela un altro dato importante: c’è un’identità che non è data dalla difesa delle proprie roccaforti valoriali, ma che si definisce progressivamente con il tempo ed è in continua mutazione. Per comprendere questo aspetto dobbiamo prendere le distanze dal concetto d’identità elaborato nell’epoca moderna, che la identifica con modelli prestabiliti che devono essere raggiunti e salvaguardati. L’idea di contaminazione invita la struttura culturale a rimanere aperta, perché il suo significato profondo non sta tanto nei valori ereditati, ma nella disponibilità a lasciarli modificare da ciò che incontra. C’è una possibilità di vita buona che viene a noi incontro nella misura che siamo disponibili ad accoglierla e a lasciarci modificare da essa e, allo stesso tempo, a modificare noi stessi i mondi che incontriamo. Il concetto di contaminazione rivela l’idea di un mondo in continuo cambiamento, in continua trasformazione. L’identità forte, in questa prospettiva contaminata, non sta più nella difesa estrema di valori non negoziabili, ma nella loro messa a disposizione. È forte quella struttura che si lascia contaminare e che, in questo modo, è lei stessa fattore contaminante. 

 

giovedì 3 marzo 2022

RIPENSARE LA RISURREZIONE - INCONTRO CON PAOLO SQUIZZATO

 



Una Chiesa a Più Voci - Ronco di Cossato

  31 marzo 2021

 

 

Sintesi: Paolo Cugini

La risurrezione è fondata sulla fede e non sulle prove. È un atto di fede credere nella risurrezione. La risurrezione è realmente accaduta anche se non ci sono le prove che vorremmo.

Rom 1,3: Gesù morendo sulla croce Gesù è morto secondo la carne.

Figlio di David: indica l’uomo carnale. Paolo ha la consapevolezza che sulla croce è morto l’uomo Gesù.

1 Cor 15: si semina corruttibile, nella carne, si raccoglie l’incorruttibilità, lo spirito. Paolo con il linguaggio e l’esperienza di un uomo semitico, cerca di far passare che il Gesù risorto non è il medesimo che è stato crocefisso. È morto il Gesù di Nazareth sulla croce.

Gv 12: Il seme muore, poi spunta lo stelo che è totalmente altro dal seme marcio, ma è in continuità con il seme. C’è contraddittorietà e continuità. Ciò è quello che è avvenuto con Gesù di Nazareth e avverrà a ciascuno di noi. Noi marciremo, ma rinasceremo in un modo diverso, qualcosa che avrà un futuro, proprio da quel seme che è stato sepolto. Non è stato un atto magico la resurrezione di Gesù. C’è continuità perché la vita non può morire, ma si trasforma.

Gesù è entrato in un'altra dimensione che Luca chiama Gloria. “Per entrare nella sua gloria?”. È l’amore che ha trasformato Gesù. L’amore trasfigura, l’amore ti fa compiere il passaggio, la metamorfosi di tutto l’essere umano.

Nel NT si ha la consapevolezza che con la morte Gesù si è trasformato ed è divenuto il vivente, che è entrato in un’altra dimensione che Lc chiama Gloria. Come esprimere tutto questo, questa consapevolezza? Questa consapevolezza non è sorta subito tra i discepoli. La presa di coscienza che sulla croce è avvenuta una trasformazione, si presume che siano passati degli anni, C’è stata una lunga pausa di riflessione, al termine dei quali si è cominciato a scrivere i racconti di apparizione.

Nessuno di chi ha scritto i vangeli, tantomeno Paolo, ha fatto personalmente esperienza del risorto. Marco, ad esempio, scrive negli anni ’70. Quindi è nata una fede nel risorto in base alla parola trasmessa di generazione in generazione. Paolo è il primo a scrivere nel ’51. I primi testi di Paolo riguardo il risorto non sono trattati di teologia, ma piccole pennellate: 1 Ts 1,10: Gesù è morto e risorto. 1 Cor Paolo amplia: Gesù è risorto secondo le scritture. Quello che è successo non si sa. Le prime testimonianze scritte e, quindi, anche orali, non compare nessun sepolcro vuoto. Le modalità di come Gesù sia risorto non fanno parte del primitivo messaggio cristiano. La nostra fede non si basa sul sepolcro vuoto.

Col passare del tempo queste scarne pennellate si ampliano e si sente il bisogno di aggiungere qualcosa. Il primo ad ampliarlo è Paolo stesso: 1 Cor 15. È apparso a Cefa, ai Dodici, poi è stato visto. Cos’hanno visto?

Paolo dice che è stato visto anche da lui. Paolo sta ricordando la sua esperienza sulla strada di Damasco: At 9. C’è da presumere che quello di Paolo non sia stato un vedere con gli occhi, perché rimane accecato. Domanda: cos’ha visto Paolo? Cos’hanno visto i testimoni? Non sarà un’esperienza? Tutti l’hanno visto più che con gli occhi della carne, con gli occhi penetranti della fede. Il vivente è colui che continua ad essere operante nella storia.

Con gli evangelisti le pennellate sul risorto diventano degli affreschi. In Marco non ci sono i racconti delle apparizioni. Più ci si allontana dall’evento del Gesù storico, più aumentano le narrazioni sulle apparizioni di Gesù.

Matteo comincia ad ampliare: c’è un’apparizione che avviene al lago. Poi Luca ne mette tre di apparizioni tutte a Gerusalemme. Una di queste è i discepoli di Emmaus.

Giovanni scrive dopo Luca e abbiamo quattro apparizioni: Gerusalemme, Galilea. Aumentano i racconti, ma si sente la necessità di presentare un Cristo sempre più fisico.

Domanda: la chiesa primitiva ha sentito il bisogno di aggiungere materiale a fin di bene? Probabilmente per scopi catechetici. Forse, anche, per motivi liturgici.

Questo ampliare i racconti della risurrezione è lo stesso bisogno che la chiesa si è trovata di fronte ai vangeli dell’infanzia.

Gesù è veramente risorto, ma non perché lo hanno visto le donne, gli apostoli. Gesù è l’eternamente vivo perché le comunità della Palestina vivono del vivente.

1 Pt 2,4: queste comunità che sono sorte, sono il copro del risorto. La nostra vita è manifestazione del Cristo risorto.

Ortensio da Spinetoli: la resurrezione si rende credibile dalla testimonianza di vita dei discepoli.

Ammesso che le apparizioni siano affreschi dipinti delle prime comunità rimangono testimonianze profonde, anche se non sono storiche. Es: il figliol prodigo, è frutto della riflessione di Gesù, ma anche se non è storicamente avvenuto ha una grande forza per la vita dei cristiani.

Gesù è la vita che faceva fiorire e rivivere i morti. Abbiamo donne, uomini e bambini che hanno fatto esperienza di Gesù come possibilità di vita. Gesù era una persona speciale, al punto che lo chiamavano figlio di Dio.

Gesù è risorto per coloro che frequentandolo proferisce una nuova possibilità di vita. Gesù è risorto per coloro che sono risorti. Per chi vive da cadavere l’evento del risorto non dice nulla.

Panikkar: è il destino di tutti di trasformarsi.

Vangelo: Gesù lascia intendere che la metamorfosi spetta a chi ama, cioè chi ama risorge.

Vivendo il Vangelo si fa esperienza del risorto. La piena umanità di Gesù manifesta l’umanità. Gesù è Dio perché è pienamente uomo. La nostra è una religione dell’incarnazione e quindi siamo chiamati a giocare tutto sulle relazioni. Siamo chiamati a dare carne a Dio, lo facciamo presente amando. La sofferenza non è salvifica: è l’amore che lo è.

Ciò che salva è solo la sofferenza scaturita dall’amore.