Paolo Cugini
La
teologia, nella sua accezione più classica, è spesso associata a un sapere
accademico, sistematico, racchiuso tra le pagine di trattati e manuali che
stabiliscono i confini della dottrina cristiana. Eppure, come la pioggia che
scorre anche dove il terreno è più arido, esiste un modo di fare teologia che
germoglia proprio ai margini di questi confini: dove la vita reale pone domande
che i libri spesso non contemplano, dove la fede incontra la concretezza della
sofferenza, del dubbio, dell’esclusione. Fare teologia “ai margini” significa
spostare il baricentro della riflessione teologica dalle aule universitarie
alle strade, ai luoghi dove il dolore e la speranza si intrecciano giorno dopo
giorno. È una teologia che si fa prossima, che ascolta senza giudicare e
accompagna chi vive ai bordi dell’esperienza religiosa, spesso lontano dai
riflettori e dalle certezze offerte dalle istituzioni. Proprio nelle ferite
della storia umana la teologia trova nuovi orizzonti di senso.
Il
teologo che sceglie di camminare ai margini non si accontenta di contemplare il
Mistero da lontano, ma si lascia interrogare dai volti concreti di chi, pur
credendo profondamente, si trova escluso per ragioni dottrinali: separati,
divorziati, omosessuali, transessuali, lesbiche, persone segnate da vissuti che
non rientrano nelle regole. Sono storie di fede genuina che la Chiesa,
talvolta, ha lasciato fuori dalle proprie porte. Eppure, proprio là dove la
vita sembra deviare dai canoni, si manifesta una presenza inattesa e
straordinaria del Mistero. Paradossalmente, è nelle situazioni di marginalità
che la fede si rivela spesso più autentica, più radicale. Nei bassifondi della
storia, nelle periferie della società, il teologo attento percepisce una forza
spirituale che sfugge alle definizioni e alle etichette, ma testimonia la
vitalità della fede cristiana. Fare teologia ai margini vuol dire accettare la
sfida di pensare la fede a partire dalle domande concrete che emergono dalla
vita delle persone escluse, riconoscendo che la dottrina, pur essenziale, non
può esaurire il Mistero; che le regole, seppur necessarie, non possono
soffocare la sete di Dio che anima ogni cuore.
La teologia marginale si nutre di esperienze, di ascolto, di storie. In un tempo in cui molti vivono una distanza dalla Chiesa ma non dal desiderio di Mistero, questa teologia offre uno spazio di accoglienza e dialogo. Il vero teologo diventa allora colui che si lascia interrogare dalle ferite della storia, dalle domande di chi è stato messo ai margini, e non solo chi interpreta la dottrina. È la capacità di farsi prossimo, di “camminare insieme” – come suggerisce la parola sinodalità – che permette alla fede di continuare a parlare alla vita, anche quando la vita si svolge fuori dagli schemi consueti. C’è, dunque, una teologia in cammino che, sentendo il profumo del Mistero, lo riconosce nelle situazioni esistenziali più complesse, anche in quelle che la stessa dottrina ha contribuito a creare. Il teologo che ama il Mistero rivelato in Gesù si accorge della ricchezza nascosta in quelle storie marginali, che portano con sé un tesoro di conoscenza e di vita incredibile. Dalle situazioni di esclusione possono nascere nuove comprensioni della fede, nuove vie di comunione e di speranza. Fare teologia ai margini non significa abbandonare la dottrina, ma riconoscere che il Mistero di Dio supera ogni confine umano. Significa avere il coraggio di ascoltare le domande vere, di lasciarsi provocare dal dolore e dalla ricerca che abitano le periferie dell’esistenza. Solo così la fede può continuare a essere parola viva, capace di illuminare anche le notti più oscure della storia e di offrire, a chi si sente escluso, una casa dove il cuore può riposare.
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