ARCHIVIO BRASILE
Pintadas-Ba,
18 giugno 2011
Carissimi amici
del seminario di Reggio Emilia,
Giacomo mi ha sollecitato
di scrivere due righe per riprendere le riflessioni-provocazioni scambiate nel
nostro incontro lo scorso anno. Lo faccio volentieri, anche perché mi permette
di condividere un cammino con coloro che faranno parte della stessa famiglia
sacerdotale. Mi aveva dato come scadenza l’11 giugno: purtroppo non ce l’ho
fatta. Chiedo scusa.
1. La prima forte
provocazione che ho ricevuto dal contesto che ero chiamato a servire é stata la povertà. Chi arriva a Salvador – capitale della Bahia – rimane ben
impressionato per i palazzi sul lungo mare: sembra una città occidentale.
Spostandosi di poche centinaia di metri verso l’interno ecco apparire le
favelas, montagne di case, chiamiamole così, in cui si percepisce la presenza
di un’umanità che lotta tutti i giorni per la sopravvivenza. Arrivato nel
gennaio del 1999, dopo tre anni emmezzo di sacerdozio (sono diventato prete in
giugno del 1995), avevo cominciato a girare i quartieri poveri per cercare di
capire come viveva questa gente. Mi colpiva il niente che incontravo. Annotavo
sul mio quaderno tutto quello che stavo incontrando, un mondo totalmente nuovo
al quale non avevo mai pensato e nemmeno immaginato. Soprattutto non capivo
come riuscissero a vivere queste persone, senza un lavoro, senza un conto in
banca: come facevano a mantenere tanti figli?
Domande ingenue tipiche di colui che analizza una realtà con gli occhi
del mondo di provenienza, senza aspettare di ascoltare la realtà per come è. Mi
chiedevo anche come era possibile risolvere tutti i problemi che incontravo.
Questo impatto
con tanta povertà provocò in me tantissime domande sul senso della vita, del mondo,
sulla misericordia di Dio, l’ingiustizia umana, la disuguaglianza sociale. Non
riusciva a farmi una ragione del perché di tanta differenza, tanta
disuguaglianza. E allora decisi di incentivare quel percorso sul quale stavo
lavorando sin dai tempi del seminario: la preghiera personale. Siccome ero
ancora nella fase di conoscenza della lingua e della cultura, dopo cena, cioè
alle 18, potevo organizzarmi come volevo. Decisi cosi, di dedicare due ore
dopocena alla lettura di romanzi brasiliani, che mi permettessero di
comprendere meglio la cultura locale e di andare a dormire presto – verso le 21
– per alzarmi presto. La bellezza della preghiera mattutina é stata una delle
più belle scoperte della mia vita spirituale. Dedicare prima di aprire la porta
di casa due o tre ore al Signore, dà una forza interiore incomparabile. È stato
in questo primo anno di missione che mi sono innamorato della mistica
ortodossa. Cercavo, infatti, dei libri che mi aiutassero a vivere la
contemplazione, mi aiutassero a capire la vita nello Spirito. In un contesto di
grande povertà, frutto di una disuguaglianza sociale fuori di misura, mi è successo di avvicinarmi ancora di più al Signore, di cercarlo con tutte le mie
forze.
2. La seconda
provocazione che ho ricevuto nella diocesi di Ruy Barbosa è stata lo stile
di Chiesa e, di conseguenza, il modo di essere sacerdote. Como vi ho
raccontato, le parrocchie dalle nostre parti sono costituite da comunità,
chiamate comunità di base. Pintadas, per esempio, che è la parrocchia nella
quale vivo ora, é composta di cinque comunità nella città e 32 nella zona
rurale. La vita del sacerdote consiste accompagnatore la vita delle
comunità, sia celebrando l’Eucaristia e i sacramenti, che dedicando tempo per
la formazione dei liders di comunità. Passavo da una situazione ecclesiale –
Reggio Emilia – in cui in parrocchia c´’e una messa, o quasi, tutti i giorni,
ad un contesto, per esempio Ipirá che è una parrocchia formata da quasi 100
comunità, nelle quali si celebra l’Eucaristia
ogni due o tre mesi. Potete capire lo sconvolgimento mentale e spirituale che
ho vissuto i primi mesi. Da uno stile di
parrocchia fatto di piccoli movimenti – canonica, oratorio, piazza, chiesa – ad
uno stile di parrocchia fatto di distanze enormi; da uno stile di parrocchia
fatto di rapporti personali con persone che vedi quasi tutti i giorni, ad uno
stile di parrocchia dove incontri le persone 4 o 5 volte durante l’anno. Vacci
a capire qualcosa! Confesso che i primi mesi ho fatto molta fatica. Era come se
tutto quello che avevo appreso e vissuto non servisse assolutamente a nulla:
non è una bella sensazione. Il primo anno di Brasile é stato come morire,
seppellire quello che ero per fare il posto a qualcosa d’altro, Passare da una
parrocchia concentrata in poco spazio, il cui lavoro pastorale consiste
nell'attendere le persone che arrivano negli spazi pastorali, ad uno stile di
chiesa decentrato in territori spesso vastissimi (la nostra diocesi è grande
come l’Emilia Romagna e siamo 18 sacerdoti: ok?!). Per me si é trattato di una
vera e propria conversione pastorale: deporre il modello di Chiesa e di
sacerdote che avevo assimilato e vissuto sino a quel tempo, per assumerne uno
totalmente nuovo, che non conoscevo e del quale nemmeno avevo sentito parlare.
Altro dato
significativo del nuovo stile di Chiesa incontrato é la presenza dei laici.
Nelle comunità chi svolge un ruolo effettivo di guida sono i laici. Chi celebra
la Parola alla domenica, chi dirige il consiglio pastorale della comunità, chi
risolve i problemi nella comunità sono i laici, che esercitano una funzione
effettiva dentro la comunità. L’incontro con questo stile di chiesa
ministeriale e laicale dal volto femminile ( la maggior parte dei liders delle
comunità sono donne) mi ha aperto gli occhi sullo stile di prete che avevo
dentro e cioè autoritario e autoreferenziale. Nei nostri consigli pastorali
occidentali l’ultima parola spetta sempre al prete. In tutte le cose che
avvengono in una parrocchia é il prete che decide. Nelle nostre parrocchie
brasiliane o, meglio baiane, questo sistema non funzionerebbe. Il decentramento
della parrocchia nelle comunità di base, ha come conseguenza immediata la
necessità di valorizzare il laicato locale e, per questo, concentrare gli
sforzi sulla loro formazione permanente. A Pintadas, per esempio, c’è un
incontro mensile di formazione cristiana aperto a tutti, un corso di formazione
mensile per ministri della parola, ministri dell’Eucaristia, catechisti, in
giorni diversi. Oltre a ciò tutti i lunedì alla sera ci troviamo per leggere la
Bibbia assieme. Nelle comunità incontro persone e famiglie semplici, per lo più
contadini che lavorano nel piccolo pezzo di terra che possiedono o, spesso e
volentieri, lavorano nelle fazendas per guadagnare qualche soldo. Tutto questo
per dire che nelle comunità di base non incontriamo dottori, avvocati, banchieri,
professori. Sottolineo questo perché, per me, é uno dei grandi paradossi della
vita ecclesiale. Assumono, infatti, molto più responsabilità i poveri che
incontriamo nelle nostre comunità, persone che spesso sono analfabete o quasi, che
i professionisti delle parrocchie di Reggio Emilia. Chi ci capisce qualcosa è bravo. Aiutare i laici, che per la maggior parte dei casi dalle nostre parti
sono donne, a svolgere bene il loro servizio nelle comunità di appartenenza, é
la nostra grande sfida. Apprendere a deporre lo scettro per concederlo a coloro
che vivono nella comunità é un esercizio spirituale che fa molto bene al
ministero. Un ministero sacerdotale più di servizio, più attento a stimolare i
carismi delle persone incontrate e meno concentrato su di sé, sulle proprie
capacità, sul “potere” ricevuto: fa molto bene alla Chiesa e al mondo . Per me
non si tratta di esportare un modello di Chiesa, ma di scambio di doni. Un dono
bellissimo che la Chiesa Latinoamericana ha da offrire alla Chiesa Cattolica é
questo modo di vivere la comunità, di valorizzare le persone e d’intendere il
ministero sacerdotale. Una Chiesa piú democratica e meno autoritaria guadagna
in umanità e perde in arroganza. E poi fa molto bene a noi preti, che ci
sentiamo investiti di chissà quali poteri e, in virtù di questi trattiamo i
laici spesso e volentieri come delle marionette.
Anche con i
giovani il lavoro pastorale é diverso. Non possiamo organizzare campeggi,
settimane bianche o gialle, ritiri spirituali di tre giorni da qualche parte,
viaggio a Madrid con il Papa, per il semplice fatto che le famiglie non hanno
condizioni economiche per sostenere simili esperienze. Inventare qualcosa di
valido e formativo con i mezzi che ci sono a disposizione: é questa la grande
sfida della pastorale giovanile dalle nostre parti. Oltre a ciò, la difficoltà
maggiore del lavoro pastorale con i giovani è il fenomeno migratorio. Nelle
nostre città del Nordes baiano non c’è nulla. E allora i giovani verso i 16/17
anni, terminate le scuole superiori – che in Brasile durano solo tre anni – se
ne vanno nelle grandi città (San Paulo, Rio de Janeiro, Brasilia, Salvador,
ecc.) in cerca di opportunità migliori di vita. Ciò significa che tutti gli
anni il lavoro di pastorale giovanile deve ripartire da zero, o quasi. Facciamo
fatica ad organizzare un cammino vero di accompagnamento spirituale con i
giovani. Quasi non esiste la confessione ( il perché ve lo spiego un’altra
volta), la direzione spirituale non si sa cosa sia (ho provata a metterla in
piedi nella prima parrocchia che ho accompagnato, ma ho capito che chi ha a che
fare con problemi di immediato interesse, non ha molto tempo da dedicare alla
vita spirituale). Come strumenti formativi ho messo in pedi alcuni progetti tra i quali segnalo uno studio
biblico per giovani che sto realizzando nelle comunità. Altro dato importante.
Quando parliamo di giovani dalle nostre parti ci riferiamo soprattutto agli
adolescenti di 13-17 anni. Dopo questa data è difficile seguirli. Molti si
sposano presto (più che altro si mettono insieme, anche perché lo sposarsi
presuppone un progetto di vita che le scarse condizioni economiche non permette
di elaborare), altri, come ho già detto vanno via e, chi rimane, si deve
arrangiare per riuscire a fare qualcosa. Se la pastorale vocazionale ha fatto
fatica a decollare nelle parrocchie della nostra giovane diocesi (52 anni!), è anche dovuto alla difficoltà di un lavoro pastorale formativo a lunga distanza
con i giovani.
3. La solitudine. Ci sono delle giornate
che non passano mai, sembrano infinite, lunghissime. In un contesto poi che non
offre nulla, la situazione diventa ancora piú pesa. Ho scoperto sulla mia pelle
che non è vero, come dicono alcuni saggi, che la preghiera risolve tutto. Ci
sono, infatti giorni, che neanche la preghiera sembra bastare. Ho passato
giorni che avrei avuto voglia di scambiare chiacchiere umane con persone normali.
Ho passato serate che mi sarebbe piaciuto giocare a briscola in compagnia di
amici. Il problema è che in contesti di povertà, come sono i nostri, è difficile instaurare rapporti alla pari, disinteressati di amicizia. Chi ci
cerca é sempre per qualcosa di materiale e, alla distanza, pesa, soprattutto
svuota. Per questo, dopo tanti anni di missione le persone amiche le conto
sulle dita di una mano. Ci sono delle situazioni nella missione che ho scoperto
solamente sul posto: una di questa é la solitudine. Ho impostato la missione in
modo tale da essere sempre in mezzo alla gente. Ma ció non significa nulla, o
quasi. Anche tra noi preti in missione è difficile incontrarci: le distanze
sono enormi. Quando ci troviamo é sempre un momento molto bello e piacevole. Anche
in questo caso per sopperire alla difficoltà di rapporti umani autentici ho
incentivato il rapporto con il Signore, dedicando settimane di deserto in
alcuni monasteri della regione. Come ho già scritto sopra non sempre la
preghiera riesce a sopperire alla mancanza di rapporti umani veri. Per questo
coltivo i pochi rapporti che sono riuscito ad intessere qui e i pochi che si
sono mantenuti con l’Italia. Quando ero in Italia e sentivo la notizia di
qualche prete che si sposava rimanevo profondamente scandalizzato. Ora, vivendo
qui, in una realtà spesso disumana, fatta di rapporti interessati, non mi
scandalizzo più. Come diceva Totó: siamo uomini e non caporali! Su questo punto,
tanto delicato, avrei voglia di scrivere altre cosette, ma le lascio per una
prossima occasione.
Dai sacerdoti
baiani ho imparato a rilassarmi, a prendermi i miei tempi (anche se rimango
strutturalmente una persona tesa). Nei primi cinque anni di missione non mi
sono praticamente schiodato dalla parrocchia, vittima della spiritualità del
sacrificio, o meglio del massacro ereditata a Reggio Emilia. Poi mi sono
svegliato. Qui dalle nostre parti nel mese di gennaio (che corrisponde al mesi
di agosto italiano) si chiude la
baracca. Le suore vanno nelle case madri delle congregazioni e i preti vanno in
ferie a trovare amici e parenti. Questi preti sono venuti su in un modo e in un
mondo differente, valorizzando i momenti umani della vita. Non c’è bisogno di
spiegare ai preti che incontriamo nelle parrocchie baiane che sono uomini: lo
sanno benissimo. Mi ricordo l’impressione sconvolgente che ho avuto
partecipando di una festa di lettorato e accolitato in seminario a Feira de Santana.
Dopo la cerimonia solenne svolta con tutta la pompa necessaria al caso, è iniziata la festa nel cortile del seminario. E qui la festa bisogna intenderla
nel senso letterale della parola. Sono rimasto impietrito vedendo sacerdoti,
seminaristi, suore parenti e amici ballare sorridenti! Qualcuno aveva avuto il
coraggio d’invitarmi e io, un pó indignato, ho declinato l’invito. Il vescovo André e l’Arcivescovo di Feira Santana erano presenti, non ballavano, ma
chiaramente approvavano. È la cultura. Contesti differenti in culture
differenti dalle quali c’è sempre da apprendere qualcosa. Un ministero un pò più umano non significa meno santo.
Questa è stata una delle scoperte più belle della missione, che senza
dubbio voi sapete già. E così, come dicevo, mi prendo i miei tempi, come fanno
i sacerdoti baiani. Nel mese di gennaio - che é il mese nel quale le mie
parrocchie lavorano di più a causa dei progetti che in questi anni ho messo in
piedi – ne approfitto per un pò di preghiera e per aggiornarmi. Il mese di
gennaio é anche il periodo dei Forum Sociali ( ho già partecipato a due Forum
Sociali Mondiali, uno regionale e uno continentale), che si sono rivelati
esperienze stupende, sia per le nuove conoscenze che si riescono ad intessere,
sia per i dibattiti che avvengono. Sempre in gennaio, poi avvengono gli
incontri dei preti Fidei Donum presenti in America Latina o in Brasile, tutte
occasioni utili per scambiare esperienze e respirare aria nuova. Non so se,
tornando in Italia, riuscirei a prendermi i miei tempi. Da un lato, c’è la
spiritualità del sacrificio che ci frega, dall'altra ci sono i laici che non
ti lasciano respirare. Quando la scorsa domenica ho annunciato che nel mese di
luglio sarei andato a visitare mia sorella, che vive a Toronto, varie persone
si sono avvicinate dicendomi: “Padre, ci porti con lei nella valigia!”. Se fossi
stato in Italia probabilmente mi avrebbero detto: “Sei sempre in giro”. In una
parrocchia nella quale i laici assumono i servizi pastorali come funerali,
battesimi, matrimoni, celebrazioni, il prete può anche permettersi il lusso di
visitare i parenti e, ogni tanto ritirarsi per aggiornarsi un pó. Meditate
gente, meditate.
4. Mi ricordo che
nell’incotro che avevamo avuto qualcuno mi aveva chiesto perché ho chiesto di andare in
missione. In realtà non ho mai desiderato di andare in missione, anche
perché ho sempre avuto dinnanzi, sin da piccolo, il modello di prete diocesano,
che mi bastava e avanzava. Quando negli anni settanta e ottanta passavano in
seminario nel mese di ottobre i missionari, quel modo di essere sacerdote, che
loro presentavano, non mi attraeva più di tanto. Anche durante gli studi di
teologia il mio ardore missionario non era molto elevato. Tutto è cominciato
quando, durante la preparazione al diaconato, ho deciso di dare la
disponibilità anche per le missioni diocesane, più per un entusiasmo del
momento, che per una vera convinzione missionaria. Dopo due anni di sacerdozio,
nella quaresima del 1997, mi aveva colpito un articolo apparso sulla Libertà di
don Luciano Pirondini, che a quel tempo era direttore del Centro Missionario,
in cui si lamentava del fatto che pochissimi sacerdoti avevano dato la loro
disponibilità per le missioni diocesane. Il giorno dopo andai direttamente al
Centro Missionario per parlare con don Luciano e lui mi invitò di rinnovare la
mia disponibilità alle missioni con il vescovo. Detto e fatto. Fu così che l’anno
successivo, era il febbraio del 1998, il vescovo Paolo mi chiese se ero
disponibile ad andare in Brasile a sostituire don Antonio Davoli, che aveva
chiesto di rientrare dopo 17 anni di missione. Ricordo la sensazione di freddo
polare che entrò dentro di me, sensazione di qualcosa che avrebbe cambiato
radicalmente la mia vita. Il Signore si serve proprio delle briciole che gli offriamo
per realizzare il so progetto.
Vi saluto,
augurandovi di passare gli esami (in bocca al lupo) e di trascorrere sane
vacanze. Aquele abraço
Pe Paolo Cugini
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