Paolo
Cugini
La carità che viene da Dio e che, in modo
speciale, si è manifestata nella vita di Gesù Cristo è gratuita e si avvicina
all’altro come cura. Gesù quando cura qualcuno nel Vangelo lo rialza, gli
permette di alzarsi e camminare con le proprie gambe e così continuare il
cammino da solo. La carità di Gesù non schiaccia il povero nella sua povertà,
ma gli permette di uscirne. La carità che scaturisce dallo Spirito del Signore
non genera dipendenza. Lo si vede molto bene nella parabola del buon samaritano
(cfr. Lc 10, 29-37). La compassione è il prodotto di un vedere che mostra
attenzione per l’altro. La compassione del samaritano, che è agli antipodi
della pena, si manifesta in un movimento di avvicinamento, di una serie di
gesti che rendono visibile il desiderio di riportare il povero sfortunato
incappato nei briganti e malmenato, alla situazione di autonomia. Il denaro che
il samaritano offre all’albergatore avviene dopo tutta una serie di gesti che,
come abbiamo visto, manifestano cura, attenzione, in altre parole: amore. In
questo breve passaggio del Vangelo diviene evidente che il denaro in sé e per sé
non risolve il problema dell’indigenza.
É
necessario un vedere il povero e non solo un passarci vicino. Un vedere che
provochi l’interessamento all’altro, un cammino di reprocità, che ci metta in
condizione di condividere il tempo, l’intelligenza per capire che cosa occorre
fare e poi, anche ciò che abbiamo di materiale. La condivisione materiale
dev’essere sempre preceduta dalla compassione con l’altro, da un cammino di
empatia con chi soffre, altrimenti l’incontro con il povero si riduce alla
pena. Gesù tutte le volte che entra in contatto con il povero è mosso dalla
compassione, che è il contrario del sentimento di pena. Mentre, infatti, il
sentimento di compassione ha come centro d’interesse l’altro nella sua
situazione di povertà e s’interessa per farlo uscire da questa situazione, il
sentimento di pena è centrato su se stesso. Chi è mosso da un sentimento di
pena non è interessato a risolvere il problema dell’indigente, ma a soddisfare
un bisogno personale, che nel caso in questione significa mettere a posto la
propria coscienza compiendo un gesto immediato con scarsissime conseguenze sul
futuro.
C’è
tutto un modo di fare carità che dice chiaramente da che percorso spirituale
veniamo. C’è un altro testo che ci può aiutare a cogliere il metodo di Gesù nel
suo relazionarsi con i poveri. È il famoso testo della moltiplicazione dei pani
e dei pesci. Con i poveri non si scherza, quando li si incontra non li si può
semplicemente imbambolare con delle parole, ci vuole del pane, cioè, bisogna
inventare qualcosa. Questi versetti del vangelo di Matteo (14, 13-21) insegnano
che il cammino che i cristiani percorrono per aiutare i fratelli e le sorelle
più poveri non è lo stesso di quello che percorre il mondo. C’è un metodo che è
differente. Da una parte, allora, non si può stare con le mani in mano dinanzi
a tante situazioni di miseria; dall’altro l’azione sociale che il cristiano è
chiamato a realizzare procede in un modo tutto speciale. Difatti, se il mondo
entra nel mondo dei poveri dando le cose, il cristiano, sull’esempio di Gesù,
se le fa consegnare. C’è da compiere un lungo cammino d’ incarnazione, che è
allo stesso tempo un cammino di morte, per farsi consegnare dagli stessi
poveri, il pane da spazzare con loro, per restituirglielo benedetto. Il mondo
entra nelle realtà dei poveri con l’arroganza di colui che sa già tutto e che
tutto deve dare e insegnare.
Noi
cristiani dovremmo entrare nel mondo dei poveri così come Gesù ha fatto con
noi, e cioè in silenzio, aspettando molto tempo prima di dire una Parola e
rivestire continuamente di silenzio questa parola. Se il mondo entra con
arroganza nel mondo degli altri non ascoltando nessuno e credendo che ogni
proprio gesto, ogni proprio dono sia il giusto necessario che i poveri stanno
aspettando e che quindi devono senza dubbio ringraziare, il cristiano al
contrario entra nel mondo dell’altro in punta di piedi, mettendosi in ascolto,
per cercare di aiutare il povero ad aprirsi, a consegnare i suoi problemi e da
quel punti di partenza, iniziare a rispondere. La relazione con i poveri deve
precedere la materialità delle cose da dare. Può essere un discorso semplicistico,
ma corrisponde alla realtà che Gesù ha indicato. Certamente la relazione come
priorità non significa che dobbiamo esaurire il nostro rapporto con i poveri
nelle chiacchere. In ogni modo Gesù ci insegna che tutto dev’essere preceduto
dall’attenzione all’altro, dalla cura delle relazioni. L’atro dato importante
nel cammino verso i poveri consiste nella capacità di coinvolgere le persone
che ci sono vicine, così come ha fatto Gesù che h coinvolto i suoi discepoli:
date loro voi stessi da mangiare. È un imperativo che rivela un dato
importante, vale a dire che è la comunità la prima responsabile dei poveri che
vivono sul suo territorio. Ciò significa che il cammino verso i poveri non può
essere delegato a qualcuno e, allo stesso tempo, che la bontà e la sensibilità
di qualcuno non possono mai sostituire la comunità, che dev’essere sempre
coinvolta. Troppe volte il discorso caritativo è vissuto come un atteggiamento
isolato di qualcuno che si sente realizzato con questo. Aiutare le persone
della comunità a vivere la carità come un dono del Signore e non come una
soddisfazione personale per soddisfare la propria coscienza è la prima carità
che possiamo realizzare all’interno della comunità stessa.
Arrivo qui dopo aver sentito quello che ha fatto il santone di Miggiano e letto la tua "Lentezza della discesa".
RispondiEliminaMa siamo sicuri che il SerPente ci ha fatto mangiare il frutto della Conoscenza del Bene e del Male o è stato così scaltro da darci quello della VITA, così da far credere questo anche all'ambiguo Dio creatore di qualcosa che è ambigua anche la Sua stessa sostanza, compreso noi?
Che senso ha aver creato il MALE? E il Ser Pente stesso e una sua creatura?
Domande che mi scivolano via perché AMEN interessa CHI seguire.
Per adesso SEGUO TUTTI i perseguitati finché non vengano liberati tutti da un Dio che deve pur indicarci il motivo della Sua invidia nei nostri confronti.
La storia di Giobbe mi ha aperto gli occhi su cosa cercava Satana di imparare da quel povero umano, testardo e perseverante nel BENE.