Paolo
Cugini
L’interpretazione
riconosce che ogni contenuto, come ogni fenomeno, si manifesta nella storia.
Anche lo stesso dato rivelativo riconosciuto dalla tradizione ebraico-cristiana
non sfugge a questa intuizione. Ciò significa che per cogliere il significato del
fenomeno che s’intende conoscere occorre ripulirlo dai contenuti culturali
presenti nell’epoca in cui si è manifestato. Riconoscere il dato storico degli
eventi sembra una cosa banale, ma tanto banale non è. Lo stesso vale per i
contenuti di tipo filosofico, scientifico, teologico. Affermare che ogni tipo
di verità deve passare il vaglio dell’ermeneutica e della critica storica, è un
passaggio che non tutti accettano. Com’è possibile, infatti, sostengono i
detrattori dell’ermeneutica, che affermazioni indicate con il titolo di verità
debbano assoggettarsi ad una verifica di tipo ermeneutico? L’obiezione deriva
da un pregiudizio di fondo che è, allo stesso tempo, un errore di prospettiva.
Il
problema, a questo punto del discorso, che può essere posto è il seguente:
esistono verità che incontriamo nella storia è che non vengono intaccate dal
fluire del tempo? Esistono delle verità nella storia che permangono immobili,
sempre le stesse, in ogni epoca? In altre parole, esistono delle verità che non
dipendono dallo sguardo e dalla interpretazione di qualcuno? La risposta a
questa domanda è complessa e non immediata. Senza dubbio le verità di tipo
matematico corrispondono a questa immutabilità. Che due più due fa quattro è un
dato immediato e incontrovertibile. Lo stesso non si può dire per le verità
religiose. Dio rimane un oggetto difficilissimo da dimostrare. Ha bisogno di
una coscienza che lo percepisca e ne condivida l’esistenza. La teologia
cattolica si è servita di strumenti della filosofia e, in modo specifico, della
metafisica per sostenere l’oggettività del dato rivelato, per arrivarne a
dimostrare la sua immutabilità, onnipotenza, onniscienza. La metafisica, però,
non ha nulla di scientifico, di apodittico o assiomatico; le sue proposizioni
sono tutte proiezioni artificiali umane. Tutte le volte che la cultura
occidentale ha preteso di rendere oggettivo e immobile il discorso su dio, ha
costruito un idolo che, con il passare del tempo, si è corroso.
Forse
il cammino di coloro che cercano a tutti i costi qualcosa di oggettivo su cui
appoggiare le proprie insicurezze potrebbe essere quello d’imparare a confrontare
i diversi modi di narrare l’oggetto osservato, senza creare contrapposizioni,
ma gustando la molteplicità delle possibilità. Abitare la diversità è un
esercizio quotidiano che ci avvicina alla realtà, che è molteplice e sfugge ad
ogni tentativo di fissazione. Abitare la diversità nel cammino della vita ci
rende lentamente tolleranti, capaci di guardare la narrazione dell’altro non
con il sospetto di un antagonismo, ma con la gioia condivisa di una ricchezza
nuova. Abitare la diversità è come camminare in un campo ed ammirare la
bellezza della varietà dei fiori, dove il problema non è scoprire qual è il più
bello, ma imparare ad apprezzare la bellezza di tutti.
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