Paolo Cugini
L’uniformità non rispettosa della molteplicità del Mistero diviene visibile quando il cristianesimo entra in contatto con mondi che, non solo non hanno conosciuto il pensiero greco, ma che hanno una modalità razionale differente. È il caso, solo per fare un esempio, dell’evangelizzazione dei popoli indigeni, sia dell’America che dell’Australia, o delle popolazioni africane. Il modo di un cristiano Occidentale, plasmato dal pensiero greco, di relazionarsi con la natura, le piante, gli animali, è totalmente diverso dalla mentalità indigena. Mentre il pensiero Occidentale è strutturato in modo antropocentrico e gerarchico, per cui al centro del mondo c’è l’uomo (la donna rimane ai margini) e tutto il resto rimane non solo su gradini inferiori della scala naturale, ma anche a disposizione dell’uomo, nella cosmogonia indigena, l’uomo e la donna fanno parte e si sentono parte del mondo circostante. La cosmogonia rivela anche, un modo diverso di fare esperienza del Mistero, che esige anche modalità differenti di comunicarlo. La cultura azteca non trasmette i contenuti delle proprie esperienze, non solo religiose, ma anche storiche, attraverso dei testi scritti, ma con disegni. Questo aspetto della diversità della trasmissione dei contenuti della tradizione lo si constata in molti popoli. Anche in questo caso la Chiesa ha scritto pagine vergognose di inaudita violenza. Il processo di evangelizzazione dei popoli non è avvenuto solo con la predicazione, ma spesso e volentieri con la coercizione. Il dato peggiore è quando si è fatto di tutto per distruggere la cultura, la religione dell’altro. Come sostengono i teologi della liberazione, nei processi di evangelizzazione, non è solo il Vangelo che viene annunciato, ma anche il bagaglio concettuale specifico della cultura Occidentale, che ha plasmato la narrazione uniforme del Vangelo, trasformato in dottrina.
Che cosa cela il modo in cui è avvenuto il processo di evangelizzazione nei confronti dei paesi latinoamericani e africani? Nasconde la non troppa velata presunzione di superiorità di una razza sull’altra, di una cultura che si arroga il merito di essere superiore delle altre. La forma di cultura espressa con la filosofia greca pensa di essere superiore alle culture che si sono affidate ad altri modo di trasmettere i saperi. È l’eterna lotta tra razionalità e arte, filosofia e poesia, ragione e passione, apollineo e dionisiaco. L’Occidente ha strutturato la propria cultura affidandosi ad un modo di pensare che sapesse creare ordine, un pensiero capace di dare sicurezza. Per questa operazione di tranquillità esistenziale, ha sacrificato il contenuto offerto dalla realtà in altri modi. Proprio questa operazione culturale manifesta la tendenza dominatrice e manipolatrice della cultura Occidentale così com’è venuta a strutturarsi nei secoli. Fin dai primi attimi in cui il logos si è imposto sul mito, debellando la religione popolare greca, si è percepito l’ebrezza della possibilità di controllare, dominare la realtà, manipolandola a proprio piacimento, per mettere tutto a proprio servizio. La realtà comprende anche la natura, le piante, gli animali, i fiumi, le montagne. La grande scoperta è stata quella di percepire che tutto poteva essere manipolato, perché il putno di partenza non era la realtà, ma l’uomo. L’antropocentrismo radicato sin nel midollo della cultura Occidentale ha portato a pensare che, chi viveva come parte della natura, non potevano che essere culture inferiori e, come tali, dovevano essere trattate. C’è stato un processo di modellamento della mentalità occidentale nel suo percorso di possibilità di manipolare la realtà. Il pensiero moderno, sorto sulle intuizioni della metafisica classica, esprime il massimo di possibilità della capacità di sistemare la realtà conforme a schemi prefissati dalla ragione umana. Rendere la realtà non solo intellegibile, ma proprio per questo, prevedibile, avrebbe voluto dire anticipare il futuro e orientare il presente in specifiche direzioni indicate dall’uomo.
Aver identificato il contenuto del messaggio evangelico con un unico modo di dirlo, ha ridotto molto la possibilità creativa del Vangelo e della sua inculturazione. Gli effetti negativi di questa identificazione sono visibili soprattutto nella liturgia. Il processo di romanizzazione della liturgia in ogni parte del globo ha voluto esprimere l’identificazione della narrazione del Mistero con una sola possibilità e, contemporaneamente, la distruzione di altre forme possibili. La liturgia, più di ogni altro ambito, potrebbe essere lo spazio in cui è possibile manifestare le caratteristiche specifiche di una cultura. Entrando nello specifico dell’esperienza cristiana, il principio di Incarnazione del Verbo indica che il Mistero è entrato in un momento specifico della storia di un popolo, assimilandone la cultura. Se il cristianesimo vuole essere un messaggio universale deve intraprendere lo stesso percorso del verbo incarnato, vale a dire deve incarnarsi e inculturarsi nella cultura verso la quale intende rivolgersi. È nella liturgia che gli elementi culturali di un popolo divengono evidenti, perché la liturgia esprime il modo di un popolo di relazionarsi con il Mistero. Per giungere a celebrare liturgie inculturate occorre, prima di tutto, un lungo e lento lavoro di ascolto, per farsi consegnare quegli aspetti della cultura in grado di esprimere il Mistero celebrato in un determinato contesto. Se la liturgia è azione del popolo, perlomeno è questo il senso etimologico del termine, allora non è possibile un’azione che esprima il sentire del popolo senza osservare come si esprime, soprattutto quando entra in relazione con il Mistero. L’imposizione di un unico modello di liturgia valido per ogni popolo significa aver percorso il cammino contrario della manifestazione del Mistero, ma è chiaramente nell’ordine dell’imposizione della narrazione uniforme della sua interpretazione. La liturgia inculturata manifesta la bellezza della molteplicità in cui il Mistero si manifesta. C’è bellezza nella molteplicità, perché manifesta un cammino di libertà. C’è bruttezza nell’imposizione di un’unica forma liturgica, perché non riesce a nascondere la violenza frutto dell’imposizione.
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