CORSO ISLAM
CUM VERONA 20-23 GIUGNO 2016
Prof. Celeste Intartaglia (PISAI)
Sintesi: Paolo Cugini
IV.
Verso un nuovo califfato?
La terminologia politica: califfato,
sultanato, stato, nazione, umma
Le “primavere arabe” e i nuovi
riassetti regionali
L’Isis e la sua lettura del califfato
Nel
loro desiderio di vedere risorgere il califfato, i musulmani non tengono conto
dell’evoluzione geopolitica e sociale. Sognano un califfato dei tempi dei Ben
guidati, ma questa visioni è in contrato con il sentimento nazionalista e con
le aspirazioni alle libertà individuali e ai diritti dell’uomo.
Da qualche tempo, l’evidenza dimostra che la
resistenza all’egemonia occidentale ha preso aspetti spaventosi attraverso le
azioni di gruppi che si qualificano come fondamentalisti, estremisti sul piano
religioso e di terroristi sul piano politico. Fra questi citiamo gli Shebab in
Somalia, Boko Haram in Nigeria, la “galassia” di al-Qaïda (al-Qā‘ida), e infine
il Daesh con la sua proclamazione dello stato islamico sotto un nuovo califfato
autoproclamato.
Molti musulmani hanno preso le distanze da
questi gruppi, ma molti altri li sostengono, soprattutto finché contrasteranno
gli interessi dell’Occidente, ritenuto colpevole delle umiliazioni inflitte ai
musulmani. È questo forse l’unico punto che mette d’accordo i musulmani e fa
dimenticare le loro divisioni interne.
Le
primavere arabe e i nuovi assetti regionali
La primavera araba è una espressione che fa
riferimento all’ondata di protesta che ha attraversato i regimi del mondo arabo
nel corso del 2011 e in vari casi si è trasformata in vera e propria
rivoluzione con conseguente crollo del regime (ruolo dei bloggers).
La prima, ed emblematica, è quella della
Tunisia, dove si colloca simbolicamente l’inizio della rivolta: il gesto di
protesta di Mohamed Bouaziz, un giovane venditore ambulante, che nella
cittadina di Sidi Bouzid si è dato fuoco per protestare contro le vessazioni da
parte delle forze di polizia locali. La protesta successiva si è diretta contro
il dispotismo e la corruzione del regime del presidente Ben ‛Alī, al potere dal
1987 (successore di Bourguiba), nonché come movimento di denuncia di uno stato
di crisi economica generale, e ha provocato l’immediata caduta del regime (il
14 gennaio Ben ‘Ali si rifugia con la famiglia in Arabia Saudita). Si forma in
breve un governo provvisorio di coalizione, che porta allo scioglimento, nel
mese di marzo, del partito di Ben ‘Ali (Rassemblement constitutionnel
démocratique) e al riconoscimento dei partiti al bando. Inoltre, viene
legalizzato il movimento islamista Ennahda (Rinascita), vicino ai Fratelli
Musulmani che dai primi anni Novanta era al bando; il leader Rachid
al-Ghannuchi, ritorna nel paese. Si
apriva un delicato processo di
transizione democratica e costituzionale in cui un ruolo decisivo era ricoperto
dall’Alta autorità per il raggiungimento degli obiettivi della Rivoluzione,
della riforma politica e della transizione democratica, un comitato costituito
il 18 febbraio e composto da rappresentanti delle forze politiche e sindacali,
da esponenti della società civile e da organizzazioni e associazioni di
carattere nazionale, al fine di assistere il governo nella transizione
costituzionale in vista delle elezioni per l’Assemblea costituente. Queste
elezioni, previste per il mese di luglio e poi rinviate al 23 ottobre, provocarono altre proteste di
giovani e cittadini delusi dalla lentezza del processo democratico e dal
pericolo di una deriva autoritaria. Le elezioni del 23 ottobre fecero
registrare una grande affluenza (oltre il 90% ) e sancirono il successo di
Ennahda, ma anche l’importante affermazione dei partiti laici tra cui il
Congresso per la Repubblica, guidato da uno dei leader storici
dell’opposizione, Moncef Marzouki, presidente della Lega tunisina per i diritti
umani.
L’anno successivo al-Ghannouchi ha accettato
di non menzionare nella nuova costituzione la sharī‘a come fonte legislativa; e
nella costituzione del gennaio 2014, approvata a larga maggioranza, la shari ‘a
non viene esplicitamente citata e si garantisce libertà di fede e di coscienza.
Nonostante ciò, le elezioni parlamentari dell’ottobre successivo sono state
vinte dal partito “laico” Nidaa Tounes.
A una settimana dalla caduta di Ben ‛Alī,
anche in Egitto le
piazze si riempirono di manifestanti che chiedevano la fine dello stato
d’emergenza e le dimissioni del presidente Hosni Mubārak, al potere da
trent’anni. Ad animare la protesta erano soprattutto i giovani che si erano
politicizzati al di fuori dei partiti tradizionali, la sinistra più radicale, i
segmenti democratici della classe media, operai e piccoli agricoltori. La
richiesta di democratizzazione della vita politica si sposava alla centralità
della questione sociale, in un paese dove cresceva la disoccupazione e la
povertà e dove la corruzione aveva premiato la grande borghesia cittadina
alleata del regime. Il 25 gennaio venne indetta sul web la ‘giornata della
collera’ e nelle piazze del Cairo decine di migliaia di cittadini si riunirono
per protestare; il 28 gennaio imponenti manifestazioni paralizzavano il centro
della capitale, dove piazza Tahrir divenne il centro delle manifestazioni.
Mentre la rivolta appariva ormai
inarrestabile e la repressione si faceva sempre più violenta, tornò a far
sentire la sua voce tra i manifestanti
l’organizzazione fondamentalista dei Fratelli musulmani nel tentativo di
incanalare la contestazione per assumerne a tempo debito le redini. Intanto
Mubarak rinunciò al potere (11 febbraio),
lasciando le redini del paese nelle mani del Consiglio supremo delle
Forze armate guidato da Mohammed Hussein Tantawi (comunque legato al regime e
segno di continuità con il passato. Nel mese di agosto, intanto, si apriva il
dibattimento a carico di Mubarak, agli arresti da aprile, accusato della morte
di circa 800 manifestanti durante le contestazioni che avevano portato alla sua
deposizione, oltre che di arricchimento illecito e corruzione.
Nel corso dell’anno emergevano in Egitto
alcuni preoccupanti segnali di una involuzione della vita politica e di un
innalzamento delle tensioni interreligiose: a settembre l’assalto con morti e
feriti all’ambasciata d’Israele al Cairo, a ottobre il massacro di cristiani
copti negli scontri con la polizia.
Il candidato dei Fratelli Musulmani, Mohamed
Morsi vinse le elezioni
presidenziali del gennaio 2012, ma nel giugno successivo, la corte
costituzionale egiziana ha invalidato le elezioni parlamentari, e l’anno
successivo, il 3 luglio 2013, a seguito di un’ondata di proteste di massa,
Morsi è stato destituito. Ha preso il potere il generale ‘Abd
al-Fattah alSisi, allora Ministro della Difesa, mentre Morsi è stato
sottoposto a processo e condannato a morte, ma la sentenza è passibile di
revisione. Anche qui la protesta riguardava un articolo della Costituzione che
faceva riferimento alla sharī‘a come principale fonte della legislazione, che
avrebbe portato a ridefinire il diritto egiziano, in particolare per lo status
dei non musulmani e in campo penale.
In Libia la protesta scoppiava il 15 febbraio
nella città costiera di Bengasi, in Cirenaica, la regione da sempre ostile al controllo politico di
Tripoli. Mentre la ribellione nelle piazze si allargava, pur non essendo né
troppo violenta né troppo numerosa, in Cirenaica la ribellione si trasformò
presto in insurrezione armata con l’adesione di ufficiali dell’esercito e di
molti reparti militari. All’inizio di marzo i ribelli avanzarono verso sud e
conquistavano Brega, sul golfo della Sirte, sede di uno dei principali impianti
petroliferi del paese intorno alla quale nel corso dei mesi successivi si riaccendeva
più volte la battaglia tra gli insorti e le forze governative fedeli al
colonnello Gheddafi. A differenza degli altri paesi, in Libia si vede da subito
l’ingerenza dei paesi occidentale. La Francia è il primo paese a riconosce l’autorità del Consiglio
nazionale di transizione (Cnt), l’organismo politico che controllava i
territori in mano ai ribelli, autoproclamandosi unico legittimo rappresentante
della repubblica libica, e fa pressioni sull’Onu per poter prendere iniziative
. per proteggere i civili. Si crea una no-fly zone e si rafforzava l’embargo
sulle armi. Dopo i primi bombardamenti aerei contro le forze governative che
cercavano di riconquistare Bengasi, il 31 marzo la Nato assumeva il comando
delle operazioni contribuendo al successo dell’avanzata degli insorti in
Tripolitania. Nel mese di aprile anche l’Italia partecipa alle operazioni,
mentre i ribelli conquistavano Misurata (maggio). Una lunga fase di stallo
caratterizzava le operazioni di guerra tra giugno e luglio ma nel mese di agosto,
sostenuti dalle tribù berbere, i ribelli entravano a Tripoli mentre le truppe
lealiste e Gheddafi, ricorso a più riprese all’impiego di mercenari
centrafricani, ripiegavano a Bani Walid e Sirte. Dopo un lungo assedio, il 20
ottobre i ribelli entrarono in Sirte e catturarono Gheddafi, dopo che il
convoglio con il quale era in fuga era stato colpito dagli elicotteri della
Nato. Con la morte di Gheddafi si apriva una fase delicatissima per il paese:
antagonismi e debolezze del Cnt, già emersi durante il conflitto, e l’incognita
delle forze islamiste, la cui presenza determinate nel campo degli insorti è
stata spesso taciuta, sono solo alcuni dei problemi da affrontare. L’assenza di
una società civile, dei partiti, di un’amministrazione centralizzata e l’enfatizzazione
della tribù come unica istituzione ufficiale e riconosciuta della società
durante la dittatura di Gheddafi, hanno fatto della Libia un paese senza stato
dove sarà difficile avviare la ricostruzione sotto la minaccia delle ingerenze
dei paesi confinanti e degli interessi economici e geopolitici di Francia e
Gran Bretagna. Queste previsioni si sono avverate con l’arrivo in Libia di
formazioni di jihadisti affiliati all’Isis.
L’Isis
e la sua lettura del califfato
All’inizio del 2014 l’Isis ha
assunto in modo stabile il controllo della città di al-Raqqa (nord della Siria)
e, nel mese di giugno, quello della città di Mosul, la metropoli nord irachena
che conta oltre due milioni di abitanti. Alla fine dello stesso mese, la
conquista di uno dei tre valichi ufficiali di frontiera tra Iraq e Siria ha
offerto all’Isis l’occasione per assumere la nuova denominazione di “Stato
islamico” (Is / Daesh = Al-dawla al-islāmiyya fī al-‘Irāq wa-l- Shām); e Ibrahim
al-Baghdadi è stato proclamato “califfo”.
Per l’estensione del territorio che controlla, l’accesso a
risorse come il petrolio, la riscossione di tasse e il ricorso all’estorsione,
Daesh è ormai una delle più potenti organizzazioni estremiste della storia
recente. Il suo successo e l’uso della violenza – senza remore e ignorando
totalmente le garanzie del diritto islamico classico – hanno procurato un
notevole afflusso di jihadisti nelle sue fila, sia dai paesi arabo-islamici che
da quelli occidentali.
Al seguito di Daesh si sono poste altre organizzazioni islamiste
di altre regioni, per esempio i “Partigiani di Gerusalemme” (Anṣār Bayt
al-Maqdis), che operano nella penisola del Sinai e hanno proclamato quest’area
“provincia” (wilāya) dello “Stato islamico”.
Con al-Zawahiri (al-Qā‘ida) la rottura risale al 2014, e fra le
due organizzazioni esiste una forte rivalità internazionale nel reclutamento di
seguaci, ma anche su questo terreno Daesh sta ormai eclissando al-Qā‘ida, la
quale conta ancora su alcune
organizzazioni affiliate:
-
Aqap
(al-Qā‘ida in the Arabian Peninsula), formatasi a partire dal 2003, collegata
alla componente saudita del nucleo storico di al-Qā‘ida e nel 2009 unificatasi
con il ramo yemenita. È il gruppo che ha rivendicato la responsabilità
dell’attentato alla redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo
(7 gennaio 2015).
-
Aqim
(al-Qā‘ida in the Islamic Maghreb), formatasi nel 2007 come evoluzione del
Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento che affonda le radici
nella guerra civile algerina degli anni 1992-1999, e che ha esteso le sue
attività al Mali e al Niger.
-Boko
Haram :
Il gruppo, che ha nome ufficiale di Ğamā‘at
ahl al-sunna li-l-da‘wa wa-l-ǧihād, ma che è noto con il nome hawsa di Boko
Haram, è stato fondato a Maiduguri tra il 2001 e il 2002 da Muhammad
Yusuf con l’obiettivo di imporre la šarī‘a nel Bornu, con il sostegno
dell’allora governatore Ali Modu Sheriff. Era in origine un centro religioso
con moschea e scuola aperta a ragazzi provenienti da famiglie povere, anche dei
vicini Niger e Chad. In questa scuola si parlava solo arabo; presto il centro
si dà obiettivi “politici” e recluta futuri jihadisti. Nel 2004 il centro si
trasferisce a Kanamma, vicino al confine con il Niger. Il gruppo è diventato
noto a livello internazionale a partire dal 2009, con attentati a chiese
cristiane, ad università, ed altri attentati anche contro occidentali. Nel 2015
ha dichiarato la propria fedeltà a
Daesh, il cui portavoce Abu Muhammad al-‘Adnani, ha rilasciato un
messaggio audio in cui accoglie la bay ‘a (pegno di fedeltà) di Boko Haram e lo
considera come un ampliamento di Daesh in Africa occidentale.
Come si costruisce la figura del
“Califfo”
Ibrāhīm
‘Awād al-Ibrāhīm al-Badrī,
autoproclamatosi “califfo” nel 2014 con il nome di Abū Bakr al-Baghdādī, è nato a
Samarra nel 1971. Militante anti-americano, ha combattuto a lungo nei ranghi di
al-Qā‘ida in Iraq, fino a diventarne il principale
esponente. Nel 2009, dopo aver trascorso cinque anni da prigioniero nel campo
di internamento americano Camp Bucca (sito presso Umm Qasr, Iraq), è stato
liberato; ha fatto perdere le proprie
tracce, e ha dato vita ad una formazione denominata ISI (Islamic state of
Iraq), che si è presto distinta per le centinaia di vittime tra le popolazioni
sciite, sunnite e occupanti occidentali in tutta l’area di Baghdad. Dopo lo
scoppio della guerra civile in Siria, la formazione è stata rinominata ISIS
(Islamic State in Iraq and Siria), in arabo Daesh
(al-Dawla alislāmiyya fī al-‘Irāq wa-l-Šām).
Daesh ha assunto
con la forza l’egemonia sulle altre forze di insorti in Siria, ha rotto ogni
legame con al-Qā‘ida
e ha cominciato una vasta
campagna di reclutamento.
La
figura di al-Baghdadi
si distingue da altre figure,
quali ad esempio Bin Laden o alZarqawi: a
differenza di questi due, è colto, ha un dottorato e sa comunicare. La scelta
del nome si può interpretare a vari livelli: il nome “al-Baghdadi” contiene in
sé un appello e un progetto: continuare la guerra contro il Governo dell’Iraq
fino alla conquista della capitale Baghdad, con un messaggio diretto a tutti
quegli iracheni che, con la Seconda Guerra del Golfo e la caduta di Saddam
Hussein, hanno perso lavoro e posizione sociale, e circondatosi di ex-alti
ufficiali iracheni delle forze armate, della Guardia Repubblicana e dei servizi
di informazione di Saddam Hussein, e appoggiano il progetto di Daesh nell’intento di «riprendersi il Paese» ed
espanderne il dominio alla Siria e al Libano. Dal punto di vista simbolico e
dottrinale, è ancora più significativa la scelta del nome Abu Bakr, che
riconduce direttamente al primo successore del profeta Muhammad (632-634).
Anche le modalità della prima apparizione pubblica di Abu Bakr
al-Baghdadi come neo proclamato Califfo è simbolica: si è presentato nelle
vesti nere che richiamano la dinastia Abbaside (750-1258); ha pronunciato il
suo primo discorso in pubblico – come un imam predicatore combattente - in una
moschea durante la preghiera. E anche il luogo
è simbolico: si tratta della Grande Moschea al-Nuri, costruita da Nūr
al-Dīn Zangī (11181174 d.C.), che mobilitò i musulmani al jihād contro i
Franchi (crociati).
Un altro tratto non privo di interesse, è l’uso che il
neo-Califfo fa di alcune fonti storiche. Ad un certo punto del suo discorso
inaugurale dalla Jāmiʿal-Nūrī, al-Baghdadi fa intendere di voler restaurare i
confini di massima estensione del Califfato Abbaside, fino al Maghreb e alla
Spagna, includendo però anche «Roma». Ora, la «Roma» di cui parlavano gli
antichi dominatori Abbasidi non era l’attuale Capitale italiana (e sede dello
Stato Vaticano), bensì Bisanzio (Costantinopoli), sede della «Roma d’Oriente» –
fino alla sua caduta nel 1453 per mano dei Turchi Ottomani guidati da Maometto
II.
La predicazione di un nuovo “califfato”
La
nascita di una nuova entità territoriale che si proclama entità statuale è una
relativa novità nella galassia della violenza politica di matrice
fondamentalista. È la prima volta che una formazione terrorista insorgente
rivendica come propria una vasta estensione territoriale e mette in atto un
proprio potere amministrativo. Questo si pone in aperto antagonismo e dissenso,
fino alla rottura dichiarata, con gli obiettivi strategici di al-Qā‘ida di una guerra antioccidentale di matrice
islamica volta a «liberare i luoghi santi dalla presenza dei Crociati». Si ha
dunque il passaggio da un’ideologia guerriera di tipo «reattivo» a un progetto
di espansione che, perlomeno nelle sue intenzioni, è il ritorno allo spirito originario
della predicazione espansiva del Profeta.
Oggi
Daesh governa vaste aree dell’Iraq centrale e della
Siria settentrionale e rivendica ambizioni di tipo trans-nazionale, percorrendo
la strada dell’affiliazione e del riconoscimento reciproco con varie formazioni
estremiste islamiche che vanno dalla Nigeria all’Africa Occidentale, dall’Iraq
alla Siria all’Algeria. Lo strumento simbolico per compiere questa operazione
di legittimazione dottrinale è la formulazione di un progetto di nuovo
Califfato. La natura di questa predicazione non è congruente con i lineamenti
dell’istituzione storica califfale, ma ha una enorme forza di attrazione per le
popolazioni mediorientali e per i mass media.
Il
Califfato storico (fino al 1924) ha avuto come caratteristiche la
legittimazione da parte di vaste comunità di credenti e dei loro governatori, e
il riconoscimento da parte di uno o più autorevoli centri di preghiera o di
studio dottrinale.
Oggi
Daesh non può contare su alcuna legittimazione al di fuori dei confini che
controlla direttamente, pur predicando il progetto di un Dār al-Islām che vada dalla Spagna al Maghreb a tutti i
paesi di lingua araba e turca fino a Siria e Iraq, né il riconoscimento dei
“dotti” musulmani (espressi dagli ìulama’ delle moschee più autorevoli, quale
ad esempio al-Azhar).
La
legittimazione di al-Baghdadi
è puramente “combattente”, derivante dal potere armato; le sue milizie animate
da un fanatismo dai toni messianici, di diversa provenienza:
oltre agli arabi iraqeni e siriani, una folta milizia proviene
dalle fila dei guerriglieri ceceni che per decenni si sono opposti alla Russia,
molti afghani e turchi, molti europei.
A
differenza di al-Qā‘ida
che durante la sua permanenza in
Afghanistan e Pakistan ha usato come mezzo di comunicazione la lingua araba e
riservato alle lingue locali (Daari, Pashtun, Urdu) il valore di puro scambio
orale per le comunicazioni quotidiane di minore impatto simbolico, nel Daesh si parla e si comunica anche a livello ufficiale
sia nell’arabo classico
(o perlomeno in un accettabile arabo standard), sia in inglese. E l’inglese è
anche la lingua franca in cui comunicano tra loro i combattenti. Questo rende
la comunicazione pubblica del Daesh più
pervasiva e di maggior impatto per l’Occidente. Molti esperi di comunicazione
di lingua inglese, giovani che provengono dalle periferie di Londra e di altri
paesi occidentali producono video-comunicati e proclami scritti di grande
impatto “spettacolare” e simbolico. Ad esempio, i video in cui i neo-guerrieri muhajirīn si rivolgono direttamente al primo ministro
inglese e al presidente degli Stati Uniti chiamandoli per nome sono una novità
assoluta nei toni e nei registri di comunicazione fino ad ora riscontrati nella
“galassia jihadista”. La configurazione della minaccia assume toni da film
popolare, con un fortissimo impatto sul pubblico giovanile.
E,
pur rivendicando una filiazione diretta dal salafismo e dal wahhabismo sunnita,
propone una nuova «teologia della liberazione», apocalittica e combattente. I protagonisti sono sostanzialmente ragazzi e ragazze che
scelgono di lasciarsi alle spalle le metropoli occidentali o arabe in cui la
modernizzazione è imperante e di ricominciare da un “anno zero” della Storia.
La predicazione associata alla nascita del nuovo Califfato giunge a presentare
Shām come una nuova Terra Promessa. E il
messaggio è di tipo apocalittico: siamo ormai vicini alla fine dei tempi e che
la battaglia finale con le forze occidentali è ormai vicina. Essa avrà luogo,
secondo la i proclami di Daesh, nella città di Dābiq.
È importante sottolineare che, grazie alla
sua consistenza reale come «insediamento territoriale», Daesh è un progetto attrattivo proprio per tutti
coloro che, in Occidente o in Medioriente, non si sentono più «a casa».
Combattenti e reduci, estremisti ricercati e perseguiti dalle polizie e dalle
forze di sicurezza dei Paesi arabi, giovani musulmani emarginati, e anche
giovani convertiti della borghesia europea piccolo-media, che sentono il
bisogno di riscattare la loro esistenza con un grande «salto di qualità». In
sostanza, tutte queste reclute di Daesh dichiarano
che preferiscono «combattere o morire per il Profeta» piuttosto che accettare
lo stato di cose esistente. E questo costituisce un grande motivo di allarme
soprattutto in questo periodo di crisi economica, in cui i giovani stentano a
integrarsi nel mondo del lavoro e a costruire una famiglia, su entrambe le
sponde del Mediterraneo.
L’imposizione
del potere e la distorsione del concetto di Ridda.
L’imposizione del
nuovo potere califfale del Daesh avviene
come è noto applicando una violenza indiscriminata contro tutti coloro che non
si adeguano immediatamente a una formulazione della sharīʿa intesa nel senso più assolutistico, come vero
e proprio “terrore rivoluzionario”. Anche in questo caso la nuova classe
dirigente che si raccoglie intorno ad al-Baghdadi cerca
legittimarsi citando un versetto del Corano (Q. 4, 89) e diversi Hadith che,
secondo molti interpreti, autorizzano la condanna a morte «per apostasia»
(ridda). La realtà è ben diversa da quanto però predicato nei testi storici. I
guerriglieri ricorrono in realtà a una giustizia sommaria, cioè passano per le
armi senza alcun processo sia i musulmani sciiti, sia le numerosi minoranze
etniche e confessionali che popolano l’Iraq: curdi, yazidi, assiri (cristiani),
turcomanni sciiti vengono deportati e massacrati, e le donne
sono ridotte in schiavitù e assegnate come concubine, o vendute come schiave
alla forza combattente.
Invece di pretendere un’ imposta speciale da
parte dei non-musulmani, come più volte praticato nella storia politica
dell’Islam, Daesh passa all’esproprio diretto e totale di
immobili, depositi bancari e ogni altro bene appartenente ai non musulmani.
Questo esproprio permanente tocca in alcuni casi, sullo stile di un esercito di
occupazione più che di un potere legittimo, le stesse popolazioni sunnite delle
zone di Mosul e Raqqa. Insomma, la violenza apocalittica del nuovo Califfato,
piuttosto che «amministrare i credenti», scatena flussi di migliaia di profughi
terrorizzati.
Nel settembre 2014 oltre 120 studiosi
musulmani di tutto il mondo hanno indirizzato una lettera aperta al Califfo,
rifiutando le interpretazioni che egli dà del Corano e degli Hadith per
giustificare le sue azioni. Nella lettera si definiscono queste azioni come dei
veri e propri «atroci crimini di guerra», accusando il Califfo di fomentare la
Fitna, ovvero la contrapposizione e la guerra civile tra musulmani.
La neo-economia califfale
Un altro aspetto innovativo, ma al contempo
tradizionale del Daesh
consiste nel fatto di affiancare
alle tradizionali forme di finanziamento del ǧihād sunnita
anche una propria autonomia economica: alle appropriazioni e confische si somma
la conquista di pozzi petroliferi nel nord della Siria. La grande disponibilità
di risorse e attività dà autorevolezza e consistenza inedite al nuovo messaggio
Jihadista.
Mentre al-Qā‘ida è basata su una rete
transnazionale di militanti costantemente impegnati a non farsi localizzare,
mimetizzandosi tra le popolazioni locali in Afghanistan, Pakistan, Yemen,
Somalia, ecc., Daesh al contrario si insedia e si localizza in una vera e
propria economia territoriale di tipo para-statuale. Capitale della nuova
entità è al-Raqqa, dove i nuovi dominatori hanno ripristinato l’erogazione
dell’energia elettrica, dei servizi sociali di base e dei trasporti.
Inoltre, tra le comunicazioni divulgate dagli
uffici amministrativi del Califfato vi è il progetto di coniazione di un nuovo
«Dinaro Islamico». Gesto per il momento solo simbolico, che però afferma il
diritto formale del Dāʻsh
di emettere una moneta
legittima. D’altra parte, chi si aggiunge a Daesh, ottiene lasciapassare e
documenti amministrativi rilasciati dal nuovo centro di potere.
Ideologia confessionale
La matrice ideologica e confessionale di
partenza della nuova compagine è parzialmente affine all’ideologia jihadista di
al-Qā‘ida. Vi affluiscono spezzoni dell’ideologia
remota degli integralisti islamici tunisini dello scorso secolo, e dei Fratelli
Musulmani egiziani, che furono i primi a formulare nella modernità la necessità
del ǧihād mondiale (prima di convertirsi a un progetto
di conquista del potere per via legale). Vi sono poi elementi della
predicazione che si rifanno al salafismo hanbalita (risalente agli scritti di
Ahmad b. Hanbal, 780-855) e wahhabita (risalente agli scritti di Muhammad b.
al-Wahhab, 17031792). Questa corrente afferma il «ritorno alle origini» delle
prime comunità di credenti, e rivendica il diritto di un accesso diretto
nell’interpretazione in proprio del Corano e della sunna profetica, senza
accettarne le versioni moderne. Applica al Corano una rilettura e una
interpretazione in chiave «autentica e letterale», che viene adattata con
grande agilità a tutte le esigenze della vita moderna: vengono riscritti i
programmi scolastici, si applicano divieti estensivi verso la musica pop, il
fumo di sigarette, e perfino del narghilé, che pure sono pratiche diffusissime
in tutto il mondo islamico. La volontà di «purificare» la comunità impone il
velo integrale o niqāb a tutte le donne, cui viene prescritto di rimanere in
casa salvo casi di necessità. . In alcune aree della nuova amministrazione
territoriale si è arrivati a proibire lo studio della matematica in età
infantile, sostituendola con l’apprendimento a memoria del Corano. Sono
proibiti anche la maggior parte degli sport, e l’assistere a spettacoli
sportivi anche in Televisione.
L’applicazione integrale della sharī’a, può
incontrare simpatie e sostegni dall’estero, come in parte dell’opinione
pubblica saudita, che vi vede un rispetto letterale dell’ideologia di origine
wahhabita propugnata dalla dinastia al potere. L’aspetto più attraente, sul piano della
simpatia e del sostegno ideologico, rimane comunque il ripudio della modernità
occidentale.
L’aspetto più paradossale riguarda invece la
grande disinvoltura con cui i nuovi capi guerrieri, che proibiscono nel loro
territorio l’accesso ai mass media, fanno uso di Internet e dei social media
per la loro propaganda mondiale. In decine di video confezionati con grande
perizia produttiva si enunciano i principi di combattimento, o si mostrano dei
macabri rituali di decapitazione di ostaggi (perlopiù occidentali).
Quest’ultima attività, oltre a destare orrore e sgomento nelle opinioni
pubbliche occidentali, ha anche una valenza di comunicazione e di
rivendicazione inter-islamica: al pari della Casa regnante saudita, che ha tra
i propri privilegi la comminazione di pene corporali severissime, e di decapitazioni
trasformate in spettacoli pubblici, Daesh rivendica
in questo modo la propria «legittimità statuale» mostrando delle «pubbliche
esecuzioni» su Internet.
La frattura generazionale
Un tratto fortemente innovativo di Daesh, e del nuovo jihadismo in genere, è l’età
media di poco superiore ai vent’anni della maggior parte delle nuove reclute. Ma soprattutto il fatto che molti dei capi
combattenti irridano apertamente ai centri di elaborazione universitaria, agli
imām e ai maestri di studi coranici anziani, ripudiandoli come «venduti e
schiavi dell’Occidente». Alcuni «predicatori combattenti» del Dāʻsh hanno un’età di 24-25 anni, cosa inedita nel
mondo dell’estremismo confessionale, che in pochi mesi ha fatto apparire alcuni
capi terroristi, come Ayman
al-Zawahiri (al-Qā‘ida) come dei relitti del passato.
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