giovedì 23 giugno 2016

DAL CALIFFATO AGLI STATI NAZIONALI






CORSO ISLAM

CUM VERONA 20-23 GIUGNO 2016




Prof. Celeste Intartaglia (PISAI)
Sintesi: Paolo Cugini




IV. Verso un nuovo califfato? 
            La terminologia politica: califfato, sultanato, stato, nazione, umma 
            Le “primavere arabe” e i nuovi riassetti regionali
            L’Isis e la sua lettura del califfato
             

Nel loro desiderio di vedere risorgere il califfato, i musulmani non tengono conto dell’evoluzione geopolitica e sociale. Sognano un califfato dei tempi dei Ben guidati, ma questa visioni è in contrato con il sentimento nazionalista e con le aspirazioni alle libertà individuali e ai diritti dell’uomo. 
Da qualche tempo, l’evidenza dimostra che la resistenza all’egemonia occidentale ha preso aspetti spaventosi attraverso le azioni di gruppi che si qualificano come fondamentalisti, estremisti sul piano religioso e di terroristi sul piano politico. Fra questi citiamo gli Shebab in Somalia, Boko Haram in Nigeria, la “galassia” di al-Qaïda (al-Qā‘ida), e infine il Daesh con la sua proclamazione dello stato islamico sotto un nuovo califfato autoproclamato. 

Molti musulmani hanno preso le distanze da questi gruppi, ma molti altri li sostengono, soprattutto finché contrasteranno gli interessi dell’Occidente, ritenuto colpevole delle umiliazioni inflitte ai musulmani. È questo forse l’unico punto che mette d’accordo i musulmani e fa dimenticare le loro divisioni interne. 


Le primavere arabe e i nuovi assetti regionali


La primavera araba è una espressione che fa riferimento all’ondata di protesta che ha attraversato i regimi del mondo arabo nel corso del 2011 e in vari casi si è trasformata in vera e propria rivoluzione con conseguente crollo del regime (ruolo dei bloggers). 

La prima, ed emblematica, è quella della Tunisia, dove si colloca simbolicamente l’inizio della rivolta: il gesto di protesta di Mohamed Bouaziz, un giovane venditore ambulante, che nella cittadina di Sidi Bouzid si è dato fuoco per protestare contro le vessazioni da parte delle forze di polizia locali. La protesta successiva si è diretta contro il dispotismo e la corruzione del regime del presidente Ben ‛Alī, al potere dal 1987 (successore di Bourguiba), nonché come movimento di denuncia di uno stato di crisi economica generale, e ha provocato l’immediata caduta del regime (il 14 gennaio Ben ‘Ali si rifugia con la famiglia in Arabia Saudita). Si forma in breve un governo provvisorio di coalizione, che porta allo scioglimento, nel mese di marzo, del partito di Ben ‘Ali (Rassemblement constitutionnel démocratique) e al riconoscimento dei partiti al bando. Inoltre, viene legalizzato il movimento islamista Ennahda (Rinascita), vicino ai Fratelli Musulmani che dai primi anni Novanta era al bando; il leader Rachid al-Ghannuchi, ritorna nel paese.  Si apriva un delicato  processo di transizione democratica e costituzionale in cui un ruolo decisivo era ricoperto dall’Alta autorità per il raggiungimento degli obiettivi della Rivoluzione, della riforma politica e della transizione democratica, un comitato costituito il 18 febbraio e composto da rappresentanti delle forze politiche e sindacali, da esponenti della società civile e da organizzazioni e associazioni di carattere nazionale, al fine di assistere il governo nella transizione costituzionale in vista delle elezioni per l’Assemblea costituente. Queste elezioni, previste per il mese di luglio e poi rinviate al  23 ottobre, provocarono altre proteste di giovani e cittadini delusi dalla lentezza del processo democratico e dal pericolo di una deriva autoritaria. Le elezioni del 23 ottobre fecero registrare una grande affluenza (oltre il 90% ) e sancirono il successo di Ennahda, ma anche l’importante affermazione dei partiti laici tra cui il Congresso per la Repubblica, guidato da uno dei leader storici dell’opposizione, Moncef Marzouki, presidente della Lega tunisina per i diritti umani.

L’anno successivo al-Ghannouchi ha accettato di non menzionare nella nuova costituzione la sharī‘a come fonte legislativa; e nella costituzione del gennaio 2014, approvata a larga maggioranza, la shari ‘a non viene esplicitamente citata e si garantisce libertà di fede e di coscienza. Nonostante ciò, le elezioni parlamentari dell’ottobre successivo sono state vinte dal partito “laico” Nidaa Tounes. 

A una settimana dalla caduta di Ben ‛Alī, anche in Egitto le piazze si riempirono di manifestanti che chiedevano la fine dello stato d’emergenza e le dimissioni del presidente Hosni Mubārak, al potere da trent’anni. Ad animare la protesta erano soprattutto i giovani che si erano politicizzati al di fuori dei partiti tradizionali, la sinistra più radicale, i segmenti democratici della classe media, operai e piccoli agricoltori. La richiesta di democratizzazione della vita politica si sposava alla centralità della questione sociale, in un paese dove cresceva la disoccupazione e la povertà e dove la corruzione aveva premiato la grande borghesia cittadina alleata del regime. Il 25 gennaio venne indetta sul web la ‘giornata della collera’ e nelle piazze del Cairo decine di migliaia di cittadini si riunirono per protestare; il 28 gennaio imponenti manifestazioni paralizzavano il centro della capitale, dove piazza Tahrir divenne il centro delle manifestazioni. 

Mentre la rivolta appariva ormai inarrestabile e la repressione si faceva sempre più violenta, tornò a far sentire la sua voce tra i manifestanti  l’organizzazione fondamentalista dei Fratelli musulmani nel tentativo di incanalare la contestazione per assumerne a tempo debito le redini. Intanto Mubarak rinunciò al potere (11 febbraio),  lasciando le redini del paese nelle mani del Consiglio supremo delle Forze armate guidato da Mohammed Hussein Tantawi (comunque legato al regime e segno di continuità con il passato. Nel mese di agosto, intanto, si apriva il dibattimento a carico di Mubarak, agli arresti da aprile, accusato della morte di circa 800 manifestanti durante le contestazioni che avevano portato alla sua deposizione, oltre che di arricchimento illecito e corruzione. 
Nel corso dell’anno emergevano in Egitto alcuni preoccupanti segnali di una involuzione della vita politica e di un innalzamento delle tensioni interreligiose: a settembre l’assalto con morti e feriti all’ambasciata d’Israele al Cairo, a ottobre il massacro di cristiani copti negli scontri con la polizia. 

Il candidato dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi vinse le elezioni presidenziali del gennaio 2012, ma nel giugno successivo, la corte costituzionale egiziana ha invalidato le elezioni parlamentari, e l’anno successivo, il 3 luglio 2013, a seguito di un’ondata di proteste di massa, Morsi è stato destituito. Ha preso il potere il generale ‘Abd al-Fattah alSisi, allora Ministro della Difesa, mentre Morsi è stato sottoposto a processo e condannato a morte, ma la sentenza è passibile di revisione. Anche qui la protesta riguardava un articolo della Costituzione che faceva riferimento alla sharī‘a come principale fonte della legislazione, che avrebbe portato a ridefinire il diritto egiziano, in particolare per lo status dei non musulmani e in campo penale.  

In Libia la protesta scoppiava il 15 febbraio nella città costiera di Bengasi, in Cirenaica, la regione da sempre ostile al controllo politico di Tripoli. Mentre la ribellione nelle piazze si allargava, pur non essendo né troppo violenta né troppo numerosa, in Cirenaica la ribellione si trasformò presto in insurrezione armata con l’adesione di ufficiali dell’esercito e di molti reparti militari. All’inizio di marzo i ribelli avanzarono verso sud e conquistavano Brega, sul golfo della Sirte, sede di uno dei principali impianti petroliferi del paese intorno alla quale nel corso dei mesi successivi si riaccendeva più volte la battaglia tra gli insorti e le forze governative fedeli al colonnello Gheddafi. A differenza degli altri paesi, in Libia si vede da subito l’ingerenza dei paesi occidentale. La Francia è il  primo paese a riconosce l’autorità del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), l’organismo politico che controllava i territori in mano ai ribelli, autoproclamandosi unico legittimo rappresentante della repubblica libica, e fa pressioni sull’Onu per poter prendere iniziative . per proteggere i civili. Si crea una no-fly zone e si rafforzava l’embargo sulle armi. Dopo i primi bombardamenti aerei contro le forze governative che cercavano di riconquistare Bengasi, il 31 marzo la Nato assumeva il comando delle operazioni contribuendo al successo dell’avanzata degli insorti in Tripolitania. Nel mese di aprile anche l’Italia partecipa alle operazioni, mentre i ribelli conquistavano Misurata (maggio). Una lunga fase di stallo caratterizzava le operazioni di guerra tra giugno e luglio ma nel mese di agosto, sostenuti dalle tribù berbere, i ribelli entravano a Tripoli mentre le truppe lealiste e Gheddafi, ricorso a più riprese all’impiego di mercenari centrafricani, ripiegavano a Bani Walid e Sirte. Dopo un lungo assedio, il 20 ottobre i ribelli entrarono in Sirte e catturarono Gheddafi, dopo che il convoglio con il quale era in fuga era stato colpito dagli elicotteri della Nato. Con la morte di Gheddafi si apriva una fase delicatissima per il paese: antagonismi e debolezze del Cnt, già emersi durante il conflitto, e l’incognita delle forze islamiste, la cui presenza determinate nel campo degli insorti è stata spesso taciuta, sono solo alcuni dei problemi da affrontare. L’assenza di una società civile, dei partiti, di un’amministrazione centralizzata e l’enfatizzazione della tribù come unica istituzione ufficiale e riconosciuta della società durante la dittatura di Gheddafi, hanno fatto della Libia un paese senza stato dove sarà difficile avviare la ricostruzione sotto la minaccia delle ingerenze dei paesi confinanti e degli interessi economici e geopolitici di Francia e Gran Bretagna. Queste previsioni si sono avverate con l’arrivo in Libia di formazioni di jihadisti affiliati all’Isis.

L’Isis e la sua lettura del califfato

All’inizio del 2014 l’Isis ha assunto in modo stabile il controllo della città di al-Raqqa (nord della Siria) e, nel mese di giugno, quello della città di Mosul, la metropoli nord irachena che conta oltre due milioni di abitanti. Alla fine dello stesso mese, la conquista di uno dei tre valichi ufficiali di frontiera tra Iraq e Siria ha offerto all’Isis l’occasione per assumere la nuova denominazione di “Stato islamico” (Is / Daesh = Al-dawla al-islāmiyya fī al-‘Irāq wa-l- Shām); e Ibrahim al-Baghdadi è stato proclamato “califfo”. 


Per l’estensione del territorio che controlla, l’accesso a risorse come il petrolio, la riscossione di tasse e il ricorso all’estorsione, Daesh è ormai una delle più potenti organizzazioni estremiste della storia recente. Il suo successo e l’uso della violenza – senza remore e ignorando totalmente le garanzie del diritto islamico classico – hanno procurato un notevole afflusso di jihadisti nelle sue fila, sia dai paesi arabo-islamici che da quelli occidentali. 
Al seguito di Daesh si sono poste altre organizzazioni islamiste di altre regioni, per esempio i “Partigiani di Gerusalemme” (Anṣār Bayt al-Maqdis), che operano nella penisola del Sinai e hanno proclamato quest’area “provincia” (wilāya) dello “Stato islamico”. 
Con al-Zawahiri (al-Qā‘ida) la rottura risale al 2014, e fra le due organizzazioni esiste una forte rivalità internazionale nel reclutamento di seguaci, ma anche su questo terreno Daesh sta ormai eclissando al-Qā‘ida, la quale  conta ancora su alcune organizzazioni affiliate:
-                     Aqap (al-Qā‘ida in the Arabian Peninsula), formatasi a partire dal 2003, collegata alla componente saudita del nucleo storico di al-Qā‘ida e nel 2009 unificatasi con il ramo yemenita. È il gruppo che ha rivendicato la responsabilità dell’attentato alla redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo (7 gennaio 2015).  
-                     Aqim (al-Qā‘ida in the Islamic Maghreb), formatasi nel 2007 come evoluzione del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento che affonda le radici nella guerra civile algerina degli anni 1992-1999, e che ha esteso le sue attività al Mali e al Niger. 

-Boko Haram
Il gruppo, che ha nome ufficiale di Ğamā‘at ahl al-sunna li-l-da‘wa wa-l-ǧihād, ma che è noto con il nome hawsa di Boko Haram, è stato fondato a Maiduguri tra il 2001 e il 2002 da Muhammad Yusuf con l’obiettivo di imporre la šarī‘a nel Bornu, con il sostegno dell’allora governatore Ali Modu Sheriff. Era in origine un centro religioso con moschea e scuola aperta a ragazzi provenienti da famiglie povere, anche dei vicini Niger e Chad. In questa scuola si parlava solo arabo; presto il centro si dà obiettivi “politici” e recluta futuri jihadisti. Nel 2004 il centro si trasferisce a Kanamma, vicino al confine con il Niger. Il gruppo è diventato noto a livello internazionale a partire dal 2009, con attentati a chiese cristiane, ad università, ed altri attentati anche contro occidentali. Nel 2015 ha dichiarato la propria fedeltà a  Daesh, il cui portavoce Abu Muhammad al-‘Adnani, ha rilasciato un messaggio audio in cui accoglie la bay ‘a (pegno di fedeltà) di Boko Haram e lo considera come un ampliamento di Daesh in Africa occidentale. 

Come si costruisce la figura del “Califfo” 

Ibrāhīm ‘Awād al-Ibrāhīm al-Badrī, autoproclamatosi “califfo” nel 2014 con il nome di Abū Bakr al-Baghdādī, è nato a Samarra nel 1971. Militante anti-americano, ha combattuto a lungo nei ranghi di al-Qā‘ida in Iraq, fino a diventarne il principale esponente. Nel 2009, dopo aver trascorso cinque anni da prigioniero nel campo di internamento americano Camp Bucca (sito presso Umm Qasr, Iraq), è stato liberato; ha  fatto perdere le proprie tracce, e ha dato vita ad una formazione denominata ISI (Islamic state of Iraq), che si è presto distinta per le centinaia di vittime tra le popolazioni sciite, sunnite e occupanti occidentali in tutta l’area di Baghdad. Dopo lo scoppio della guerra civile in Siria, la formazione è stata rinominata ISIS (Islamic State in Iraq and Siria), in arabo Daesh (al-Dawla alislāmiyya fī al-‘Irāq wa-l-Šām).
Daesh ha assunto con la forza l’egemonia sulle altre forze di insorti in Siria, ha rotto ogni legame con al-Qā‘ida e ha cominciato una vasta campagna di reclutamento. 
La figura di al-Baghdadi si distingue da altre figure, quali ad esempio Bin Laden o alZarqawi: a differenza di questi due, è colto, ha un dottorato e sa comunicare. La scelta del nome si può interpretare a vari livelli: il nome “al-Baghdadi” contiene in sé un appello e un progetto: continuare la guerra contro il Governo dell’Iraq fino alla conquista della capitale Baghdad, con un messaggio diretto a tutti quegli iracheni che, con la Seconda Guerra del Golfo e la caduta di Saddam Hussein, hanno perso lavoro e posizione sociale, e circondatosi di ex-alti ufficiali iracheni delle forze armate, della Guardia Repubblicana e dei servizi di informazione di Saddam Hussein, e appoggiano il progetto di Daesh nell’intento di «riprendersi il Paese» ed espanderne il dominio alla Siria e al Libano. Dal punto di vista simbolico e dottrinale, è ancora più significativa la scelta del nome Abu Bakr, che riconduce direttamente al primo successore del profeta Muhammad (632-634). 
Anche le modalità della prima apparizione pubblica di Abu Bakr al-Baghdadi come neo proclamato Califfo è simbolica: si è presentato nelle vesti nere che richiamano la dinastia Abbaside (750-1258); ha pronunciato il suo primo discorso in pubblico – come un imam predicatore combattente - in una moschea durante la preghiera. E anche il luogo  è simbolico: si tratta della Grande Moschea al-Nuri, costruita da Nūr al-Dīn Zangī (11181174 d.C.), che mobilitò i musulmani al jihād contro i Franchi (crociati).

Un altro tratto non privo di interesse, è l’uso che il neo-Califfo fa di alcune fonti storiche. Ad un certo punto del suo discorso inaugurale dalla Jāmiʿal-Nūrī, al-Baghdadi fa intendere di voler restaurare i confini di massima estensione del Califfato Abbaside, fino al Maghreb e alla Spagna, includendo però anche «Roma». Ora, la «Roma» di cui parlavano gli antichi dominatori Abbasidi non era l’attuale Capitale italiana (e sede dello Stato Vaticano), bensì Bisanzio (Costantinopoli), sede della «Roma d’Oriente» – fino alla sua caduta nel 1453 per mano dei Turchi Ottomani guidati da Maometto II. 

La predicazione di un nuovo “califfato”

La nascita di una nuova entità territoriale che si proclama entità statuale è una relativa novità nella galassia della violenza politica di matrice fondamentalista. È la prima volta che una formazione terrorista insorgente rivendica come propria una vasta estensione territoriale e mette in atto un proprio potere amministrativo. Questo si pone in aperto antagonismo e dissenso, fino alla rottura dichiarata, con gli obiettivi strategici di al-Qā‘ida di una guerra antioccidentale di matrice islamica volta a «liberare i luoghi santi dalla presenza dei Crociati». Si ha dunque il passaggio da un’ideologia guerriera di tipo «reattivo» a un progetto di espansione che, perlomeno nelle sue intenzioni, è il ritorno allo spirito originario della predicazione espansiva del Profeta.
Oggi Daesh governa vaste aree dell’Iraq centrale e della Siria settentrionale e rivendica ambizioni di tipo trans-nazionale, percorrendo la strada dell’affiliazione e del riconoscimento reciproco con varie formazioni estremiste islamiche che vanno dalla Nigeria all’Africa Occidentale, dall’Iraq alla Siria all’Algeria. Lo strumento simbolico per compiere questa operazione di legittimazione dottrinale è la formulazione di un progetto di nuovo Califfato. La natura di questa predicazione non è congruente con i lineamenti dell’istituzione storica califfale, ma ha una enorme forza di attrazione per le popolazioni mediorientali e per i mass media. 
Il Califfato storico (fino al 1924) ha avuto come caratteristiche la legittimazione da parte di vaste comunità di credenti e dei loro governatori, e il riconoscimento da parte di uno o più autorevoli centri di preghiera o di studio dottrinale. 
Oggi Daesh non può contare su alcuna legittimazione al di fuori dei confini che controlla direttamente, pur predicando il progetto di un Dār al-Islām che vada dalla Spagna al Maghreb a tutti i paesi di lingua araba e turca fino a Siria e Iraq, né il riconoscimento dei “dotti” musulmani (espressi dagli ìulama’ delle moschee più autorevoli, quale ad esempio al-Azhar).
La legittimazione di al-Baghdadi è puramente “combattente”, derivante dal potere armato; le sue milizie animate da un fanatismo dai toni messianici, di diversa provenienza: 
oltre agli arabi iraqeni e siriani, una folta milizia proviene dalle fila dei guerriglieri ceceni che per decenni si sono opposti alla Russia, molti afghani e turchi, molti europei. 

A differenza di al-Qā‘ida che durante la sua permanenza in Afghanistan e Pakistan ha usato come mezzo di comunicazione la lingua araba e riservato alle lingue locali (Daari, Pashtun, Urdu) il valore di puro scambio orale per le comunicazioni quotidiane di minore impatto simbolico, nel Daesh si parla e si comunica anche a livello ufficiale sia nell’arabo classico (o perlomeno in un accettabile arabo standard), sia in inglese. E l’inglese è anche la lingua franca in cui comunicano tra loro i combattenti. Questo rende la comunicazione pubblica del Daesh più pervasiva e di maggior impatto per l’Occidente. Molti esperi di comunicazione di lingua inglese, giovani che provengono dalle periferie di Londra e di altri paesi occidentali producono video-comunicati e proclami scritti di grande impatto “spettacolare” e simbolico. Ad esempio, i video in cui i neo-guerrieri muhajirīn si rivolgono direttamente al primo ministro inglese e al presidente degli Stati Uniti chiamandoli per nome sono una novità assoluta nei toni e nei registri di comunicazione fino ad ora riscontrati nella “galassia jihadista”. La configurazione della minaccia assume toni da film popolare, con un fortissimo impatto sul pubblico giovanile. 
E, pur rivendicando una filiazione diretta dal salafismo e dal wahhabismo sunnita, propone una nuova «teologia della liberazione», apocalittica e combattente. I protagonisti sono  sostanzialmente ragazzi e ragazze che scelgono di lasciarsi alle spalle le metropoli occidentali o arabe in cui la modernizzazione è imperante e di ricominciare da un “anno zero” della Storia. La predicazione associata alla nascita del nuovo Califfato giunge a presentare Shām  come una nuova Terra Promessa. E il messaggio è di tipo apocalittico: siamo ormai vicini alla fine dei tempi e che la battaglia finale con le forze occidentali è ormai vicina. Essa avrà luogo, secondo la i proclami di Daesh, nella città di Dābiq. 
È importante sottolineare che, grazie alla sua consistenza reale come «insediamento territoriale», Daesh è un progetto attrattivo proprio per tutti coloro che, in Occidente o in Medioriente, non si sentono più «a casa». Combattenti e reduci, estremisti ricercati e perseguiti dalle polizie e dalle forze di sicurezza dei Paesi arabi, giovani musulmani emarginati, e anche giovani convertiti della borghesia europea piccolo-media, che sentono il bisogno di riscattare la loro esistenza con un grande «salto di qualità». In sostanza, tutte queste reclute di Daesh dichiarano che preferiscono «combattere o morire per il Profeta» piuttosto che accettare lo stato di cose esistente. E questo costituisce un grande motivo di allarme soprattutto in questo periodo di crisi economica, in cui i giovani stentano a integrarsi nel mondo del lavoro e a costruire una famiglia, su entrambe le sponde del Mediterraneo.

L’imposizione del potere e la distorsione del concetto di Ridda.
L’imposizione del nuovo potere califfale del Daesh avviene come è noto applicando una violenza indiscriminata contro tutti coloro che non si adeguano immediatamente a una formulazione della sharīʿa intesa nel senso più assolutistico, come vero e proprio “terrore rivoluzionario”. Anche in questo caso la nuova classe dirigente che si raccoglie intorno ad al-Baghdadi cerca legittimarsi citando un versetto del Corano (Q. 4, 89) e diversi Hadith che, secondo molti interpreti, autorizzano la condanna a morte «per apostasia» (ridda). La realtà è ben diversa da quanto però predicato nei testi storici. I guerriglieri ricorrono in realtà a una giustizia sommaria, cioè passano per le armi senza alcun processo sia i musulmani sciiti, sia le numerosi minoranze etniche e confessionali che popolano l’Iraq: curdi, yazidi, assiri (cristiani), turcomanni  sciiti  vengono deportati e massacrati, e le donne sono ridotte in schiavitù e assegnate come concubine, o vendute come schiave alla forza combattente. 
Invece di pretendere un’ imposta speciale da parte dei non-musulmani, come più volte praticato nella storia politica dell’Islam, Daesh passa all’esproprio diretto e totale di immobili, depositi bancari e ogni altro bene appartenente ai non musulmani. Questo esproprio permanente tocca in alcuni casi, sullo stile di un esercito di occupazione più che di un potere legittimo, le stesse popolazioni sunnite delle zone di Mosul e Raqqa. Insomma, la violenza apocalittica del nuovo Califfato, piuttosto che «amministrare i credenti», scatena flussi di migliaia di profughi terrorizzati.

Nel settembre 2014 oltre 120 studiosi musulmani di tutto il mondo hanno indirizzato una lettera aperta al Califfo, rifiutando le interpretazioni che egli dà del Corano e degli Hadith per giustificare le sue azioni. Nella lettera si definiscono queste azioni come dei veri e propri «atroci crimini di guerra», accusando il Califfo di fomentare la Fitna, ovvero la contrapposizione e la guerra civile tra musulmani.

La neo-economia califfale

Un altro aspetto innovativo, ma al contempo tradizionale del Daesh consiste nel fatto di affiancare alle tradizionali forme di finanziamento del ǧihād sunnita anche una propria autonomia economica: alle appropriazioni e confische si somma la conquista di pozzi petroliferi nel nord della Siria. La grande disponibilità di risorse e attività dà autorevolezza e consistenza inedite al nuovo messaggio Jihadista.
Mentre al-Qā‘ida è basata su una rete transnazionale di militanti costantemente impegnati a non farsi localizzare, mimetizzandosi tra le popolazioni locali in Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia, ecc., Daesh al contrario si insedia e si localizza in una vera e propria economia territoriale di tipo para-statuale. Capitale della nuova entità è al-Raqqa, dove i nuovi dominatori hanno ripristinato l’erogazione dell’energia elettrica, dei servizi sociali di base e dei trasporti.
Inoltre, tra le comunicazioni divulgate dagli uffici amministrativi del Califfato vi è il progetto di coniazione di un nuovo «Dinaro Islamico». Gesto per il momento solo simbolico, che però afferma il diritto formale del Dāʻsh di emettere una moneta legittima. D’altra parte, chi si aggiunge a Daesh, ottiene lasciapassare e documenti amministrativi rilasciati dal nuovo centro di potere.

Ideologia confessionale

La matrice ideologica e confessionale di partenza della nuova compagine è parzialmente affine all’ideologia jihadista di al-Qā‘ida. Vi affluiscono spezzoni dell’ideologia remota degli integralisti islamici tunisini dello scorso secolo, e dei Fratelli Musulmani egiziani, che furono i primi a formulare nella modernità la necessità del ǧihād mondiale (prima di convertirsi a un progetto di conquista del potere per via legale). Vi sono poi elementi della predicazione che si rifanno al salafismo hanbalita (risalente agli scritti di Ahmad b. Hanbal, 780-855) e wahhabita (risalente agli scritti di Muhammad b. al-Wahhab, 17031792). Questa corrente afferma il «ritorno alle origini» delle prime comunità di credenti, e rivendica il diritto di un accesso diretto nell’interpretazione in proprio del Corano e della sunna profetica, senza accettarne le versioni moderne. Applica al Corano una rilettura e una interpretazione in chiave «autentica e letterale», che viene adattata con grande agilità a tutte le esigenze della vita moderna: vengono riscritti i programmi scolastici, si applicano divieti estensivi verso la musica pop, il fumo di sigarette, e perfino del narghilé, che pure sono pratiche diffusissime in tutto il mondo islamico. La volontà di «purificare» la comunità impone il velo integrale o niqāb a tutte le donne, cui viene prescritto di rimanere in casa salvo casi di necessità. . In alcune aree della nuova amministrazione territoriale si è arrivati a proibire lo studio della matematica in età infantile, sostituendola con l’apprendimento a memoria del Corano. Sono proibiti anche la maggior parte degli sport, e l’assistere a spettacoli sportivi anche in Televisione.
L’applicazione integrale della sharī’a, può incontrare simpatie e sostegni dall’estero, come in parte dell’opinione pubblica saudita, che vi vede un rispetto letterale dell’ideologia di origine wahhabita propugnata dalla dinastia al potere. L’aspetto più attraente, sul piano della simpatia e del sostegno ideologico, rimane comunque il ripudio della modernità occidentale.
L’aspetto più paradossale riguarda invece la grande disinvoltura con cui i nuovi capi guerrieri, che proibiscono nel loro territorio l’accesso ai mass media, fanno uso di Internet e dei social media per la loro propaganda mondiale. In decine di video confezionati con grande perizia produttiva si enunciano i principi di combattimento, o si mostrano dei macabri rituali di decapitazione di ostaggi (perlopiù occidentali). Quest’ultima attività, oltre a destare orrore e sgomento nelle opinioni pubbliche occidentali, ha anche una valenza di comunicazione e di rivendicazione inter-islamica: al pari della Casa regnante saudita, che ha tra i propri privilegi la comminazione di pene corporali severissime, e di decapitazioni trasformate in spettacoli pubblici, Daesh rivendica in questo modo la propria «legittimità statuale» mostrando delle «pubbliche esecuzioni» su Internet.

La frattura generazionale

Un tratto fortemente innovativo di Daesh, e del nuovo jihadismo in genere, è l’età media di poco superiore ai vent’anni della maggior parte delle nuove reclute. Ma soprattutto il fatto che molti dei capi combattenti irridano apertamente ai centri di elaborazione universitaria, agli imām e ai maestri di studi coranici anziani, ripudiandoli come «venduti e schiavi dell’Occidente». Alcuni «predicatori combattenti» del Dāʻsh hanno un’età di 24-25 anni, cosa inedita nel mondo dell’estremismo confessionale, che in pochi mesi ha fatto apparire alcuni capi terroristi, come Ayman al-Zawahiri (al-Qā‘ida) come dei relitti del passato.


             
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