lunedì 28 agosto 2017

PERCHE' PREGARE?



HANNO SENSO GLI ESERCIZI SPIRITUALI DEGLI ADULTI?
Paolo Cugini

Ho visto volti perplessi, sorrisini, ammiccamenti alla mia proposta di partecipare agli esercizi spirituali degli adulti. Qualcuno mi ha detto chiaramente che quello che vale è il fare, più che il pregare. Sono d’accordo, anche perché a che serve pregare se poi non facciamo nulla. L’imbarazzo nel proporre un momento di preghiera è la cartina di tornasole del cammino delle nostre comunità parrocchiali. Siamo contenti di riuscire a coinvolgere i giovani nelle cose pratiche, nel servizio durante le sagre, nei tornei. Ma se quando ai giovani proponiamo momenti di preghiera non si presenta nessuno o quasi, il dato non ci disturba più di tanto, perché perlomeno ci sono quando conta, cioè quando c’è qualcosa da fare. In fin dei conti i figli sono il riflesso dei genitori, perlomeno fino ad un certo punto, a quel punto, cioè, in cui un figlio decide di prendersi in mano e fare il proprio cammino.
Se la vita cristiana è imitazione a Gesù allora è proprio a Lui che dobbiamo guardare, per verificare se il nostro pensiero e il nostro modo di fare è in sintonia con colui che desideriamo e diciamo di seguire. Ebbene risalta come un dato preponderante il primato della vita spirituale sull’azione in Gesù. Lo testimonia la sua adolescenza e giovinezza immersa nel silenzio. Lo testimoniano i quaranta giorni trascorsi nel deserto prima d’iniziare l’attività pubblica. Lo testimonia infine, l’abitudine segnalata dai quattro evangelisti che Gesù aveva di trascorrere molte ore in preghiera alla notte, o alla mattina presto: “Uscì e se ne andò, come al solito, al monte degli ulivi” (Lc 22,39). Era così intensa la sua vita di preghiera che gli stessi discepoli un giorno gli hanno chiesto di insegnare loro a pregare. Ecco perché, nella famosa scena descritta dall’evangelista Luca, che descrive una visita di Gesù alle sorelle Marta e Maria, mentre Marta era intenta alle faccende di casa, Maria invece se ne stava seduta ad ascoltare il Signore, Gesù dice che Maria si era scelta la parte migliore. “Una sola è la cosa di cui c’è bisogno” (Lc 10,42).
Se la testimonianza di Gesù era così cristallina era grazie al rapporto prioritario che aveva con il Padre. Era grazie alle ore di preghiera quotidiane che facevano di Gesù un uomo fermo, coerente, che resisteva alle pressioni dei farisei e di tutti coloro che lo odiavano. Grazie all’amore del Padre di cui si riempiva quotidianamente immergendosi nella preghiera, Gesù riusciva a trasmettere forza e coraggio ai sui discepoli e alle sue discepole anche nei momenti più duri, come la passione. Del resto Gesù, durante la sua vita pubblica, lo aveva ripetuto in più di un’occasione che prima di tutto occorre amare Dio. È il primo comandamento quello di amare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima e il secondo consiste nell’amare il prossimo come se stessi. C’è un primo e un secondo: il cammino della vita spirituale ha come obiettivo di mettere in ordine questa progressione. L’azione che realizziamo potrà essere segno della presenza di Dio nella storia, quando procede da quella Parola che ci siamo abituati a mediare al mattino prima di compiere qualsiasi altra cosa. Il rischio grande è che le cose che facciamo anche in parrocchia, più che avere il sapore di Dio, della sua misericordia, della sua gratuità e giustizia, portino il segno del nostro egoismo, della nostra arroganza, del nostro desiderio di metterci in mostra. Spesso le azioni sono identiche ma, provenendo da fonti differenti, portano con sé segni differenti. Da quello che facciamo e da come ci muoviamo si vede da dove proveniamo e dove vogliamo andare.

Sarebbe bello che i vostri figli v’interrogassero sul fatto che per alcuni giorni mettete in secondo piano le attività quotidiane per partecipare agli esercizi spirituali. Forse non capiranno subito, ma dagli effetti che il rapporto con il Signore produrrà sulle nostre vite e sulle nostre scelte, potranno sentire il desiderio di partecipare anche loro e capire così che, quando ci dedichiamo alla preghiera, non stiamo buttando via del tempo, ma lo stiamo recuperando. Alla grande. 

venerdì 25 agosto 2017

ESSERE FIGLI NELLA SOCIETÀ POST CRISTIANA



RIFLESSIONI A PARTIRE DALL'ULTIMO LIBRO DI MASSIMO RECALCATI

Paolo Cugini

Con Il segreto del figlio[1], lo psicoterapeuta Massimo Recalcati porta a compimento una sorta di trilogia dedicata alle figure del padre[2]e della madre[3], nello sforzo di ripensare i ruoli del tessuto familiare alla prova dei nuovi paradigmi che la società post moderna sta imponendo. Ci sono dei cambiamenti in atto che non solo sono epocali, ma che stanno producendo dei cambiamenti così rapidi che esigono la necessità di essere compresi per non correre il rischio, come spesso accade, di trasferire nel presente modelli educativi ormai obsoleti.
Secondo Massimo Recalcati “mai nessun tempo come il nostro ha dedicato tanta attenzione premurosa al rapporto fra genitori e figli. Il figlio assomiglia sempre di più a un principe al quale la famiglia offre i suoi innumerevoli servizi”. Nell’epoca in cui si è sgretolata la figura del padre e la presenza della madre è sempre più ambigua, si cerca sempre di più, sino al parossismo, il dialogo con i figli, l’empatia. Questo sforzo ha prodotto con il tempo un’alterazione della differenza simbolica che distingue i figli dai genitori, al punto che i figli rivendicano la stessa dignità simbolica dei loro genitori, gli stessi diritti, le stesse opportunità. La perdita di significanza del fine, tipico della società post cristiana, assume i contorni della formazione di un nuovo paradigma culturale che sta contaminando tutti i settori della vita, compreso quello famigliare. È vero che oggi non esiste più lo sguardo severo e punitivo della Legge del padre, che per secoli ha schiacciato la vita del figlio sotto il peso della colpa. È vero anche che, in un certo senso, è alle spalle quel tempo in cui la società religiosa rivelava il volto repressivo esigendo il sacrificio morale del desiderio. È altrettanto vero, però, che sembriamo vivere il paradossale capovolgimento di questa situazione. “L’assenza della Legge e del senso di colpa – sostiene Recalcati – hanno generato una nuova forma di umanità insensibile alla vita dell’altro e alla sua differenza, capace d’interpretare la vita in una modalità esclusivamente predatoria”.
Il rischio di questa nuovo prospettiva è l’azzeramento di ogni senso di responsabilità. La vita del figlio sembra dover prodursi nel cammino di una realizzazione di sé che esclude il tempo necessario della fatica e della sconfitta. “La cultura oggi dominante dell’empatia e del dialogo incessante vorrebbe smussare gli spigoli duri della vita, consentendo ai nostri figli un cammino privo d’inciampi e di ostacoli”. Non si percepisce più che la vita per evolversi e svilupparsi ha bisogno d’incontrare ostacoli e che questi sono parte essenziale del cammino della crescita. Proteggere i figli dagli ostacoli significa non permettere loro di crescere, di misurarsi con la realtà, di attivare la propria capacità di adattamento alle situazioni. L’intelligenza, infatti, più che identificarsi con un voto scolastico, si manifesta nelle modalità messe in atto per adattarsi ai diversi ambienti e alle difficoltà incontrate. La cosa peggiore che può avvenire a dei genitori è pensare che comprendere i propri figli significhi fare di tutto per rendere loro facile la vita, sempre in discesa, priva di pericoli e di ostacoli. Sono, invece, proprio gli ostacoli, le difficoltà che permettono ai figli di crescere, di divenire, in altre parole, loro stessi. In un certo senso, è proprio affrontando i pericoli della vita che un figlio scopre la propria differenza, il proprio essere diverso dai genitori. È quello che Recalcati chiama il segreto del figlio, vale a dire il suo essere altro dai genitori, che l’illusione dell’empatia, dello sforzo d’immedesimazione messo in atto dai genitori verso i figli, vuole cancellare. Il figlio, per sua natura, si ribella all’eredità che gli altri gli hanno preparato.
Questa dinamica è ben visibile nella parabola del figliol prodigo raccontata nel Vangelo di Luca. “Dammi la parte che mi spetta”. Nella parabola di Luca il viaggio del figlio nasce con una falsa partenza, quella della proclamazione di una libertà che respinge il debito simbolico. “È il velleitarismo di molti adolescenti ribelli che fondano la loro libertà sul consumo di sostanze più che sull’interpretazione dell’eredità come compito, come riconquista soggettiva”. Il destino del figlio sembra sprofondare in un godimento dissociato dal desiderio. Nel suo viaggio non c’è amore, né conoscenza, né realizzazione professionale o umana. In ogni modo il viaggio del figlio esprime un dato incontrovertibile, vale a dire il fatto che la famiglia non può mai esaurire l’orizzonte del figlio. Appartenere ad una famiglia non significa e, soprattutto, non comporta l’identificazione. Recalcati, commentando il brano di Luca, sostiene che “appartenenza ed erranza sono due poli egualmente fondamentali del processo di umanizzazione della vita […] I figli necessitano di trovare nei propri genitori degli ostacoli anche quando questi non lo sono perché il conflitto custodisce la differenza simbolica tra le generazioni ed è dunque un passaggio indispensabile alla formazione della vita”.
Che cosa dice di significativo la figura del padre protagonista nella parabola del figliol prodigo? In primo luogo, che la Legge che lui incarna è a servizio della vita e non il contrario. Per questo lascia andare il figlio e lo asseconda nelle sue esigenze. È un padre che sa stare al proprio posto, che accetta la differenza del figlio, permettendogli, in questo modo, di realizzare il suo desiderio. Non lo condanna a morte, ma lo lascia andare; non gli chiude la porta di casa, ma lo avvolge nel silenzio che dice del rispetto di un’alterità che deve rimanere tale. 
Il viaggio ha cambiato il figlio, lo ha reso profondamente diverso da quello che era quando è partito. Possiamo dire che senza la rottura iniziale, senza il viaggio il figlio non avrebbe mai scoperto se stesso. Il viaggio ha trasformato il suo essere. “Solo l’erranza, non l’identità chiusa su se stessa, può generare conoscenza”. È lo scontrarsi con le situazioni della vita che permette al figlio di divenire altro, di scoprire se stesso, di capire chi è. Se fosse rimasto nella casa del padre – com’è successo all’altro figlio -, se fosse rimasto intrappolato dalla paura della Legge, non avrebbe mai avuto la possibilità di sapere chi era, nel bene e nel male. Il figlio che torna è molto diverso dal figlio che era partito: è un’altra persona. Recalcati sottolinea che, quando il figlio decide di ritornare a casa, l’incontro con il padre si rivela un’autentica sorpresa. Infatti, mentre il figlio si attendeva la punizione della Legge, riceve dal padre un’accoglienza carica d’affetto e d’amore. Da parte del padre non c’è nessuna applicazione inesorabile della Legge, ma un movimento, un correre che dice della logica dell’amore. Il perdono implicito del padre nell’abbraccio al figlio, rende possibile il pentimento come trasformazione autentica. Il perdono dona la possibilità di un’altra occasione, di un’altra possibilità. Il figlio ha potuto ritrovarsi perché si è perduto e perdendosi ha avuto la possibilità di conoscere la verità del padre. Non solo, ma perdendosi ha potuto vivere fino in fondo le asperità del reale. Al contrario, il figlio che rimane all’ombra del padre, non può fare la festa del ritrovamento. “Il padre di cui parla la parabola di Gesù – conclude Recalcati – è il padre che sa amare il segreto del figlio, che lo sa lasciare andare verso la sua strada e che lo sa anche attendere, amare, perdonare […] Il Padre che sa perdonare è il padre che sa amare, che sa esporsi senza riserve all’incognita del figlio, che sa tramontare”.
Il perdono non nasconde le crepe di una relazione interrotta, ma le valorizza, anche perché il figlio ritornato non è più lo stesso e il perdono non riporta alla situazione iniziale, ma sancisce la realtà di una presenza diversa del figlio. Il perdono del padre verso il viglio dice della sua libertà nei confronti del figlio, dice che in lui non è avvenuto un processo d’identificazione, ma che l’essere padre comporta che il figlio compi il suo cammino. Il perdono del padre non significa quindi, la ricostruzione del punto di partenza, ma l’accettazione delle rotture avvenute, nella consapevolezza che le lacerazioni e le rotture sono parte costitutiva del cammino.
Che cosa dice questa parabola ai genitori che vivono nell’epoca della post cristianità? Secondo Recalcati nel tempo in cui tramonta la Legge che punisce e castiga “il compito primo dei genitori è quello di aver fede nel segreto incomprensibile del figlio e nel suo splendore. Non esigere che la sua vita ripercorra le nostre orme, che condivida i nostri interessi, che ripeta la nostra vita. Lasciare invece che il figlio nel suo viaggio possa perdersi e smarrirsi, che possa conoscere la sconfitta e la ferita per trovare il proprio passo”.
È certamente questa di Recalcati un’affermazione in controtendenza, ma che mi trova d’accordo. Il figlio è un dono di Dio e, proprio per essere un dono, mantiene in sé non solo un aspetto di gratuità, ma anche di mistero. Il mistero del figlio racchiuso nel dono è un invito ai genitori per realizzare un cammino alla ricerca di sé stessi, delle proprie motivazioni, di ciò che nell’infanzia o nella giovinezza è stato represso o nascosto a se stessi. Il figlio come dice di una diversità che deve rimanere tale e che non può essere fagocitata e schiacciata nelle proiezioni affettive di paternità e maternità non risolte e insoddisfatte. Il mistero del figlio è un’occasione occasione donata da Dio ai genitori per riprendere il viaggio della conoscenza di se stessi, per riprendere in mano un cammino a volte interrotto a causa del vortice dei ritmi impressi dalla società nella quale ci si trova inseriti.




[1] RECALCATI, M., Il segreto del figlio. Da Edipo al figlio ritrovato, Feltrinelli, Milano 2017
[2] ID., Che cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina ceditore, Milano 2011
[3] ID, Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, Feltrinelli, Milano 2015

sabato 19 agosto 2017

LA CONTAMINAZIONE ERMENEUTICA




La comunità dei fedeli dinanzi alla Scrittura
Paolo Cugini


Ci sono voluti parecchi secoli per giungere a leggere la Bibbia in modo tale da poterne comprendere il senso. Ci sono voluti secoli per fare in modo che la Bibbia diventasse Parola di Dio per gli uomini e le donne, che potesse dire qualcosa per loro, per il loro vissuto, per aiutarli a vivere in modo autentico la loro umanità, a partire dalla loro realtà. Ci sono voluti millenni per uscire dall’idolatria della lettera per entrare, finalmente, nel mondo dello Spirito. Era impossibile, infatti, che parole scritte alcuni millenni fa, potessero dire qualcosa di sensato per l’uomo e la donna di oggi. Era impossibile che un testo così vecchio potesse essere attuale, vivo. Nessuna parola è, infatti, pura. Anche i discorsi riportati nella Bibbia sono intrisi di cultura, di tradizioni locali, di modi di dire legati ad una particolare regione, di visioni del mondo inerenti ad un particolare periodo storico. Ce lo hanno insegnato Heidegger e soprattutto Gadamer, come vedremo, che qualsiasi linguaggio non è mai puro, ma è portatore di tradizione che vanno comprese, interpretate. Com’era possibile pensare che la lettera così intrisa di terra e di storia potesse rimanere attuale per tutti i secoli e per tutte le culture di ogni tempo e latitudine? Eppure è avvenuto così. Nonostante san Paolo avesse allertato che la lettera uccide e che è lo spirito a dar vita, per molti secoli si è imprigionata la Parola viva nella lettera morta. Senza dubbio esiste un senso letterale che va ascoltato e rispettato. Già i Padri della chiesa, però, sollecitavano i fedeli a cercare il senso spirituale. Per aiutare in questa ricerca avevano messo a punto il metodo tipologico, ponendo in parallelo i testi del Nuovo Testamento con il Primo Testamento. In questo modo, si metteva in risalto il carattere di compimento della presenza di Gesù nella storia, oltre a porre in rilievo la continuità della storia della salvezza. Il metodo tipologico permetteva, poi, di comprendere come nella prospettiva della salvezza, la venuta di Gesù Cristo fosse il punto culminante del processo storico-salvifico. Anche il metodo allegorico, messo a punto da Filone Alessandrino qualche decennio prima della venuta di Gesù, aveva offerto qualche spunto importante per uscire dalle paludi della lettera. Ci sono voluti parecchi secoli per arrivare con Schleiermacher a prendere sul serio la questione dell’interpretazione del testo sacro. In mezzo c’è stata la diatriba di Lutero con la Chiesa che ha ritardato i tempi. Perché tanta resistenza a comprendere che la lettera ha bisogno di essere approfondita per liberare il contenuto che porta? Un testo come la Bibbia che viene da molto lontano ed è portatrice di tante tradizioni, di tante mani, che emana il fragore proveniente da tante culture, da tante storie, non può essere preso con superficialità, non può essere letto solamente sul piano letterale. Come si può pensare che basta leggere un testo così per capirne subito il senso? Com’è possibile identificare la Parola di Dio con la lettera? Quante persone sono state distrutte, nel senso letterale del termine, perché si è identificato il significato con la pura lettera. Galileo è l’esempio più eclatante. Ma non c’è bisogno di scomodare Galileo. Basta osservare quello che avviene anche oggi in tante comunità cristiane, non solo cattoliche. Nell’introduzione della Bibbia delle comunità neo-pentecostali c’è scritto a chiare lettere che, pur riconoscendone il valore, loro rifiutano l’apporto del metodo storico-critico applicato alla Bibbia. È meglio vivere con la testa sotto la sabbia che guardare in faccia la realtà. Se nonostante tutti gli sforzi sia della scienza che della filosofia ermeneutica per comprendere meglio il senso del testo, c’è chi li rifiuta e si nasconde dietro alla lettera, significa che, a questo punto, Dio e la religione non c’entrano più. Entriamo a questo punto nell’ambito delicato della psicanalisi, che non è quello che ci riguarda.
Se osserviamo in modo sincronico il percorso della storia notiamo che quando più il dibattito nella Chiesa si concentra sul problema del ruolo del papato, tanto più il dibattito sulla Parola di Dio perde d’interesse. Questa distonia la si percepisce leggendo i documenti ufficiali della Chiesa nei quali, ad un certo punto, perdono sempre più peso le citazioni della Scrittura a favore delle citazioni delle encicliche dei papi. La scarsa attenzione alla Scrittura è senza dubbio uno dei motivi fondamentali che ha fatto slittare in avanti il problema della sua interpretazione. L’attenzione all’ascolto della Parola veniva sostituito con la formulazione dei dogmi e della dottrina. Essere cattolico ha voluto dire, ad un certo punto del percorso storico, conoscere la dottrina. Non ci si è resi conto che, in questo modo, si cadeva in una sorta di gnosticismo volgare, a basso costo. In questo clima teologico e spirituale il devozionismo moderno ha trovato spazio nel cuore del cattolicesimo. Se non era più la Parola di Dio a guidare la comunità cristiana, ma un insieme di precetti che venivano memorizzati assieme alla partecipazione di alcuni riti, allora la dimensione individuale della vita spirituale slegata dal piano sociale, veniva facilitata. In un certo senso potremmo dire che ad un certo punto del cammino della Chiesa non interessava più e non serviva interpretare la Sacra Scrittura. La vita spirituale era già piena di devozioni e di precetti che assolvevano il compito di alimentare la fede dei fedeli. Oltre a ciò, la Scrittura dall’epoca dei Padri non era più il riferimento principale che alimentava la vita della comunità. Persino nella liturgia la Parola di Dio non aveva un ruolo centrale, ma secondario, anche perché nella liturgia, a partire dal secolo VII, avviene un processo di progressiva ritualizzazione. Non è più importante la Parola di Dio che provoca la conversione dei cuori, ma il poter vedere il corpo di Cristo sacramentalizzato. Alla fede non ci si arriva attraverso una presa di coscienza che coinvolge tutto l’essere personale e dove, perlomeno in Occidente, la ragione ha un peso fondamentale, ma per via sentimentale. Le grandi predicazioni degli ordini mendicanti, preoccupate a stimolare i sensi di colpa degli ascoltatori, più che un’autentica conversione del cuore, che muove ad una scelta consapevole e ad un impegno comunitario, toccavano soprattutto il sentimento, più che della ragione. Il cristianesimo, oltre a divenire la religione dell’impero, diviene un fattore sociale e politico. Il distacco tra scienza e fede, tra religione e ragione, avvenuto nell’epoca moderna, ha trovato il terreno favorevole nel cambiamento che lo stesso cristianesimo ha subito a partire da Costantino nel IV secolo. Allo stesso, tempo, però, è giusto sottolineare che anche nell’epoca moderna fede e scienza non si sono totalmente ignorati. Diversi, scienziati, infatti, non hanno mai nascosto sia la propria fede che il proprio interesse per il mondo religioso. Su tutti vale la pena citare Isac Newton che, tra i suoi numerosi scritti scientifici, annovera anche dei commentari biblici.
La necessità di porsi in modo critico dinanzi alla Parola di Dio avviene in Occidente sia come conseguenza dell’importanza che le chiese protestanti attribuivano alla Bibbia, sia a causa del cambiamento del contesto sociale e culturale. Da una parte l’illuminismo, dall’altra il crescere dell’approccio scientifico alla realtà dovuto alle scoperte e alle invenzioni dell’epoca moderna hanno aperto lo spazio per una contaminazione positiva anche nel tessuto religioso ed ecclesiale. Sempre di più la ragione si separa dalla fede, relegandola nella sfera del magico. D’altronde la Chiesa, dopo l’epoca d’ora dei Padri, immersa nella difesa del potere temporale e degli intrighi politici, aveva abbandonato l’interesse per le disquisizioni sofisticate, relegandole al dibattito universitario tra francescani e domenicani. Il problema ermeneutico nasce dall’impulso delle scienze moderne che iniziano ad approcciare un testo antico in modo nuovo. Si percepisce che un testo non è solo l’espressione del pensiero di un autore, ma lo stesso porta con sé residui culturali del suo tempo, opinioni, modi di essere e di dire. Per cogliere l’oggettività del testo o per giungervi vicino, occorre uno sforzo scientifico di rilievo. È con la Nouvelle Histoire che sviluppa il suo progetto scientifico attorno alla rivista Les Annales fondata nel 1924, che viene messa in mostra tutta l’efficacia dell’armamentario scientifico per analizzare un periodo storico a partire dai suoi documenti. Psicanalisi, antropologia, etologia, geografia, archeologia: tutto ciò che può aiutare ad intervenire per comprendere meglio un periodo storico, un documento, è il benvenuto. C’è una prima osservazione che mi sembra necessaria: d’ora innanzi risulta chiaro che nessuno testo può essere osservato da una sola prospettiva. Il testo è portatore di una pluralità di contenuti che esigono una pluralità di strumenti per essere compreso. Se ciò è vero in linea generale, tanto più per i testi antichi come, per l’appunto, i testi della Bibbia. Finalmente si esce dall’infantilismo idolatrico del primato della lettera. Pluralità di espressione che del resto troviamo espressa già dal testo biblico, che è tutto fuorché un testo univoco e uniforme.
La Chiesa ufficiale si è difesa all’estremo dinanzi all’approccio scientifico dei testi Sacri. Il problema dal suo punto di vista non consisteva tanto nel comprendere meglio un testo, ma di perdere l’unicità d’interpretazione sullo stesso. Ammettere il metodo storico-critico, avrebbe voluto dire permettere a qualcun altro di mettere il naso in qualcosa che da sempre era stata priorità esclusiva del magistero ecclesiale. Il problema non era la comprensione, ma l’autorità sul testo. La polemica modernista, che ha avuto nell’enciclica Pascendi di Pio X nel 1907 l’apice estremo, è stato il terreno culturale sul quale si combattuto una guerra persa in partenza. La Divino afflante Spiritu di Pio XII del 1943, infatti, riapriva le porte agli studi biblici, mostrando che era ormai impossibile resistere all’evidenza ermeneutica della necessità di un approccio nuovo ai testi Sacri. Non era, infatti, solamente la pressione che veniva dal mondo scientifico in generale, ma anche dalle nuove correnti teologiche, come la Nouvelle Théologie, che spingevano la Chiesa ad aprirsi al nuovo. Viene da chiedersi: come mai queste resistenze? Sarebbero tante le risposte che si potrebbero dare e che in parte abbiamo abbozzato poco sopra. Ciò che è importante è che la contaminazione scientifica avvenuta nell’epoca moderna e che non permette alla religione d’isolarsi e di chiudersi in se stessa, apre le porte ad un’altra più profonda contaminazione, quella ermeneutica. In fin dei conti il rapporto tra un testo ed un lettore non chiama in causa solamente tradizioni culturali, aspetti antropologici e geografici, ma anche e soprattutto il linguaggio. Se Dio Parla all’uomo utilizzando il suo piano di comunicazione e di comprensione, significa che è proprio questo livello che è necessario approfondire.
In Lettera sull’umanismo (1946) Heidegger sosteneva che il linguaggio è la casa dell’essere. Il linguaggio è ciò che l’uomo dispone per conoscere il mondo. La nostra esperienza del mondo è condizionata dal fatto che abbiamo un linguaggio che ereditiamo. Il disporre di un linguaggio significa che l’uomo è dialogico. L’ermeneutica è una parola inconsueta. Ermeneutica deriva dal dio Ermes (Mercurio) è il dio che porta i messaggi agli dei.  Ermeneutica, in questa prospettiva, è l’arte dell’interpretazione dei messaggi che non sono evidenti. È un insieme di regole dirette a interpretare dei testi. Nel ‘900 si parla di ermeneutica come di una filosofia. È una filosofia che pensa che il fenomeno dell’interpretazione non riguarda solo il rapporto con testi difficili, ma è un fenomeno che riguarda tutta l’esistenza. Quando guardiamo il mondo lo interpretiamo, disponiamo degli schemi che ereditiamo con la lingua materna. “Non c’è esperienza del mondo – sostiene Gianni Vattimo - se non attraverso un linguaggio che abbiamo ereditato, la conoscenza è allora interpretazione piuttosto che riconoscimento di qualcosa di oggettivo. Questo non è un difetto. Qualunque rapporto con il mondo è interpretazione: questo non è un limite ma è un patrimonio”. Questo vale anche per il testo biblico. Gli autori, mentre scrivono un testo ispirato, trasmettono anche, attraverso il linguaggio, ciò che hanno ereditato dalla cultura in cui vivono, dalle idee che si sono fatte sul mondo, dalle motivazioni che lo hanno spinto a scrivere. C’è, allora un’intenzionalità nel linguaggio, che è interpretazione e che, dunque, va approfondita e colta. Cogliere questo aspetto è comprendere il senso profondo del mistero dell’incarnazione, il paradosso dell’eterno che entra nel tempo. In fin dei conti il testo sacro è la manifestazione di questo mistero. Credere nella Parola di Dio significa credere nell’incarnazione del Verbo e della possibilità d’incontrare Dio nella carne umana, nella lettera scritta. Per questo motivo, il comprendere esige uno sforzo, una fatica che dice di un desiderio d’incontrare Dio. L’ermeneutica ha fornito uno strumento importante per aiutare chiunque a comprendere il testo. Possiamo tranquillamente sostenere che l’ermeneutica ha cambiato il cammino della Chiesa, l’ha per così dire liberata dalla sua gabbia dorata, l’ha costretta al confronto con il mondo. Abitare il linguaggio biblico con un’attenzione ermeneutica, dovrebbe produrre da parte dei suoi lettori e delle comunità che hanno come riferimento la Bibbia, un atteggiamento dialogico e tollerante. Se la Parola di Dio ha bisogno per essere meglio compresa di una diversità di strumenti ermeneutici ed euristici, lo stesso dovrebbe fare la comunità che si raccoglie attorno al testo, vale a dire non chiudersi, ma mantenersi aperta ai vari significati di cui il testo è portatore. 
La contaminazione ermeneutica ha permesso alla comunità cristiana di togliere il velo sul significato autentico della verità che la Bibbia intende comunicare. Lungi, infatti, dall’essere una verità di tipo assiomatico e matematico, che esige un’assimilazione fredda e asettica dei contenuti, la rivelazione della verità di Dio in Gesù Cristo avviene sul piano della storia ed è su questo piano che va incontrata. Se questo è vero, allora l’interpretazione del testo si fa aiutare sia dal metodo storico-critico che dall’ermeneutica per comprenderne a fondo il significato. È, però, la comunità riunita che può cogliere il senso profondo della Parola rivelata. La Parola di Dio è, infatti, una parola contestualizzata che parla ad una comunità specifica che vive in uno specifico contesto. È la comunità che diviene il luogo privilegiato per comprendere la Parola. La comunità usufruisce degli strumenti che il metodo storico-critico ha elaborato per sviscerare il testo e poi si pone in ascolto per comprendere il cammino che la Parola indica. La comunità dei fedeli diviene quindi, lo spazio privilegiato per l’interpretazione della Scrittura. La contaminazione ermeneutica, oltre ad aiutare nella comprensione del testo, ha contribuito a riportare la Parola di Dio nel suo luogo spirituale originario, vale a dire la comunità dei fedeli riuniti. In questo modo, i danni causati dal devozionismo moderno che aveva provocato la chiusura della dimensione religiosa nella sfera individuale, vengono attenuati e indirizzati verso la dimensione comunitaria della religione. Scrivo attenuati perché il devozionismo con la tendenza alla chiusura nella sfera individuale è ancora, non solo molto viva e presente nel panorama religioso attuale, ma anche incentivata. Uscire dalla palude individualista per riscoprire la dimensione comunitaria del cristianesimo è uno dei contributi più significativi dell’approccio ermeneutico alla Sacra Scrittura.