Paolo Cugini
Nel
nuovo contesto culturale definito come post-moderno o post-secolarizzato,
oppure anche postcristiano e post-teista, che da decenni sta prendendo piede in
Occidente a ritmi vertiginosi, le strutture rigide sono destinate ad essere
soppiantate. Una struttura culturale è rigida quando considera immutabili i
principi su cui è retta e li difende contro ogni possibile contaminazione. Le
strutture culturali rigide si sono costituite nel tempo in cui la vita presente
era pensata come sussistente da principi metafisici, posti in un mondo e in un
tempo oltre la realtà temporale e, proprio per questo, capaci di durare per
sempre. È stata la struttura metafisica della realtà ad offrire i significati
esistenziali per intere generazioni. C’è tutta un’arte, una filosofia, una
politica e una religione che ha descritto queto stile di vita fondato sui
valori metafisici eterni. La velocità dei cambiamenti in atto, elemento
caratteristico dell’attale quadro culturale, richiede allo stesso tempo, la
capacità di mettersi in discussione e di mettere sul tavolo le proprie idee e,
in secondo luogo, la disponibilità ad entrare in dialogo, al confronto rapido.
Le strutture di pensiero sistematico e dogmatico, così significative nel
periodo medievale e moderno, non funzionano più, proprio perché non permettono la
modificabilità necessaria richiesta dalle strutture di pensiero postmoderno. Ci
vuole ben altro.
L’attuale contesto, dunque non permette a nessuno di
dormire sul sofà dell’abitudine, del “si è sempre fatto così”. I punti di riferimento esistenziali vengono
ricercati per la qualità della vita che possono offrire e, dunque, sul piano
quantitativo piuttosto che qualitativo. Vale ciò che è buono ed efficiente
nell’immediato, più che puntare sui significati eterni, quelli che durano – o
sembrano durare – per sempre. È, dunque, proprio questo aspetto del “per
sempre”, che è entrato in crisi e viene sostituito con il bene immediato. Occorre
essere desti, attenti, veloci nel capire cambiamenti in atto, le novità del
momento. Dura nel tempo ciò che si adatta al cambiamento, che sa cogliere le
sintonie con i propri paradigmi culturali e non chi pensa di essere dotato di
strutture metafisiche eterne e immutabili. Diviene proponibile quella realtà
contaminabile, perché disposta a crescere mettendo a disposizione le proprie
competenze, i propri punti di forza. Rimangono sul mercato della vita quelle
realtà che hanno compreso che la possibilità di crescere e di migliorare non
sta nel difendere a denti stretti il proprio patrimonio cultuale di valori, ma
nel metterlo a disposizione e nel lasciarsi contaminare dagli altri mondi
circostanti.
Questa
primissima presa di coscienza ci porta a comprendere che non solo siamo immersi
in un contesto di rete – lo sapevamo già -, ma che ogni organismo ha la
possibilità di vivere o di sopravvivere imparando ad accogliere al suo interno
elementi dei mondi che incontra. Non c’è possibilità di sopravvivenza per
quella cultura che intende salvare la propria presunta purezza. Può
sopravvivere, senza dubbio, ma come cimelio del passato, residuo storico da
museo, senza alcuna possibilità di avere alcuna incidenza nel presente. Anche
perché una caratteristica specifica della postmodernità è la vita nel presente
come unica dimensione in cui c’è possibilità di esistenza. Se la caratteristica
del pensiero medievale da una parte, e di quello moderno dall’altra con
significati diversi, consisteva nel sacrificare il presente per una prospettiva
positiva nel futuro, diametralmente opposta è la percezione del tempo nella
postmodernità. Nessuno è più disposto a sacrificare qualcosa in vista di un
futuro che non è più considerato come positiva prospettiva esistenziale. C’è
solo questo mondo e questa vita a nostra disposizione e, di conseguenza, vale
solo lo sforzo che migliori qualitativamente e anche quantitativamente il
presente: il resto è tempo perso.
Per
entrare in modo significativo in questo nuovo paradigma culturale sono
necessari alcuni requisiti fondamentali, che potremmo definire principi
epistemologici. Il primo, consiste nella disponibilità a riconoscere come
valido e positivo alcuni elementi del mondo che incontriamo. Ciò comporta la
presa di coscienza che il nostro mondo non detiene il coprite della verità e,
allo stesso tempo, che c’è del buono e del vero anche nei mondi che
incontriamo. Dal punto di vista cristiano questo requisito si traduce nella
presa di coscienza che lo Spirito Santo agisce ovunque, non solo nella Chiesa
cattolica. Ce lo ha ricordato il Concilio Vaticano II quando affermava che le
smentì del Verbo sono sparse in tutte le religioni e tutte coloro che conducono
i propri fedeli verso un’esperienza di amore dicono qualcosa del messaggio
centrale del Vangelo. Giustino nel II secolo è stato il primo ad utilizzare
l’immagine delle sementi del Verbo riferita non tanto alle religioni, ma alle
culture, alle filosofie, a tutti color che prima e dopo di Cristo operano in
favore del bene, della giustizia e dell’amore, indipendentemente dal fatto di
appartenere alla Chiesa o di conoscere il Vangelo. C’è tanto amore, c’è tanta
giustizia, c’è tanto bene nel mondo in tanti contesti che non sono controllati
dalla Chiesa: grazie a Dio. C’è lo Spirito santo che agisce in ogni luogo, che
è sempre all’opera per costruire un mondo di amore e di giustizia.
Il
secondo requisito, che è una sorta di corollario del primo, anche se più
complesso e problematico, consiste nella possibilità di fare spazio alla bontà,
alla positività del mondo incontrato al punto di assimilarlo e permettere un
cambiamento prodotto da un elemento esterno. Si tratta, in altre parole, del
processo di contaminazione che esige la disponibilità a questa operazione.
Assimilare un materiale che viene dall’esterno significa non solo riconoscerne
la bontà, ma anche percepirne la possibilità di novità e di miglioramento per
chi l’accoglie. Contaminazione, in questa prospettiva, significa disponibilità
al cambiamento, al lasciarsi modificare e, allo stesso tempo, consapevolezza
che si è entrati in un processo capace di modificare anche la struttura dalla quale
si è ricevuto il contributo. Il processo di contaminazione, in altre parole,
non è mai univoco, ad un’unica direzione: si cambia cambiando. Si lascia
contaminare quella struttura che ha compreso che è l’unica possibilità per
rimanere positivamente sul piano della storia presente.
Il
processo di contaminazione per coloro che ne accettano la sfida, rivela un
altro dato importante: c’è un’identità che non è data dalla difesa delle
proprie roccaforti valoriali, ma che si definisce progressivamente con il tempo
ed è in continua mutazione. Per comprendere questo aspetto dobbiamo prendere le
distanze dal concetto d’identità elaborato nell’epoca moderna, che la
identifica con modelli prestabiliti che devono essere raggiunti e
salvaguardati. L’idea di contaminazione invita la struttura culturale a
rimanere aperta, perché il suo significato profondo non sta tanto nei valori
ereditati, ma nella disponibilità a lasciarli modificare da ciò che incontra.
C’è una possibilità di vita buona che viene a noi incontro nella misura che
siamo disponibili ad accoglierla e a lasciarci modificare da essa e, allo
stesso tempo, a modificare noi stessi i mondi che incontriamo. Il concetto di
contaminazione rivela l’idea di un mondo in continuo cambiamento, in continua
trasformazione. L’identità forte, in questa prospettiva contaminata, non sta
più nella difesa estrema di valori non negoziabili, ma nella loro messa a
disposizione. È forte quella struttura che si lascia contaminare e che, in
questo modo, è lei stessa fattore contaminante.
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