mercoledì 25 ottobre 2023

LA CONFESSIONE: PERCHE' NON FUNZIONA?

 



 

Paolo Cugini

 

Fratelli, il peccato non regni più nel vostro corpo mortale, così da sottomettervi ai suoi desideri. Non offrite al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia (Rm 6,12-18). Leggendo questo brano di Paolo mi chiedo: che cosa pensa che sia il peccato l’apostolo Paolo? È una forza interiore che sottomette il corpo. È una forza legata al desiderio che domina il corpo e lo induce a fare ciò che non vorrebbe. Per certi aspetti, sembra identificarsi con l’istinto, ma è qualcosa d’altro. L’istinto stimola il desiderio che, a sua volta, stimola la passione e la conduce fuori controllo. In questi, casi una confessione non serve, se non a placare per qualche momento la violenza dell’istinto. Serve, invece, prendere coscienza di sé, entrare in se stessi e scoprire l’origine del disordine spirituale, per poterne somministrare la cura. C’è, a mio avviso, un abuso della confessione, perché non si aiutano le persone a prendere coscienza di sé. Senza dubbio, la grazia agisce, ma la struttura umana esige la ricerca delle cause, l’abitudine a guardarsi dentro, a scoprire l’origine di ciò che ha provocato il disordine.

 Non sempre si riesce a risalire alle cause e, a volte, anche scoprendo le cause del disordine, non sempre si riesce ad intervenire. La proposta della Chiesa di una confessione frequente e costante non tiene conto della reale dimensione interiore della persona umana, nel senso che non l’aiuta a rendersi conto del proprio cammino. Inoltre, messa così, la confessione viene svalorizzata, perché sembra un’implicita ammissione della sua incapacità di realizzare quello che proclama, vale a dire, il perdono del peccato che, attraverso la grazia santificante, dà la forza per rimanere saldi e non cadere più. 

Paolo continua affermando: Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia. Paolo è convinto che la liberazione dal peccato da parte dalla legge della grazia sia permanente. Questo, a mio avviso, è il cuore del problema, che la prassi della Chiesa, nel sollecitare la confessione frequente da parte dei fedeli, mette in discussione. Se, infatti, avesse ragione Paolo, che la legge della grazia cura per sempre l’anima dalla schiavitù del peccato, perché allora sarebbe necessaria la confessione frequente?

C’è qualcosa che non quadra in questa proposta. Chi infatti l’accetta, e sono i cattolici ferventi, rimane intrappolato per tutta la vita nella logica del perdono e della caduta, senza potersi prendere il tempo per capire i motivi della caduta così frequente. È come se mettessimo una pomata su una ferita aperta senza prima pulirla e curarla: non funziona. Occorre ritornare alla prassi della Chiesa primitiva, che battezzava solamente persone adulte, che liberamente chiedevano di partecipare alla vita della comunità ed erano disposte a compiere un percorso di tre anni di verifica della propria vita, prendere delle decisioni provocate dalla proposta del Vangelo, che esigevano cambiamenti radicali.

 L’abbandono in massa nei confronti del sacramento della penitenza, che si sta verificando da alcuni decenni nella Chiesa cattolica è il sintomo che le persone hanno colto l’inganno: la grazia santificante non funziona sul corpo malato, perché prima dev’essere curato. La Chiesa sta offrendo la medicina, ma non la cura. C’è tuto un mondo che esce dalla Chiesa alla ricerca di cammini spirituali che siano in grado di fornire quelle risposte che la Chiesa, con la sua proposta sacramentale, non è riuscita ad offrire.

Eppure, scavando nel passato, è possibile trovare un patrimonio immenso nei sotterranei spirituali della Chiesa, fatto di percorsi, di cammini esistenziali, di proposte alte che, con il tempo, sono state dimenticate. Basterebbe aver accesso a questo patrimonio, prendersi il tempo per sperimentarlo e riscoprire la bellezza di un cammino che viene da molto lontano. 

 

martedì 17 ottobre 2023

UNO SCAMBIO GENERATIVO

 






 

Paolo Cugini

Una cosa è certa: non ci s’improvvisa parroco di varie parrocchie. Siamo stati formati per secoli ad essere guide di una parrocchia. La gente stessa è abituata così. Ciò significa che, anche l’attuale esperienza delle unità pastorali, ha bisogno di un tempo prolungato per assestarsi. Inoltre, credo che abbia bisogno anche dell’esperienza dei missionari rientrati. In fin dei conti, siamo dei fidei donum, dei doni imprestati ad un’altra Chiesa per poi rientrare. Proprio su questo rientro mi sembra importante riflettere. Ci sono dei percorsi formativi per prepararsi all’entrata in nuovo contesto ecclesiale, in cui si viene orientati a cogliere lo specifico dell’esperienza in cui il missionario sarà coinvolto. C’è poi, soprattutto, l’attenzione al tempo necessario per l’adattamento alla nuova realtà. Non si viene, infatti, buttati subito nella mischia, ma c’è sempre qualcuno che accompagna nella nuova realtà. I primi anni di missione sono tempi di cambiamento, che esigono un cammino umano e spirituale molto profondo. La missione passa attraverso l’umanità del missionario e ognuno reagisce in modo diverso agli stimoli che il nuovo contesto propone. Questa differenza la si coglie dalle narrazioni, dai contenuti delle lettere, dalle testimonianze. C’è tutta una ricchezza ecclesiale e spirituale che viene mediata dall’umanità del missionario, dal lavoro che lui stesso svolge su di sé per imparare a camminare con il popolo di Dio incontrato. Per questo motivo siamo così diversi, per certi aspetti “strani” quando torniamo alla base. Anche al ritorno sarebbe necessario ipotizzare un periodo di formazione, per mettere in condizione chi rientra di riadattarsi lentamente alla realtà ecclesiale, sociale che, nel frattempo è molto cambiata. È in questa fase di rientro che sarebbe importante un percorso progettuale, per non disperdere tutta quell’esperienza ecclesiale e spirituale assimilata in tanti anni di missione e metterla a disposizione della diocesi. Tra queste nuove competenze apprese e che varrebbe la pena incanalare in un percorso progettuale, c’è la capacità di accompagnare la vita di parrocchie costituite da tante comunità, quelle che in Italia vengono chiamate Unità Pastorali. Guidare pastoralmente tante parrocchie non si apprende sui libri, ma nella vita quotidiana. Mentre in Italia si cerca di capire come fare, in altre parti del mondo questo stile di Chiesa è in atto da decenni. I missionari che hanno svolto la loro esperienza in Brasile hanno lavorato proprio in questo contesto ecclesiale. Sarebbe importante tenerne conto.



Nel passato ci sono state delle scelte, realizzate in primo luogo dal Vescovo Baroni e rinnovate dai suoi successori, scelte mosse dal clima di entusiasmo ecclesiale del dopo Concilio, che promuoveva una Chiesa popolo di Dio, che per sua natura è missionaria, queste scelte devono in qualche modo dire qualcosa alla Chiesa locale. L’aprirsi delle diocesi alle missioni è stato vissuto come la realizzazione del cammino conciliare. Le parrocchie delle aree missionarie sono state percepite come una realtà ecclesiale che ci appartiene, nel senso ecclesiale del termine. Così erano presentate le missioni diocesane negli incontri realizzati con gli studenti di teologia e anche delle superiori (quando c’erano: io c’ero). Chi si preparava al ministero presbiterale, sapeva che poteva essere chiamato a servire una delle nostre parrocchie in missione. Lo sapeva e per questo ci si preparava leggendo le lettere dei missionari, invitando i preti in rientro dalle missioni ad una celebrazione eucaristica, ad un incontro formativo o a predicare un ritiro spirituale. Ci si alimentava della spiritualità missionaria direttamente dalle fonti, i nostri preti diocesani fidei donum, perché si sapeva che si poteva essere chiamati per partire.  C’era la presa di coscienza del grande servizio che l’esperienza missionaria stava facendo non solo ai preti che partivano, ma soprattutto alle parrocchie della nostra diocesi.



Occorre ricordare, poi, che non solo preti sono partiti per le missioni, ma anche religiosi, religiose e molti laici e laiche. Una ricchezza ecclesiale incredibile che, anche se non è mai stato realizzato un progetto di ritorno, che aiutasse a valorizzare e incanalare questa ricchezza ecclesiale e spirituale, in ogni modo tutti coloro che sono rientrati dall’esperienza missionaria hanno contribuito ad arricchire le comunità parrocchiali di origine. Quante lettere, testimonianze, veglie di preghiera, messe missionarie sono state realizzate in tutti questi anni? Che dire poi, di tutti quei giovani che hanno fatto l’esperienza di un mese in missione, organizzato dal Centro Missionario Diocesano con percorsi formativi specifici. Spesso, molti di questi giovani non hanno alle spalle un cammino all’interno di una specifica comunità pastorale, ma si sentono spinti a fare un’esperienza in missione, perché, come sappiamo, le nostre missioni diocesane sono realizzate in luoghi nel mondo caratterizzati dalla povertà. Si coglie in questi giovani il desiderio di sperimentare il cammino di una Chiesa dei poveri, a contatto con realtà sociali che, in un modo o nell’altro, provocano una riflessione, soprattutto sul proprio stile di vita e stimolano la ricerca verso uno stile di vita più sobrio ed essenziale, in altre parole più conforme al Vangelo. Per questo, le missioni sono importanti nel nostro cammino di Chiesa, non solo per il prete o i religiosi che partono e ritornano con un bagaglio di esperienze ecclesiali e sociali che provocano in loro stessi un cambiamento, ma anche per coloro che rimangono, per le singole comunità parrocchiali. In tutti questi anni il Centro Missionario Diocesano ha lavorato tantissimo per mettere in circolo i contenuti provenienti dalle varie esperienze missionarie, contenuti che hanno contaminato positivamente il cammino delle nostre comunità parrocchiali.

 


Nella prossima puntata, che sarà l’ultima, proverò a spiegare perché la missione aperta in Amazzonia è di fondamentale importanza per il cammino della nostra Chiesa locale.

 

sabato 14 ottobre 2023

Liliana Franco: "Il cammino delle donne nella Chiesa è pieno di cicatrici"

 



Ricevo direttamente dai lavori del Sinodo in cui l’amico prete e giornalista spagnolo partecipa come inviato della REPAM (Rete Ecclesiale Amazzonica) e del CELAM (Conferenza Episcopale Latino-americana). La traduzione è mia

 

Articolo di Luis Miguel Modino, Venerdì Ottobre 13, 2023


Ho bisogno di imparare da Gesù, la sua disponibilità a "vedere e sentire le donne”, come ha sottolineato Liliana Franco nell’apertura dei lavori del terzo Modulo del Sinodo, che parla di essere corresponsabili nella Missione, qualcosa di cui le donne sanno molto, nonostante i molti rifiuti e disprezzamenti. Perché sono le donne che sostengono la fede in molte comunità in tutto il mondo. mondo.

Apprendimento con gli atteggiamenti, i criteri e lo stile di Gesù

Non possiamo dimenticate che «la vera riforma viene dall'incontro con Gesù, nella eco della sua Parola, nell'apprendere i suoi atteggiamenti e criteri, nell'assimilare del suo stile". Questo è qualcosa che si concretizza nelle donne comuni, come Dona Rosa, che a 70 anni esce ogni giorno per visitare i malati del quartiere, assicurandosi che abbiano cibo e una vita dignitosa. Qualcuno che, per molti anni ha portato loro anche la comunione, non lo fa più perché il nuovo parroco gli ha detto che la comunione sarà portata dai ministri della Eucarestia, uomini che erano dotati di una divisa colorata. Nonostante tutto, continua a camminare attraverso le strade del suo quartiere, visitando i malati, essendo un vero conforto per il più fragile.

Marta, che ha terminato il dottorato in teologia con voti migliori rispetto ai suoi coetanei. uomini, ma la Pontificia Università da cui si è laureato ha deciso che non potrebbe darti un diploma canonico perché sei una donna, e che il tuo sarebbe un diploma civile. Ma è una conquista, perché fino a pochi anni fa, le donne nel loro paese non poteva studiare teologia, solo scienze religiose.

Questi sono scene ricorrenti, poiché molte donne non hanno un posto nel consiglio parrocchiale o diocesano, nonostante il suo variegato e prezioso lavoro pastorale.

Situazioni di dolore e di redenzione

Il presidente della Confederazione dei religiosi e delle religiose dell'America Latina e dai Caraibi ha fatto una forte denuncia: "il cammino delle donne nella Chiesa è pieno di cicatrici, di situazioni che hanno comportato dolore e redenzione, un storia pasquale, in cui ciò che è evidente e definitivo è stato l'amore di Dio; amore che rimane al di là degli sforzi di pochi per rendere visibile la presenza e il contributo delle donne nell'edificazione della Chiesa".

Ciò ha portato la suora che afferma che "la Chiesa ha il volto di donna", citando molti esempi di questo. Infatti, «la Chiesa, che è madre e maestra, è anche sorella e discepola, e questo non esclude gli uomini, perché in tutti, uomini e donne, abita la forza del femminile, della saggezza, del bene, di tenerezza, forza, creatività, parresia e capacità di dare vita e affrontare le situazioni con audacia".

Una Chiesa al femminile ha la forza della fecondità

Da qui il suo Invito: "tutti noi, donne e uomini, ad essere chiamati ad essere Grembo, casa, affetto, abbraccio, parola... Una Chiesa femminile ha la forza della fecondità. Cosa ti viene dato dal Ruah?” La suora, che faceva parte dell'équipe che ha preparato la relazione della tappa continentale in America Latina e nei Caraibi, ha mostrato cinque prospettive del volto di "una Chiesa missionaria, che batte al ritmo del femminile" è una Chiesa con queste prospettive: La persona di Gesù e il Vangelo sono coloro che chiamano mediante il Battesimo e tutti sono portatori della stessa dignità. Optare per la cura di tutte le forme di vita è l'opzione per il Regno; Un nuovo modo di stabilire relazioni rende possibile una rinnovata identità: più circolare, fraterna e sorella; Crediamo nel valore dei processi, privilegiamo l'ascolto e si riconosce che la fecondità è frutto della grazia, dell'azione dello Spirito.

La Religiosi ha chiarito che: "al centro del desiderio e dell'imperativo per una maggiore presenza e partecipazione delle donne nella Chiesa, non c'è ambizione di potere o sensazione di inferiorità, né una ricerca egocentrica di riconoscimento, c'è un gridare di vivere nella fedeltà al disegno di Dio, che Egli vuole nel popolo, con chi ha fatto un'alleanza, tutti siano riconosciuti come fratelli". Uguale partecipazione e corresponsabilità nel discernimento e nel processo decisionale. Decisioni basate sulla comune dignità che il Battesimo dà a tutti.

 

Fonte: CNBB - Regional Norte 1 (cnbbnorte1.blogspot.com)

sabato 7 ottobre 2023

IN MISSIONE PER IMPARARE

 




 

Paolo Cugini

 

Mi ricordo come se fosse oggi la telefonata che ricevetti alle 23 di un giorno della settimana del febbraio del 1998 da don Tiziano Ghirelli, che allora era il segretario del Vescovo Paolo Gibertini. “Il vescovo Paolo ti aspetta domani alle 10. Mi raccomando, sii puntuale”. Passai tutta la notte a pensare il motivo di quella richiesta fatta a quell’ora. Senza dubbio, avevo combinato qualcosa (ogni tanto mi succede) che non era stata gradita nei piani alti. Arrivai piuttosto teso all’incontro con il Vescovo e, con mio grande stupore, non si trattava di un rimprovero nei miei confronti (stranissimo!), ma di una proposta. “Carissimo don Paolo, abbiamo bisogno di te in Brasile. Un nostro prete sta ritornando e tu sei un di quelli che ha dato la disponibilità per le missioni diocesane”. Mi ricordo benissimo che, quella del Vescovo Paolo non fu una domanda, una richiesta per una mia possibile disponibilità, ma una proposta. Il Vescovo Paolo mi stava chiedendo di andare come fidei donum nelle nostre missioni in Brasile. Non credevo alle mie orecchie: era veramente una proposta meravigliosa e ancora più bella perché assolutamente inaspettata. Mi disse che il mandato era per dieci anni (che poi diventarono quindici) e che era necessario un corso di preparazione della durata di due mesi, che si svolgeva ogni anno a Verona. Uscì da quell’incontro, che avrebbe trasformato totalmente la mia vita, con il cuore travolto dall’emozione e la mente stracolma di pensieri. Dieci anni, pensai, sono una vita.



I primi anni di missione sono stati veramente duri. Ero entrato in un mondo nuovo, a me totalmente sconosciuto. Non capivo la lingua, i modi di dire e di fare ma, soprattutto, non riuscivo a capire come funzionasse il cammino di Chiesa nel quale ero stato inviato. Non capivo come facessero don Piero e don Antonio - due preti reggiani da anni in missione in Ipirà della Diocesi di Ruy Barbosa con la quale la diocesi di Reggio collaborava da diversi anni - ad accompagnare, assieme ad un gruppo di suore, una parrocchia costituita da circa 110 comunità. Quelle che in Brasile chiamano comunità, corrispondono sia per numero di abitanti che per estensione, ad una nostra parrocchia. Piero, Antonio e le suore, oltre a visitare regolarmente le comunità, che avevano la possibilità della celebrazione eucaristica tre volte all’anno, svolgevano un grandissimo lavoro di formazione dei laici e delle laiche. Avevano costruito un centro di formazione e tutti i martedì realizzavano dei momenti formativi per mettere in grado i laici e le laiche di accompagnare le comunità nei vari servizi pastorali. Piero e Antonio, come del resto gli altri missionari, erano riusciti a liberarsi del modello di prete occidentale, per mettersi a servizio di un nuovo cammino di Chiesa, che esigeva un modello differente di prete. Non più il parroco come unico responsabile della parrocchia, ma i laici e le laiche in grado di celebrare la Parola alla domenica, di celebrare i funerali e tanti altri servizi nella comunità. La Chiesa, dunque, arrivava e continua ad arrivare in ogni singola comunità attraverso i laici e le laiche, grazie al lavoro formativo dei presbiteri e delle suore. Piero e Antonio erano divenuti capaci di accompagnare una parrocchia vasta come la diocesi di Reggio e Guastalla, composta da circa 110 parrocchie, con l’aiuto di un gruppo di suore. La grande rivoluzione pastorale è stata quella di mettersi al servizio di un nuovo modello di Chiesa.



Appena prete ero stato nominato curato e coordinatore della pastorale giovanile nella zona Pastorale di Castelnovo Sotto. A quel tempo, cioè circa trent’anni fa, c’era ancora un prete per ogni parrocchia. Don Danilo a Castelnovo, don Rino a Cogruzzo, don Eugenio a san Savino e io amministratore parrocchiale a Meletole. Eccetto il sottoscritto, questi preti sono già tutti nella casa del Padre e non c’è stato il ricambio. In questo cammino di Chiesa la comunità s’identificava con il parroco. Tutto passava dalle sue mani, ogni aspetto della comunità faceva riferimento a lui. Questo modo di essere nella parrocchia aveva stimolato un tipo di spiritualità specifico, quella del prete come “uomo mangiato” (padre Antonio Chevrier), totalmente dedicato alle sue pecorelle, delle quali non solo conosceva i nomi, ma anche tutte le vicissitudini. Del resto, quando rimani per tutta la vita in una parrocchia con un esiguo numero di abitanti, questa relazione di prossimità diventa possibile. Erano state queste le intenzioni del Concilio di Trento e cioè che la parrocchia doveva avere un’estensione e un numero di abitanti tale, che permettesse al parroco di visitarla speso. E così è stato.

Poi tutto è cambiato. Il numero dei giovani che entrano in seminario è cominciato a calare drasticamente al punto da arrivare ad affittare all’Università il prestigioso seminario di Reggio Emilia. Mi ricordo, una volta tornato dolorosamente dal Brasile, di una conferenza per i preti in cui don Moretto condivise una riflessione che trovai molto interessante (ogni tanto anche lui ne dice una buona): “In questo cambiamento così repentino ci siamo dimenticati di formare i laici per aiutarli a comprendere e accompagnare il cambiamento in atto”. In uno dei miei ultimi incontro con il Cardinale di Bologna Matteo Zuppi, che stimo tantissimo per la sua umanità e per la sua capacità straordinaria di vedere lontano, di percepire i segni dei tempi, mi disse a questo riguardo: “La CEI non ha mai trattato il tema delle Unità Pastorali in uno dei suoi incontri. Sono i parroci che lo stanno affrontando”.

Nella prossima puntata proverò a spiegare come mai l’esperienza dei missionari fidei donum può essere utile al nuovo modello di parrocchia che si sta strutturando in Occidente.

 

martedì 3 ottobre 2023

ASCOLTATE E VIVRETE. LIBRO CON LE OMELIE DELL'ANNO B (CHE SARA' IL PROSSIMO)

 




 

 

L’omelia è un momento importante nella vita di una comunità cristiana. Lo ricorda anche san Paolo quando nella lettera ai romani ricorda che: “la fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rom 10,17). Anche Papa Francesco nel suo primo documento ufficiale, vale a dire l’Evangelii Gaudium, ha ribadito che: “rinnoviamo la nostra fiducia nella predicazione, che si fonda sulla convinzione che è Dio che desidera raggiungere gli altri attraverso il predicatore e che Egli dispiega il suo potere mediante la parola umana” (Evangeli Gaudium, 136).

L’omiletica è un genere letterario a sé da non confondere con l’esegesi, anche se, senza dubbio, ha bisogno di alimentarsi nelle ricerche esegetiche per poter elaborare una riflessione che sappia cogliere l’essenza di un testo della Sacra Scrittura. Il contenuto dell’omelia nasce da un duplice ascolto: della parola di Dio e della realtà in cui si vuole comunicare il contenuto. L’attenzione al contesto è, dunque, di fondamentale importanza. Possiamo parlare di contesto a diversi livelli di complessità. C’è il contesto in cui vive la comunità, che è importante conoscere per fare in modo di offrire chiavi di lettura in grado di leggere il vissuto della comunità. Ogni comunità cristiana è, inoltre, inserita in un particolare contesto sociale, politico e culturale di una città, una nazione, che va tenuto in considerazione. C’è infine, un livello maggiore che è quello della cultura di un’epoca, che influenza le mentalità e le scelte. Oggi in Occidente viviamo in un contesto culturale post-cristiano. I segni di questo clima culturale lo tocchiamo con mano tutti i giorni. Lo si coglie dal calo vertiginoso della richiesta dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, dalla partecipazione sempre più scarsa alla messa domenicale. La fine della cristianità è visibile anche nell’assuefazione ai riti e alle celebrazioni pompose, come i pontificali, le processioni: segni di una visibilità non ritenuta più necessaria. Come annunciare il Vangelo in questo contesto: è questo il problema.

La parola di Dio è il Verbo incarnato nella storia e il suo annuncio non può essere asettico, imparziale, distaccato: deve avere il sapore del contesto in cui viene seminato. Proprio per questo, le omelie che propongono qui di seguito, tengono conto di alcuni aspetti che a mio avviso sono significativi. Il primo, è l’attenzione alla polemica di Gesù con i capi del popolo. Il rapporto tra fede e religione, culto e vita sono aspetti che il Vangelo di Marco accompagna e che in ogni occasione opportuna ho cercato di dare risalto. È, infatti, a mio avviso, su questo punto che la cultura Occidentale è divenuta particolarmente sensibile. Nella post-cristianità tutto ciò che è precetto, imposizione dall’alto è destinata a rimanere disattesa. C’è una sensibilità particolare nei confronti dei cammini di liberazione, che anche la spiritualità può offrire. Qui ci troviamo dinanzi ad un paradosso. Se, infatti, la nostra epoca è segnata da un abbandono sempre maggiore dalle forme di religione istituzionali come la Chiesa Cattolica, la Protestante e l’Ortodossa, dall’altra si assiste alla ricerca di esperienze spirituali, di guide alla meditazione e alla scoperta della vita interiore. Il paradosso è solo apparente perché cela una critica implicita alle religioni che sembrano ora incapaci di fornire strumenti per accompagnare la vita spirituale delle persone.

È l’attenzione a questi aspetti che segnano le riflessioni proposte nelle omelie dell’anno liturgico B. Un’attenzione che è soprattutto pastorale, perché nascono all’interno della vita di alcune comunità parrocchiali. Dire attenzione pastorale significa richiamarsi al contesto, al cammino di fede delle comunità, per accompagnarle il meglio possibile all’interno del Mistero rivelato da Gesù Cristo. In realtà, più che vere e proprie omelie, quelle che presentiamo sono dei canovacci, che offrono degli spunti che possono essere sviluppati come meglio si crede. Buona lettura. 

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