Ricevo e volentieri pubblico:
Dea Santonico 20 ottobre 2021
La
questione di gran lunga più discussa a proposito del ddl Zan e su cui si
addensano più critiche è sicuramente quella sull'identità di genere. La critica
che arriva da più parti, anche da un pezzo del mondo femminista, ripresa e
strumentalizzata poi da una parte del mondo politico, è che, con l’attuale
testo, la legge porterebbe ad una sorta di libera autocertificazione di genere,
ad un annullamento del dato biologico. Ma è così? Proviamo a ragionarci,
partendo da ciò di cui la legge si occupa e dall’obiettivo che ha. Il ddl non
si occupa di certificazioni, né per introdurle, né per cancellarle in favore di
autocertificazioni: nulla cambia rispetto ai processi di certificazione (di cui
è un'altra legge già in vigore ad occuparsi) con o senza il ddl Zan. Ma allora
perché l'articolo 1 della legge parla di "identificazione percepita"?
In quell’articolo c’è infatti questa definizione: “Per identità di genere si
intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere,
anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un
percorso di transizione”.
Prima
di rispondere alla domanda che ho posto, è importante sottolineare che la
definizione di identità di genere contenuta del ddl Zan non ha il merito di
essere originale, si trova, oltre che in altri documenti, in sentenze della
Corte di Cassazione e in direttive UE. L'obiettivo del ddl è solo uno:
proteggere le persone vittime di violenza per i fattori di discriminazione di
cui la legge si occupa. Per farlo, e farlo pienamente per tutte le persone che
non si identificano con il genere registrato alla nascita (che non sono solo
quelle "certificate" come trans), c'è bisogno di una definizione
ampia, che le comprenda tutte, e tale definizione è quella data nell'articolo 1
della legge, che permette di proteggere da crimini d’odio chi ha intrapreso ma
non ancora concluso il percorso si transizione, chi quel percorso non se lo può
permettere, per motivi economici, di salute o di età, chi, per altri motivi,
non vuole o non può intraprenderlo. Il ddl non sta introducendo nessuna
autocertificazione, sta invece dicendo un’altra cosa: che nessun certificato è
richiesto alle vittime, che la legge le protegge sempre e comunque tutte, senza
richiedere che abbiano i documenti “in regola”, che certifichino l'avvenuta
transizione o lo stato del loro percorso di transizione. Non dice la legge che
la certificazione non serve in assoluto, dice che non serve per essere protetti
da violenze e discriminazioni.
Dov'è
quindi l'errore che ha portato a spostare la discussione dal merito della legge
ad altro? Sto pensando qui a chi fa considerazioni intellettualmente oneste,
non a chi le usa per mascherare, dietro il cambiamento, l’obiettivo di
cancellare la legge (qui non c’è un errore, c’è un lucido ragionamento).
L’errore sta, a mio avviso, nell’aver staccato, da parte di chi critica il ddl
sulla questione identità di genere, l'articolo 1 dal corpo della legge stessa.
L’articolo 1 è funzionale al testo della legge, da le definizione necessarie,
come qualsiasi documento serio, che sia o no una legge, dovrebbe fare.
Importante sottolineare le prime parole di quell’articolo: “Ai fini della
presente legge, per sesso si intende…, per genere si intende…, per orientamento
sessuale si intende…, per identità di genere si intende…”. Appunto. Le
definizioni lì contenute valgono e sono rilevanti nel contesto e ai fini di
questa legge, non in assoluto. Estrapolare una definizione e far derivare da
questa questioni estranee alla legge, può essere un esercizio interessante e
volentieri potrei unirmi a chi lo vuole fare, ma ostacolare il ddl Zan su
questa base significa prendersi, magari in buona fede, una responsabilità non
da poco di fronte alle tante vittime di violenza omotransfobica. E con quale
risultato? Nessuno: la definizione di identità di genere seguiterà ad esistere,
con o senza il ddl Zan, in molti altri documenti, anche di natura giuridica.
Pensiamoci.
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