mercoledì 28 ottobre 2015

MONS OSCAR ROMERO: UNA BUONA NOTIZIA PER I POVERI DI IERI E DI OGGI






A 35 ANNI DAL MARTIRIO DI MONS OSCAR ROMERO
Intervento di Mons Bettazzi a Regina Pacis
Paolo Cugini
Si è svolto all’oratorio di Regina Pacis martedì 27 ottobre, l’incontro sul Beato Oscar Romero organizzato da Pax Christi di Reggio Emilia in collaborazione con L’unità Pastorale di Regina Pacis e  Il Centro Missionario Diocesano. Relatori della serata don Antonio Agnelli, studioso da anni della figura di Mons Romero e Mons Luigi Bettazzi, 91 anni di vita portati alla meraviglia e 51 anni di episcopato vissuti sempre sulla breccia. Mons Bettazzi ha colpito il numeroso pubblico presente all’incontro con la sua simpatia e la profondità nelle analisi sulla vita di Romero, al quale ha dedicato il suo ultimo libro in occasione del 35 anniversario della sua morte, avvenuta il 24 marzo del 1980.

La lettura della figura del Vescovo di El Salvador Oscar Romero che Mons Bettazzi ha proposto è stata significativa e originale, perché l’ha letta alla luce del Concilio Vaticano II. Come il Concilio ha aiutato la Chiesa ad uscire dalle paure e dalle chiusure per aprirsi al mondo, così è stato il cammino di Oscar Romero che da uomo chiuso e conservatore, grazie all'incontro con i poveri è divenuto un uomo aperto e attento ai problemi del mondo e, soprattutto, della gente povera. Sono i poveri che hanno convertito il vescovo Romero: sia Bettazzi che Agnelli lo hanno ribadito più volte. Secondo la ricostruzione proposta da Bettazzi, Romero era stato scelto come vescovo di El Salvador proprio per il suo stile conservatore, che non avrebbe creato problemi con le autorità locali. Le cose, però, si sono lentamente ma inesorabilmente modificate. E’ lui stesso a sostenerlo in un incontro avuto con papa Giovanni Paolo II, che lo sollecitava alla calma e alla moderazione. “E’ la gente che lo ha convertito - sostiene Mons. Bettazzi -. Ha sentito la sofferenza della gente. Giovanni Paolo II lo aveva invitato ad andare d’accordo con il governo, ma lui diceva che non poteva andare d’accordo con chi gli uccideva i preti. Il suo modo di fare alimentava la speranza per un mondo più giusto”.

Don Agnelli ha ricordato il grande significato che avevano per il popolo salvadoregno le omelie di Romero. “Duravano anche due ore, ma la gente non si stancava di ascoltare il suo pastore. La riflessione sul Vangelo si univa all'analisi della dura realtà che il popolo doveva affrontare ogni giorno”. Erano gli anni della dittatura militare che imperversava in tutta l’America Latina. Anni difficili, di grande repressione contro tutti coloro che anelavano alla realizzazione per un mondo più giusto. Romero denunciava sistematicamente gli abusi di potere della dittatura militare e l’accumulo di capitale da parte di un gruppo di famiglie aristocratiche, che mantenevano il popolo nell’indigenza. “Romero è stato ucciso – sostiene don Agnelli -  perché vedeva la realtà e denunciava l’accumulo del capitale. Ricchezze e proprietà privata erano e sono ancora oggi i mali di El Salvador: è questa l’accusa di Romero. Non è giusto che pochi abbiano tutto e la maggior parte del popolo viva di stenti. Chi ha la ricchezza non la vuole mollare e per questo cerca il potere”.
Mons Bettazzi ha fatto notare le coincidenze tra la figura di Oscar Romero e papa Francesco. Come allora Romero fu accusato di essere fragile di mente e che non riusciva a capire la situazione, così oggi Il tentativo di screditare la figura di papa Francesco denunciando la sua presunta malattia, non è altro che un modo per sminuire il peso delle sue scelte e del suo messaggio.

Imbarazzante è il silenzio creato attorno alla figura di Mons Oscar Romero subito dopo il suo martirio. Nessuna ne parla più, nessuno lo cita. Certamente è una figura scomoda e la sua memoria provoca disagio tra coloro che vivono nei palazzi. Per il popolo sudamericano, invece sin da subito Romero è il Santo dei poveri. Il popolo s’identifica immediatamente con colui che è divenuto voce contro le ingiustizie dei politici corrotti e speranza per un mondo più solidale. E’ per questo che il popolo salvadoregno e non solo, è grato a Papa Francesco per aver aperto le pratiche per la sua beatificazione. Un grande dono per la chiesa e per tutti coloro che lottano ancora oggi contro le ingiustizie del mondo.




sabato 24 ottobre 2015

TAPPE DI UN CAMMINO PER UNA PASTORALE GIOVANILE IN USCITA




Paolo Cugini


In che modo dare concretezza al desiderio di una pastorale giovanile più missionaria, frutto di un cammino di Chiesa che cerca di dialogare con il mondo, non accontentandosi più di conservare semplicemente l’esistente, di una Chiesa, per dirla alla Francesco, in uscita, una Chiesa tenda da campo in mezzo ai giovani?
In questa prospettiva si tratta di far ricorso a tutta la fantasia possibile, anche perché sono pochissime le esperienze in questo campo. Tenterò di delineare le possibili tappe di un cammino, con l’obiettivo di progettare una pastorale giovanile aperta ai giovani sul territorio, capace di pensarsi come proposta formativa per tutti i giovani ed aperta ad operare su tutti gli spazi possibili.

a. Cercarli e farsi compagni di viaggio. E’ fuori discussione il primo passo da compiere. Occorre mettersi in movimento, visitare i luoghi di aggregazione giovanile, sia quelli istituzionali come i bar, i pub, sia gli informali come le piazze, le case e altro. Già in questa primissima fase, ci si rende conto che è impossibile lavorare da soli, ma che diviene necessaria una equipe con la quale confrontarsi e progettare assieme. L’obiettivo di questa prima fase è capire come si muovono i giovani sul territorio, come si raggruppano, quali sono gli spazi preferiti, in che momenti s’incontrano in quel determinato luogo.
 E’ la fase più lunga e delicata, anche perché non è detto che si realizzi e questo per tanti motivi. Il primo è dovuto al fatto che gli educatori disponibili per la realizzazione di questo progetto, molto probabilmente sono membri della comunità parrocchiale e, di conseguenza, fanno parte di quella cerchia di persone che gli adolescenti non desiderano incontrare. Anni di catechismo forzato, anche con le più belle dinamiche e proposte, lasciano il segno. Chi lavora pastoralmente sul territorio, con l’obiettivo di realizzare una pastorale giovanile aperta a tutti, impara a proprie spese il risultato di una proposta di fede identificata con la scolarizzazione e non come scelta personale e libera.
Inizia, a questo primo livello d’incontro, la fase più dura e critica. In gioco, infatti, ci sono gli educatori che, per questa loro immersione nel vissuto giovanile in un terreno sconosciuto e non abituale, saranno chiamati a realizzare un vero e proprio cammino di conversione che è, allo stesso tempo, un cammino di destrutturazione del proprio ruolo e delle proprie competenze. Gli educatori saranno messi in discussione sulle motivazioni di fondo che li conducono ad incontrare i giovani presenti sul territorio e siccome non sono funzionari del comune o di qualsiasi altra agenzia educativa, dovranno fare ricorso a tutta la loro spiritualità per resistere a tale verifica. Soprattutto, però, gli educatori saranno verificati sulle loro intenzioni di fondo. Venendo dalla parrocchia, il sospetto è che il tutto del progetto sia finalizzato a riportare all’ovile le pecorelle smarrite e quindi fare in modo che i giovani incontrati, ritornino all’oratorio o alla Messa domenicale. Se gli educatori non riterranno la relazione amicale come ponte per comunicare proposte e contenuti, sarà molto difficile che il contatto con i giovani sul territorio avvenga. Allora, in questa seconda fase lunga e critica, si tratta di togliere tutti i sottintesi, per permettere il rapporto amicale con gli adolescenti e i giovani presenti sul territorio, non per condurli un giorno nei perimetri ecclesiali, ma per rimanere lì con loro. Se questo cammino porterà qualcuno di loro al desiderio di un incontro più profondo con il Signore, tanto meglio.
 A questo punto del discorso si potrebbero citare alcuni versetti del Vangelo che sostengono quanto andiamo dicendo. L’immagine più significativa ci sembra quella dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). Gesù si avvicina delicatamente e si fa loro compagno di viaggio, ascoltando il loro vissuto e aiutandoli a leggerlo alla luce degli eventi pasquali, sino alla rivelazione della sua identità. La durata di questo cammino che i discepoli di Emmaus compiono con Gesù, letta spiritualmente e trasferita nella nostra realtà, può essere inteso come il tempo necessario per una persona ad accogliere il mistero di Dio. Alla Chiesa spetta farsi compagna di viaggio, ascoltare, consegnare una lettura, un’interpretazione evangelica degli eventi: il resto lo fa il Signore. La disperazione che si legge tra le righe di certe prese di posizioni dure e non troppo evangeliche, dinanzi alla pochezza dei numeri raggiunti in determinati eventi, la dice lunga sugli autentici obiettivi di certe progettazioni pastorali. Il riempimento degli ambienti ecclesiali sembra divenire, in molti casi, l’obiettivo fondante di tanti progetti pastorali rivolto ai giovani. Di conoscerli, di amarli, di volergli bene per quello che sono, di mettersi a disposizione per aiutarli ad assumere responsabilmente la propria vita, sembra non esserci ombra. E’ questa mancanza di umanità che è necessario estirpare dalla progettazione pastorale, se si vuole realizzare qualcosa di positivo con i giovani presenti su un territorio. Non si può, allora, cercare i giovani, avvicinarli per fargli una predica, per gettargli addosso una morale.
 E’ in questa prospettiva pastorale che possiamo leggere il mistero dell’Incarnazione del Verbo. Gesù per comunicarci il mistero della salvezza, della misericordia del Padre per noi, si è abbassato, si è fatto servo, ha compiuto un itinerario di avvicinamento che è stato anzitutto un itinerario di abbassamento, umiliazione. E’ di questa Chiesa umile e serva che i giovani hanno bisogno, per ascoltare un messaggio di salvezza, che diviene, in questa prospettiva, una proposta di vita e non una predica morale. Comunicare il Vangelo ai giovani in un mondo che cambia, un mondo che in ogni modo rimane benedetto dal Signore e non semplice oggetto di demonizzazione, richiede l’umiltà di percorrere lo stesso cammino che il Signore ha realizzato per avvicinarci e indicarci la strada.

  Quello che ci sembra importante sottolineare è che, se non avviene l’aggancio, se non avviene il cammino di avvicinamento amicale, la Chiesa perde la possibilità di realizzare l’annuncio del Vangelo ai giovani, perde il ponte necessario per dire in modo diverso la Parola d’amore di Dio, che è Cristo. In un’epoca definita postmoderna, in cui la Cristianità come progetto storico sembra essere definitivamente tramontato[1], il messaggio evangelico non può più essere pronunciato solamente dal pulpito. La scristianizzazione del mondo moderno e la relativa indifferenza su Dio, passa attraverso una progressiva sfiducia della Chiesa e della sua proposta, identificata con un modello storico ben preciso, modello ritenuto passato. Questa situazione culturale di rifiuto della Chiesa, anche se non possiamo parlare allo stesso tempo di un rifiuto di Dio[2], la troviamo in modo latente nei giovani. Diviene, allora, impossibile avvicinarli con una proposta esplicita. Non si avvicinano i giovani presenti sul territorio per arrivare a fare catechismo con loro, nei loro spazi. Se sottolineiamo queste cose è perché, purtroppo, constatiamo che la preoccupazione di tanti educatori è solamente sul piano della catechesi, preoccupati solo di insegnare qualcosa su Dio, di sentirsi in pari con “il programma”, come se tanti gesti, uno stile di vita, l’attenzione, l’amicizia, la dedicazione disinteressata e a tempo pieno, non fossero segni sufficienti della presenza di Dio nel mondo.

b. La proposta.  Se l’incontro tra la Chiesa, attraverso i suoi operatori pastorali, e i giovani presenti sul territorio avviene, allora è possibile passare ad una fase successiva, che è più propositiva. Quando la relazione amicale è intessuta di stima reciproca, diviene naturale avanzare una proposta, anche per spostare l’attenzione dal piano affettivo al piano dei contenuti e dei valori. La proposta che a nostro avviso deve essere fatta a questo punto del cammino, è di tipo formativo. Il problema allora è chiarire che cosa s’intende per formazione. Il lavoro formativo realizzato nella catechesi è innanzitutto trasmissione verbale e, a volte, esperienziale dei contenuti.   Con i giovani che la Chiesa incontra sul territorio, come già abbiamo visto, non si può ripetere lo stesso modello educativo. Che cosa fare, allora? Come realizzare questa proposta formativa?
 Anche in questo caso, per cogliere in profondità il senso del discorso, ci rifacciamo ad un’immagine biblica, quella della Moltiplicazione dei pani. In questo episodio Gesù, dinnanzi ad una folla affamata, che tutto il giorno lo aveva seguito per ascoltare la sua Parola, sente compassione e decide di dargli da mangiare. Gesù aveva tutta la possibilità di risolvere il problema con un intervento divino. Invece, con una serie di domande, coinvolge prima i suoi discepoli e poi si fa consegnare dalla folla gli alimenti che poi avrebbe benedetto e condiviso. E’ questo il punto che ci pare centrale e che offre degli spunti metodologici estremamente significativi, ai fini del nostro discorso. Infatti, tutto il cammino che la Chiesa compie di avvicinamento ai giovani sul territorio, deve essere indirizzato a farsi consegnare il materiale culturale, spirituale e umano sul quale lavorare. Da un lato, esiste una  formazione di tipo scolastico che non è altro che una trasmissione di contenuti da colui che sa e colui che non sa. Dall’altro, c’è un tipo di formazione che tenta di mettere le persone in grado di compiere delle scelte. E’ il metodo dialogico, apparso sulla scena culturale per la prima volta con Socrate, tramandato dai dialoghi del discepolo Platone. E’ anche il metodo di Gesù, che attraverso domande e narrazioni, tentava di mettere gli interlocutori nelle condizioni di compiere una scelta libera e personale. La cultura postmoderna, che incontriamo oggi diffusa nel mondo Occidentale, non accetta più di buon grado le verità calate dall’alto: ci vuole vedere dentro.[3]
Si tratta, allora, di realizzare quel cammino lento e delicato, per farsi consegnare i vissuti e i contenuti dalle persone incontrate, per aiutarli a vederli con occhi nuovi, a interpretare le situazioni, gli eventi in una prospettiva nuova che è la prospettiva del Vangelo. Il cammino che la Chiesa compie nella compagnia dei giovani, si deve realizzare nel rispetto delle libertà reciproca, nella convinzione che è solamente nella libertà che può fiorire un autentico cammino di fede.

Con i giovani presenti sul territorio si può lavorare con il materiale consegnato da loro stessi, negli spazi e nei tempi da loro indicati. E’ a questo livello della proposta, che entra in gioco la creatività dei formatori, che devono essere in grado di diversificare il più possibile le proposte. Se, infatti, si personalizza il cammino, nel senso che non si è più preoccupati di rovesciare lo stesso contenuto allo stesso modo, allora si sentirà l’esigenza di attivare percorsi differenziati, rispettosi il più possibile delle caratteristiche dei giovani incontrati e dei contenuti ricevuti nel momento della consegna.


c. Lavorare in rete. Quanto maggiore sarà il cammino di avvicinamento ai giovani, tanto maggiore sarà la necessità di entrare in rete con le agenzie educative presenti sul territorio. Spesso l’accusa che viene fatta alla Chiesa e a chi lavora negli ambienti ecclesiali, è di essere chiusa, poco aperta al dialogo e sospettosa. In molti casi si assistono a situazioni di rivalità, di antagonismi, che generano malesseri, incomprensioni. Lo sforzo che la Chiesa compie per raggiungere i giovani, deve condurla a guardare diversamente le strutture sociali ed educative presenti nel territorio, non più, quindi, come agenzie rivali ma come possibili collaboratori, nel rispetto delle reciproche competenze. Lavorare in rete significa farsi aiutare senza false ipocrisie, nella ricerca del bene delle persone che s’intendono aiutare e che necessitano di un intervento differenziato, al di là delle visioni settarie. Un lavoro di pastorale giovanile aperto sul territorio, aiuta a conoscere le risorse attivate, vincendo così la preoccupazione di dover risolvere nella solitudine tutti i problemi incontrati. Oltre a ciò, il lavoro in rete può aiutare la stessa Chiesa ad una riflessone più attenta e profonda sull’uso delle risorse a disposizione e sentire l’esigenza d’investire di più sulla formazione sulle persone.

d. La spiritualità dei formatori. Da ciò che sin ad ora è emerso, risulta chiaro come il ruolo degli educatori in questo progetto pastorale, sia fondamentale. Non è qualsiasi educatore che può compiere un lavoro pastorale del tipo che stiamo presentando. Occorrono alcune caratteristiche sulle quali presentiamo alcune indicazioni.
La prima di queste è la capacità di mantenere lo sguardo fisso sulla meta. Il rischio, in un progetto educativo non delimitato da perimetri istituzionali e focalizzato sulla capacità degli educatori di ascoltare le esigenze dei giovani e di creare itinerari formativi sempre nuovi, è quello da un lato di svuotarsi e, dall’altro, di spostare il centro di interesse del progetto. Per questo motivo, a nostro avviso, chi lavoro con i giovani sul territorio, devono essere persone con una vocazione ben definita, come  dei fidanzati, dei giovani sposi o dei religiosi. L’impatto con l’esterno destabilizza, perché richiede un continuo sforzo introspettivo, di messa in discussione di sé, di verifica della bontà delle proprie scelte di vita di fondo. E, allora, se un educatore non è ben centrato, non ha chiara la propria identità, non ha focalizzato il senso del proprio cammino, in poco tempo desiste, si perde. Si potrebbe, così, affidare il progetto ad un gruppo di fidanzati e di giovani sposi, che si rendessero disponibili nei fine settimana.
A questo punto del discorso, diviene necessario riflettere sugli itinerari formativi degli educatori disponibili alla realizzazione del progetto di pastorale giovanile aperto sul territorio.
Un primo livello di formazione dovrebbe riguardare l’acquisizione minima dei contenuti, che aiutino ad identificare meglio l’oggetto del proprio intervento, vale a dire elementi basici di pedagogia, psicologia dell’età evolutiva, sociologia. In questa prospettiva, otre alla lettura collettiva di alcuni testi, si potrebbe pensare ad alcuni interventi con esperti del settore. L’obiettivo di questa prima fase della formazione degli operatori, è metterli in condizioni d’individuare i problemi, per attivare le strutture specifiche e competenti presenti sul territorio.
Ad un secondo livello di complessità si colloca la formazione spirituale. Per coloro che si rendono disponibili ad un lavoro pastorale come questo, è bene iniziare in ginocchio dinnanzi al Signore. La preghiera personale e comunitaria è l’alimento spirituale necessario per affrontare il progetto che s’intende intraprendere. Solamente una persona abituata ad ascoltarsi e ad ascoltare il Signore, può mettersi in ascolto dei fratelli e delle sorelle senza sostituirsi a loro, ma rispettando i loro tempi e la loro libertà. Lo spessore della vita spirituale degli educatori, aiuta anche a precisare meglio l’obiettivo del progetto, che non è specificamente sociale, ma ecclesiale. E’ chiaro che un progetto pastorale di questo tipo, avrà senza dubbio una ricaduta positiva sul tessuto sociale del territorio sul quale si opera. In ogni modo, gli educatori che dalla parrocchia escono sul territorio per incontrare i giovani, non sono operatori di strada, anche se con loro possono condividere alcune mete e alcuni progetti. Diviene importante, ai fini della riuscita del progetto, chiarire con gli stessi operatori l’obiettivo del cammino che s’intende intraprendere, che è annunciare il Vangelo ai giovani sul territorio. Gli educatori che si rendono disponibili per la realizzazione di questo progetto, devono essere degli innamorati del Signore, della Sua Parola e della sua Chiesa. L’immagine biblica che meglio delle altre spiega quanto andiamo dicendo la troviamo in san Paolo.
 “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4, 4-5).
Il Figlio di Dio non si è semplicemente incarnato, non ha compiuto solamente una discesa per avvicinarsi all’umanità immersa nel peccato, ma ha mantenuto vivo un obiettivo e cioè donare l’adozione figliale. Come dicevano i padri della Chiesa, Dio si è fatto uomo affinché l’uomo diventasse come Dio. La spiritualità dell’operatore del progetto di pastorale giovanile che stiamo discutendo, deve aiutarlo a mantenere sempre vivo il desiderio di stimolare negli adolescenti e nei giovani che incontra, l’immagine di Dio che è in loro, mostrargli non con le parole ma con l’esempio, la grazia di essere figli e figlie di Dio.
Un ultimo livello di formazione per gli operatori del progetto, è la formazione sul campo. Ci si forma formando. Se questa affermazione ha un valore pedagogico in senso generale, ne ha ancor di più in questa prospettiva educativa. La capacità di formarsi valutando il percorso svolto, i momentanei fallimenti e successi, è ciò che costituisce il materiale di questo livello della formazione. Oltre a ciò, va anche considerato sullo stesso piano, la costante attenzione alle suggestioni che vengono dagli stessi giovani incontrati. In fin dei conti, il materiale formativo è il frutto di ciò che esce dallo sforzo educativo messo in atto dalle persone che lavorano sul progetto stesso e da ciò che emerge dalle relazioni instaurate.


e. La ricaduta sulla comunità. Il progetto di pastorale giovanile rivolto ai giovani del territorio parrocchiale, non può essere slegato dal cammino della stessa comunità. Per questo, è un progetto che deve essere pensato e accompagnato dalla comunità e, in modo particolare, dal Consiglio Pastorale e, dove esiste, dal consiglio dell’Oratorio. Accompagnare un progetto simile, significa accettare un cammino di conversione che coinvolge tutta la comunità, attenta a cogliere le provocazioni e i segni dei tempi ricevuti dagli operatori che lavorano sul progetto. E’ la stessa dimensione ecclesiale che viene stimolata nelle sua capacità di ascolto, di dialogo e, soprattutto, di umanità. Dimensione ecclesiale che si riveste di missionarietà, di spinta al di fuori di sé stessa, in obbedienza al comando del Signore, che invita ad annunciare la Buona Novella a tutti. Questo percorso ecclesiale di annuncio fuori dai territori consueti, provocherà la vecchia impostazione di pastorale giovanile basata soprattutto sulle strutture, vale a dire l’Oratorio. Sarà, quindi, necessaria molta pazienza e delicatezza, per non creare rivalità e tensioni, ma mantenere continuamente in osmosi le due dimensioni di uscita e di entrata. Occorre creare il clima pastorale idoneo, affinché venga attivata la circolarità tra Oratorio e piazza, in uno scambio continuo di riflessioni e idee, che sappiano valorizzare i percorsi intrapresi. Attivando il progetto, bisognerà sempre stare attenti affinché non divenga un corpo slegato dal cammino d’insieme della comunità, un qualcosa di autonomo e separato dal resto. Se così avvenisse, sarebbe la fine dello stesso progetto, che non avrebbe più ragione di esistere. Se insistiamo tanto su questo aspetto, è perché percepiamo la forza d’impatto sulla comunità ecclesiale che, una simile proposta, può provocare. Una Chiesa che in virtù della propria vocazione missionaria, si apre sul territorio e si pone il problema del come annunciare a tutti il Vangelo e, in modo specifico, ai giovani, deve accettare di mettersi in discussione. E’, infatti, nella natura stessa del Vangelo il cammino di conversione, che è un cammino di cambiamento, di messa in discussione delle forme consuete di vita. L’uscita all’esterno della comunità ecclesiale provocherà per lo meno due prese di coscienza. La prima riguarda la necessità di migliorare la vita interna della stessa comunità. Qualsiasi attitudine di avvicinamento, anche il più libero e disinteressato, provocherà nei giovani incontrati, una certa curiosità per la comunità mandante. Questo mi sembra un aspetto altamente positivo e insito nello stesso progetto, che rappresenta, in ogni modo, una grande sfida alla stessa comunità. Questa, infatti, si vedrà costretta a rivedere il proprio stile fraterno, a verificare la bontà delle relazioni instaurate tra i membri, la coerenza delle scelte fatte alla luce del Vangelo.
La seconda presa di coscienza riguarda il contenuto dell’annuncio. La comunità che esce ad annunciare il Vangelo ai giovani presenti sul territorio, forse scopre che, di questo Vangelo, non è poi che ne sappia così tanto. E allora, spinta dal desiderio di annunciare a tutti il Vangelo, sentirà l’esigenza di attivare percorsi formativi non solo per gli operatori pastorali che hanno accettato la sfida di andare sul territorio, ma anche per tutti i componenti della comunità.




[1] Cfr. le suggestive riflessioni di G. Campanini, Siamo diventati una minoranza, in Presbyteri  36/ 2002, n. 6, pp.411-420. In area francese, cfr. R. Rémond, Le christianisme en acusation, Desclée de Brouwer, Paris 2001;
[2] Cfr. S. Pagani, Giovani d’oggi e disponibilità al Vangelo. Paradossi per una nuova possibilità educativa, in La Rivista del Clero Italiano, 1/2005, pp. 6-23. Cfr. Anche: A.CASTEGNARO, Fuori dal Recinto. Giovani, fede, Chiesa: uno sguardo diverso, Ancora, Milano 2013.
[3] Su questo punto cfr. G Vattimo, Credere di credere. E’ possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, Garzanti, Milano 1998.

lunedì 19 ottobre 2015

INCARNAZIONE COME CAMMINO D'INCULTURAZIONE




Paolo Cugini

Non è difficile scorgere tra le righe dei documenti della Chiesa, nonché in vari studi o articoli di riveste specializzate, grande preoccupazione sul futuro della Chiesa. Preoccupazione che, del resto, è più che giustificata visto e considerata la scristianizzazione progressiva che stiamo assistendo in questo modo sempre più post-moderno. La frammentazione dei saperi, infatti, assieme al relativismo in campo morale e al particolarismo che stanno alla base di molte rivendicazioni politiche in diverse parti del mondo contraddicendo, in apparenza, la tendenza globalizzante non solo dell'economia che é in atto; sono fenomeni che fanno riflettere. E allora come portare il Vangelo in questo secolo che, come scrive giustamente Matteo Armando no è più solo in cambiamento, ma è già cambiato? In altre parole emerge con forza il problema dell’inculturazione del Vangelo che viene a porsi non solamente in modi non occidentali, di culture cioè, e religioni, non cristiane, ma nello stesso mondo occidentale. Ciò non per il semplice fatto della presenza di persone provenienti da altri paesi, mondi, ma perché l’uomo occidentale stesso, per una serie di trasformazioni avvenute, ha perso sempre di più la propria identità cristiana. C’è, allora una cultura diversa che si è venuta a formare in questi documenti, una cultura secolarizzata, non necessariamente atea.
 Se c’è chi sostiene che non poteva che andare così, in quanto la secolarizzazione del mondo occidentale è il punto d’arrivo del cristianesimo stesso, per chi ha fatto del Vangelo di Gesù Cristo non un semplice “dato” culturale, ma l’annuncio della salvezza, non può che rimanere preoccupato.  Si creano, allora, degli strumenti, delle chiavi di lettura che aiutino ad interpretare il fenomeno, per individuare cammini di inculturazione percorribili. La tentazione però, che spesso si intravede qua e là, in uno studio specifico o in un dibattito tra specialisti di pastorale, è di correre dietro al post-moderno, per timore di essere considerati dei poveri cristiani moderni, mettendo involontariamente da parte il punto di partenza necessario per qualsiasi inculturazione: il Vangelo. Se è vero che l’ermeneutica ha compiuto passi da gigante, soprattutto in questi ultimi trent'anni, è altrettanto vero che il metodo donato da Dio per annunciare la Buona Novella della Salvezza, rimane tutt'oggi insuperato.

Vorrei iniziare queste semplici riflessioni bibliche con una domanda: come ha fatto Dio a inculturare la Parola nella storia? 
In primo luogo l’incontro tra Dio e l’uomo è avvenuto nella Parola stessa. Lo ricorda l’autore della lettera agli Ebrei quando scrive: “Dio che nel tempo antico molte volte e in diversi modi aveva parlato ai Padri nei profeti, in questa fine dei tempi ha parlato a noi nel Figlio”. Una parola che è discesa, che dall'alto è venuta verso il basso. Questo cammino di discesa che la Parola ha compiuto, è passato per varie tappe a giungere a Gesù, il verbo incarnato.

“Ho visto l’oppressione del mio popolo…e sono sceso a liberarlo dagli Egiziani”. La storia della salvezza operata da Dio in favore del suo popolo, può essere narrata come la storia di una progressiva discesa. E’ così la risposta a quella domanda che il saggio Agur fa nel libro dei poveri.  “Chi è salito al cielo e poi è disceso?” La troviamo in Gesù, Parola definitiva del Padre che, come ci ricordava l’Evangelista Giovanni "è venuto abitare in mezzo a noi”. Da questo momento in poi non si tratta più solamente di una Parola rilevata, ma il Verbo incarnato, di Dio che è diocesi assumendo la stessa carne degli uomini e, Lui che è eterno, accettando i limiti della storia umana. Il concilio ci ricorda che tutto ciò è avvenuto perché:

piacque a Dio nella sua bontà e sapienza, rilevarsi a se stesso per far conoscere il mistero della sua volontà mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo incarnato, hanno accesso nello Spirito Santo al Padre e diventano partecipi della natura divina” (Dei Verbum).

Nonostante questa delucidazione del magistero ecclesiastico, per l’uomo in cerca della Verità, rimane comunque aperta una domanda: era davvero necessaria questa discesa che presenta l’aspetto di un duplice umiliazione? Di fatto, non solamente Dio si umilia scendendo dal cielo mescolandosi con la creatura sfidando tutte le leggi della metafisica classica; ma è anche l’uomo a uscirne umiliato, in quanto la discesa di Dio pone in evidenza l’incapacità della natura umana di rispondere positivamente al piano di Dio
Leggendo e rileggendo la storia del popolo di Israele, storia fatta per lo più di alleanze disattese, di ribellioni e peccati, viene da rispondere immediatamente che non c’era altra alternativa. Non bastano, infatti, le grida minacciose dei profeti per rimettere sul giusto cammino un popolo preso dall'idolatria e nella dimenticanza di Dio dei padri.
Lo aveva, del resto, già intuito il profeta Geremia quando, in uno dei momenti storici più tristi del popolo d’Israele, vale a dire la distruzione di Gerusalemme operata da Nabucodonosor nel 587 a.C. e la successiva deportazione del popolo a Babilonia, profetizzava un futuro in cui Dio avrebbe scritto le Sue parole di amore non più in tavole di pietra, ma nel cuore stesso dell’uomo. La debolezza della struttura antropologica umana resa fragile a causa del peccato, della disobbedienza originale, non ha permesso all'uomo di obbedire alla legge – Torah- ricevuta da Mosè scritta sulle tavole di pietra.

 Geremia, e dopo di lui Ezechiele, hanno colto il disastro storico avvenuto nelle deportazione di Babilonia, un problema ben più profondo nel cuore stesso dell’umanità, che necessitava dunque di un intervento diretto di YHWH. E’ in questo contesto che è nata la Teologia del cuore, spingendo il rapporto dell’uomo con Dio sul piano interiore. Discendendo del cielo, Dio è entrato nel cuore dell’umanità per scrivere dentro di essa la Sua Parola. Questo suo cammino di discesa, che secondo la letteratura profetica è innanzitutto un cammino di interiorizzazione, è avvenuto con Gesù Cristo. È san Paolo che lo rivela quando, nella lettera ai Romani, mentre al capitolo 5 riflette sulle conseguenze della giustificazione scrive: “La speranza non delude, poiché l’amore di Dio è stato riversato nel nostro cuore per il dono dello Spirito Santo” (Rom 5,5).
E’ una discesa allora che, se in apparenza sembra umiliare l’uomo, in realtà tenta con successo il recupero, per metterlo in grado di vivere ciò che per vocazione è: immagine e somiglianza di Dio.

La discesa del Verbo nel cuore dell’uomo per riscattare ciò che sembrava per sempre perduto, è avvenuto sul piano dell’identità e della differenza.

Sul piano dell’identità innanzi tutto. Infatti, che “Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”  ha voluto dire per l’umanità il desiderio di Dio di salvare l’uomo non con un atto esterno, ma creando un rapporto di strettissima vicinanza. In altre parole Dio, in Gesù Cristo, si è spinto vicino all’uomo sin dove poteva. Sono tante che le espressioni che nel Nuovo Testamento descrivano questo cammino di Dio verso l’uomo. Innanzi tutto san Paolo nella lettera ai Filippesi ricorda che Gesù Cristo è “diventato simile agli uomini”. Per salvare l’uomo dal peccato il Verbo ha assunto la carne del peccato stesso facendosi simile in tutte le cose “ai fratelli” eccetto chiaramente il peccato. Per rendere autentica questa partecipazione alla somiglianza della carne e del sangue dell’umanità da salvare, il Verbo ha dovuto attendere. In primo luogo ha atteso la pienezza del tempo, la fine dei tempi.
C’è stata una lunga, secolare preparazione prima che si compisse l’evento dell’incarnazione. Un evento preparato e annunciato nei secoli. Si pensi ad esempio alle profezie che incontriamo al capitolo 24 del libro dei numeri in cui Balaam figlio di Beor, a dispetto delle maledizioni che Balac re di Moab chiedeva sul popolo di Israele accampato ai piedi del monte Baal, disse: "Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: Una stella spunta da Giacobbe…".
 Anche la profezia di Natan nel secondo libro di Samuele in cui Dio promette per bocca del profeta al re Davide una alleanza eterna con la sua casa. Profezie millenarie che fanno riflettere sui tempi calmi del Signore, così diversi dai tempi frettolosi degli uomini e delle donne. C’è poi una seconda attesa che avviene nella vita stessa di Gesù. San Paolo la descrive così: “quando giunse la pienezza del tempo, Dio invitò suo Figlio nato da donna, nato sotto la legge”.


 Il Verbo si è sottomesso alla legge della natura umana e degli uomini. La partecipazione alla somiglianza della care e del sangue dell’uomo non è stato qualcosa di fittizio, esterno, formale: è stata una sottomissione autentica, un cammino di apprendimento dentro le mura della famiglia di Nazareth e nella scuola dei saggi di Israele. Infine, c’è l’attesa di Gesù nel deserto prima di iniziare il ministero. Si rimane a lungo con il fiato sospeso prima di ascoltare una parola di Gesù e di vederlo all’opera. E’ una lentezza non solo imbarazzante, ma nel tempo stesso impressionante che richiede di essere ascoltata e meditata con attenzione. In effetti, è una lentezza che ha tutti i tratti della delicatezza di Dio. Se è vero, infatti, che Dio interviene nella storia per salvare l’uomo dal peccato e dalla morte eterna, sembra che intenda farlo col modo più delicato possibile, senza ferire troppo una umanità già malata. L’incarnazione del Verbo operata da Do nella storia vede, quindi, questo primo aspetto fondamentale: il Verbo è disceso lentamente e delicatamente. E’ stato un incontro talmente lento e delicato che in pochissimi se ne sono accorti: dice infatti Giovanni che “il mondo non lo riconobbe”. Lo stesso vale per il cammino di discesa. Difatti la somiglianza di Gesù con l’umanità incontrarsi era talmente grande che non riusciva a percepire la differenza divina. E la gente si chiedeva: “non è questo il figlio di Giuseppe?”.

venerdì 16 ottobre 2015

SECONDO CONGRESSO CONTINENTALE DI TEOLOGIA - 26-30 OTTOBRE 2015 A BELO HORIZONTE




Dal 26 al 30 ottobre si tiene a Belo Horizonte, in Brasile, il II CONGRESSO CONTINENTALE DI TEOLOGIA, con il tema:

CHIESA CHE CAMMINA CON SPIRITO E A PARTIRE DAI POVERI.

Il primo Congresso era stato realizzato a Porto Alegre con l'obiettivo di celebrare i 50 anni del Concilio Vaticano II e i 40 della Teologia della Liberazione. Il successo di quell'evento, al quale anch'io ho partecipato, ha spinto gli organizzatori a proporre un altro momento di confronto e di riflessione. Varrebbe davvero la pena parteciparvi. 

lunedì 12 ottobre 2015

IL DIO NASCOSTO DI CARLOS MENDOZA






TEOLOGIA NELLA POSTMODERNITÁ
Il Contributo del teologo messicano Carlos Mendoza

Paolo Cugini
La Chiesa come progetto di umanizzazione basato nel concetto di persona umana creato ad immagine delle persone divine, ha contribuito e, allo stesso tempo, é stata toccata dal processo culturale della modernità. La Chiesa riformata è stata più sensibile all'innovazione che ha portato con sé il soggetto moderno e, con il tempo, anche la Chiesa Cattolica ha assunto questa sfida di comprendere l’umanizzazione come cammino necessario per la divinizzazione, conforme la testimonianza di Gesù e dei suoi discepoli.

Un modello postmoderno di chiesa è ancora agli inizi, comincia a manifestare i suoi segnali, come la condivisione dell’autorità, il riconoscimento della diversità dei carismi e delle funzioni, comunità di equipe di genere e la profonda attenzione con la madre terra, celebrazioni sacramentali inculturate, teologie contestuali: sono questi secondo Mendoza i principali segnali di una teologia postmoderna.
Un elemento importante che va segnalato della religiosità postmoderna è la ricerca di una spiritualità slegata dai sistemi chiusi della credenza. Ciò comporta il rischio di perdersi nel pantano della soggettività. Nonostante ciò, può essere visto come una grande opportunità di ritornare alle fonti delle grandi tradizioni sapienziali e spirituali dell’umanità. E’ questa la speranza in un mondo migliore.
É possibile parlare di Dio oggi solo se saremo situati nel clamore della sofferenza degli innocenti., dal lato delle vittime, cercando di superare il risentimento, la voglia di vendetta, attraverso la gratuità che viene intesa nella logica della donazione in un mondo asimmetrico e, quindi, non reciproco. In questo modo il cristianesimo recupera con nuova forza il suo carattere kenotico.

La ragione moderna ha espulso dal dialogo la fede, l’ha espulsa dai dibattiti sociali e politici e l’ha relegata nell'ambito della soggettività. Il nuovo millennio del cristianesimo ha dinnanzi a sé grandi sfide e la principale è recuperare l’armonia tra ragione e fede, fare in modo che tra le due non ci sia competizione, ma rispetto reciproco.
Fare teologia in America Latina è possibile solamente guardando alle diverse tradizioni e culture. Per questo è necessario fare riferimento a Gesù Cristo, ma anche alle differenti saggezze presenti sul territorio. Ciò significa porre attenzione non solo ai popoli indigeni, ma anche alle situazioni emergenti tipicamente postmoderne, come le minoranze sessuali, le donne, gli emigrati, ecc. Una teologia del soggetto debole della post modernità, ma molto sensibile alla costruzione di una società inclusiva.

Mie riflessioni. Che cosa significa fare teologia nel contesto culturale postmoderno? É necessario un nuovo paradigma. Siamo passati, infatti, da una cultura forte, che ha interpretato se stessa come misura di tutte le culture, elaborando sistemi teologici e filosofici forti, onnicomprensivi, ad una cultura debole, concentrata sul presente. Anche in Occidente si deve cambiare paradigma teologico e forse la Teologia della liberazione ci puó insegnare qualcosa. Da una teologia deduttiva, che parte dall’alto, cioè da principi prestabiliti, ad una teologia induttiva, che si mette in ascolto della realtà, soprattutto di quella realtà ai margini, che non la precede con dei principi per giudicarla, ma la ascolta per farsi guidare. Il Dio che si rivela in Gesù Cristo è il Dio dei poveri, degli esclusi.

CARLOS MENDOZA ALVAREZ, O Deus escondido da pos modernidade, Ed Realizaçoes, San Paulo 2011.



lunedì 5 ottobre 2015

IDEE PER UNA PASTORALE GIOVANILE DAL VOLTO MISSIONARIO




Paolo Cugini
Visitando le chiese e gli oratori si rimane perplessi nel costatare la mancanza della presenza giovanile nelle strutture ecclesiali. Si percepisce una sproporzione tra i numeri che i grandi eventi che la Chiesa organizza per i giovani riesce ad ottenere e i numeri della pastorale giovanile ordinaria, del cammino quotidiano. Perplessità accresciuta dalla consapevolezza dell’impegno profuso dalla Chiesa, non solo nei cammini formativi proposti ed elaborati, ma anche nelle strutture costruire e messe a disposizione per gli stessi giovani. Viene da chiedersi: che cos'è che non va? Che cos'è che non funziona? Perché, nonostante tutti gli sforzi, la Chiesa non riesce a raggiungere i giovani nel loro vissuto quotidiano?
Le domande diventano ancora più inquietanti se si pensa che la stragrande maggioranza degli adolescenti che non frequentano la Chiesa, hanno partecipato, nell'infanzia, al lungo cammino di catechesi per ricevere i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Forse è esattamente a questo livello il problema[1]. La Chiesa possiede un materiale spirituale ricchissimo, che proviene da secoli di tradizione, di elaborazione dottrinale e pastorale, solo che non riesce a metterlo in condizioni di portare i frutti sperati. Per chi ha un po’ di dimestichezza con gli adolescenti, conosce benissimo la resistenza che manifestano nell'affrontare le problematiche religiose, soprattutto se queste hanno a che fare con la Chiesa[2]. Sembra quasi che il lungo periodo di formazione catechistica vissuto nell'infanzia, invece di stimolare il desiderio di Dio, abbia prodotto il contrario, la nausea, il tedio e, di conseguenza, l’abbandono.

E’ ormai dal convegno di Palermo[3], che la Chiesa Italiana ha intuito la necessità di percorsi nuovi, di una pastorale giovanile non solo di attesa, rivolta ai giovani che frequentano gli ambienti della parrocchia, ma anche a tutti coloro – e sono la maggioranza – che in questi ambienti non ci mettono più piede. Incontrare i giovani nei loro ambienti di vita come le piazze, i bar, i pub, le case, le scuole e altro significa reinventare la pastorale giovanile[4]. Non si può, infatti, pensare di andare nelle piazze e incontrare quei giovani che sino a qualche anno prima frequentavano il catechismo, e riformulare la stessa proposta. E’ esattamente a questo livello che incontriamo la difficoltà della pastorale giovanile, la quale ha imparato ad affinare progetti sempre più elaborati ed attraenti per i giovani che frequentano gli ambienti ecclesiali, ma che non riesce ancora a pensare qualcosa di nuovo per la maggioranza dei giovani che si trovano sul territorio, che non s’identificano con i percorsi che la Chiesa propone.
Il problema allora è il seguente. È possibile dedicare tempo e forze per elaborare progetti formativi rivolto a quegli adolescenti, ai giovani che si trovano sul territorio parrocchiale, ma che per tanti motivi non sono più interessati a frequentare? Che tipo di progetti e che metodologia dovrebbe adottare? Che Chiesa è necessaria per proporsi  sul territorio in questo modo?


E’ all’interno di un tipo di Chiesa tutta protesa a pensare in grande, a vivere la propria dimensione ecclesiale non solo tra le mura amiche del perimetro delle proprie strutture, ma sul terreno spesso sconosciuto del territorio, che va pensato il nuovo progetto di pastorale giovanile. Su questo punto è bene chiarirsi.
 Quando la pastorale giovanile non funziona, non è solamente perché:  “i giovani di oggi sono difficili”, come si suole dire per scaricare altrove l’incapacità di mettersi in discussione. Spesso e volentieri, infatti, l’incapacità di una pastorale giovanile seria e aperta sul territorio, e non chiusa nelle mura asfittiche e care di un oratorio, dipende anche dall’incapacità di una comunità parrocchiale o diocesana di interrogarsi sul proprio cammino, di smantellare le proprie chiusure, per prendere coraggiosamente il largo.

Pensare la pastorale giovanile come progetto educativo e formativo aperto sul territorio, richiede un ulteriore presupposto, vale a dire la possibilità di pensare forme implicite di annuncio del Vangelo. Annunciare il Vangelo ai giovani che non frequentano i locali della parrocchia, significa sforzarsi di pensare e inventare percorsi educativi  e formativi che non abbiano un riferimento immediato al Vangelo. E’ il discorso della promozione umana, che la Chiesa italiana ha affrontato nel suo primo Convegno ecclesiale a Roma[5], le cui riflessioni potrebbero oggi essere trasferite sul piano della pastorale giovanile. Infatti, una pastorale dal volto missionario, richiede un’apertura mentale tale e, allo stesso tempo una fermezza spirituale, in grado di considerare qualsiasi intervento a servizio dell’uomo (La Chiesa serva dell’umanità), come cammini impliciti di annuncio evangelico.

 E’ possibile, allora, considerare evangelizzazione il sostare amichevolmente per conoscere e parlare con i giovani e gli adolescenti presenti in un pub, o in una piazza, o al tavolino di un bar? O, ancora, aiutare gli adolescenti ad operare scelte positive, vincendo la tentazione del negativo?  Fino a quando l’evangelizzazione ai giovani è identificata con gli incontri che gli educatori tengono negli spazi ecclesiali, diviene difficile impostare una pastorale giovanile aperta, dal volto missionario.
In questa prospettiva, vanno ripensati anche gli spazi utilizzati per realizzare la pastorale[6]. Se il desiderio è fare in modo che tutti i giovani incontrino Cristo, allora occorre apprendere a incontrare i giovani dove essi davvero vivono, senza pretendere di portarli nei propri ambienti. Ciò che importa è la relazione che s’instaura e non lo spazio in cui la relazione avviene. Se si accetta questo presupposto pastorale, allora diviene necessario ripensare al problema delle strutture, sulle quali vengono rivolte e scaricate numerose risorse materiali e umane.
In questo tipo d’impostazione un ulteriore presupposto che emerge chiaramente è la priorità del formatore, dell’educatore sulle strutture. Se, infatti, la pastorale giovanile dal volto missionario, considera tutto il territorio come spazio per l’azione pastorale, allora è sull’educatore che vanno rivolte le attenzioni della comunità.
Oltre a ciò, la pastorale giovanile dal volto missionario, aperta su tutto il territorio, aiuta all’elaborazione di un progetto in cui possono essere evitati alcuni pericoli, primo fra tutti l’esclusione dai processi formativi dei cosiddetti giovani difficili[7]. Concentrando, infatti, l’attenzione pastorale su di un perimetro specifico, si rischia, anche inconsapevolmente, di curare delle élite esclusive, che divengono poi, alla distanza, motivo di critica e di malessere per gli altri giovani presenti sul territorio. La metodologia missionaria della nuova impostazione della pastorale giovanile, dovrebbe agevolare l’inclusione e sfavorire tutte le forme di esclusione e discriminazione. Proporsi sul territorio, esige l’attenzione al dialogo e all’apertura verso tutti, attenzione particolarmente richiesta in questo momento storico, pieno di tensioni sociali e culturali.



[1] Su questo argomento cfr.: E. Biemmi, L’iniziazione cristiana in Italia tra cambiamento e tradizione, in:  La Rivista del Clero Italiano, 9/2005, pp. 610-623; Commissione episcopale CEI per la Dottrina Della Fede, l’Annuncio e la Catechesi, Questa è la nostra fede. Nota pastorale sul primo annuncio del Vangelo, 15 maggio 2005.
[2] Cfr.V. Andreoli , Lettera ad un adolescente, Rizzoli, Milano 2004;C. Betti (a cura di), Adolescenti e società complessa. Proposte d’intervento formativo e didattico, Ed. del Cerro, Tirrenia 2002. Cfr. anche le interessanti riflessioni di S. Pagani, Giovani d’oggi e disponibilità al Vangelo. Paradossi per una nuova possibilità educativa, in La Rivista del Clero Italiano 1/2005 pp. 6-23.
[3] CEI, Con il dono della carità dentro la storia. La Chiesa Italiana dopo il Convegno di Palermo, Paoline, Milano 1996.
[4] Cfr. CEI, con il dono della carità dentro la Storia, cit. nn 38-40; ID. Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del 2000, n° 51.
[5] Cfr. AA.VV., Evangelizzazione e promozione umana, AVE, Roma 1976.
[6] Su questo argomento segnalo le significative riflessioni di M. Augé, I non luoghi. Introduzione all’antropologia della surmodernità, Eleutéria, Milano 1992.
[7] Cfr. Miguel Benasayag-Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2005.