LA MESSA: UN
PRECETTO? PARLIAMONE
Paolo Cugini
Svolgendo attualmente il ministero in città mi
sto imbattendo in un fenomeno religioso di ampie proporzioni, che sino ad ora
non avevo mai preso in considerazione. Un grande numero di persone alla
domenica gira per le chiese della città per “prendere” la messa. Siccome
l’hanno “persa” nella parrocchia, allora corrono ai ripari per “prenderla” da
un’altra parte e, così, assolvere il precetto domenicale. E bisogna dire che
chi cerca una messa in città la trova, anche perchè alla domenica nel solo
vicariato urbano vengono celebrate circa novanta messe! Quando penso a questi
numeri la mente va immediatamente all’esperienza missionaria in Brasile e mi
gira la testa. Quante comunità ho incontrato che hanno la possibilità di
partecipare ad una messa tre o quattro volte all’anno! E poi in Italia si
lamentano che ci sono pochi preti: chi ci capisce qualcosa è bravo! Spesso quando
mi fermo a pensare mi chiedo se in tutti questi anni ho servito la stessa
chiesa.
Quello che ho descritto sopra è senza
dubbio un fenomeno legato al modo d’intendere la messa, retaggio di una
formazione religiosa basata più sul catechismo che sul Vangelo, più sulle
devozioni che sugli insegnamenti lasciati da Gesù. L’idea che la messa
domenicale sia un precetto da rispettare assolutamente per andare in paradiso,
deriva da una mentalità devozionale che incentiva il discorso di una salvezza
individuale, slegata dal contesto circostante, cioè dalla comunità, dalla
relazione con i fratelli e le sorelle e dalla relazione con il mondo. Lo so
benissimo che la messa come precetto domenicale è una prescrizione della
Chiesa. Ciò non toglie il fatto che possiamo interrogarci sulle conseguenze di
un precetto, quando nella pratica pastorale non è accompagnato da una
riflessione più attenta sulle sue origini e, soprattutto, sulle sue conseguenze
nella vita del cristiano.
Se per andare in paradiso basta soddisfare
dei precetti, allora prendiamo la messa dov’è e all’ora che più ci piace. Una
volta arrivati in chiesa ci sediamo in un posto il più lontano possibile dagli
altri, per non essere disturbati nella nostra concentrazione personale. Si
capisce, allora, come in questa prospettiva devozionale la comunità e il mondo
siano accessori non indispensabili, ma facoltativi e anche l’Eucarestia è
percepita come qualcosa di slegato dalla via della comunità e dal mondo. Nella
linea devozionale, Eucarestia, Comunità e Mondo sono realtà autonome, senza
nessuna relazione tra loro. Se il centro della vita spirituale è la
soddisfazione individuale del precetto, allora l’Eucarestia non ha più la
possibilità di trasformare il mondo, il modo d’intendere l’economia, il
rapporto con i più deboli, la relazione con il creato A volte quando sono nel
confessionale, mi chiedo il perché del fatto che nessuno confessa peccati
contro l’ambiente, contro lo spreco d’acqua, contro la scarsa attenzione per il
bene pubblico e giù di lì. Che cos’è la vita spirituale nella prospettiva
aperta dal Signore, dalla sua Incarnazione nella storia, se non la
continuazione di quel progetto di trasformazione del mondo del quale tanto
parla san Paolo? Se tutto dev’essere ricapitolato in Cristo, allora
l’Eucarestia è lo strumento privilegiato per questa trasformazione. E così mi
viene da dire: come si fa a pensare che tutto si riduca nel prendere la messa
alla domenica e pronto? Secoli di devozioni lasciano il segno dentro e fuori la
Chiesa.
“All’origine non era così”. E’ questo che
Gesù dice ai farisei sul tema del matrimonio e così potremmo dire oggi anche
sul tema della messa. All’origine, nel momento della sua istituzione, la messa
non è stata pensata per essere un precetto, uno stimolo per la pietà
devozionale, un incentivo all’individualismo. Nell’ultima cena Gesù invita i
suoi amici, la comunità di discepoli che Lui stesso aveva chiamato e che lo
avevano seguito negli anni di attività pubblica. E’ quindi una cena tra amici,
tra persone che si vogliono bene. E’ a loro che Gesù si consegna. La relazione
tra Gesù e i discepoli è fondamentale per capire il senso dell’Eucarestia.
L’importanza di questa relazione la si coglie nell’essere tutti riuniti intorno
alla mensa, nella cura data alla preparazione della stessa. I discepoli
nell’ultima cena non sona andati semplicemente a prendere un pasto, ma a
trascorre qualche momento di convivialità con il Signore.
Ascoltando poi le parole che Gesù pronuncia
nell’ultima cena ci si rende conto di tutta una serie di elementi estremamente
importanti per tutti coloro che s’identificano con la sua proposta. Possiamo
dire che i gesti e le parole che Gesù compie e dice nell’ultima cena sono la
sintesi di tutta la sua vita. Che cos’è stata, infatti, la vita di Gesù se non
una vita spezzata per gli altri e un sangue sparso per tutti gratuitamente!
L’invito a “fare questo in memoria di me” lo si
può interpretare in una duplice prospettiva. La più immediata e letterale
consiste nel ripetere i gesti e le parole da Gesù fatti e pronunciati. E’
questo che la Chiesa, sin dalle origini, compie. E allora, tutte le volte che
celebriamo la messa noi obbediamo al comando del Signore e sappiamo che chi ama
Gesù obbedisce ai suoi comandi (Cfr. Gv 14,15).
C’è però un’altro modo di capire il comando che
il Signore ha dato nell’ultima cena e che senza dubbio va molto più in
profondità. “Fate questo in memoria di me” vuole soprattutto dire
imitare la vita del Signore. Se nell’ultima cena Gesù ha offerto ai suoi
discepoli il senso profondo della sua vita con parole e gesti, ciò significa
che la vita del Signore continua nella vita dei discepoli e delle discepole. La
comunità che celebra il mistero eucaristico è chiamata a vivere nella vita ciò
che celebra nel sacramento. Celebriamo la vita del Figlio di Dio che ha donato
la sua vita per noi, che come ci ricorda Paolo, ha realizzato la
riconciliazione del mondo diviso in fazioni attirando l’odio sulla sua carne.
Ebbene, è proprio questo che siamo chiamati a fare tutte le volte che diciamo
Amen dopo aver mangiato il corpo di Cristo. Nell’Eucarestia celebriamo la vita
di colui che ha amato sino alla fine i sui amici, di colui che ha perdonato
senza riserve, che ha denunciato le ingiustizie, i soprusi. E’ stato Gesù, del
cui corpo ci alimentiamo nella messa, a denunciare la religione falsa, quella
che si alleava al potere politico non permettendo alla Verità di manifestarsi.
Diceva Simone Weil: “Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio ma
dal modo in cui parla delle cose terrestri che si può meglio discernere se la
sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio”. Che donna Simone!