mercoledì 27 maggio 2015

EDUCARE I GIOVANI ALLA FEDE







Paolo Cugini
E’ stato questo il titolo della relazione del prof. Pier Paolo Triani all’incontro regionale degli assistenti ecclesiastici Agesci tenutosi a Bologna lunedì 18 maggio. Un tema sempre molto stimolante per coloro che sono tutti i giorni a contatto con i giovani e che desiderano annunciare loro il Vangelo. Triani faceva notare che dal punto di vista formativo la condizione giovanile è piuttosto critica. Si nota infatti, anche tra i giovani che frequentano le parrocchie, una scarsa conoscenza della Bibbia, accompagnata da una scarsa frequenza della messa domenicale e di una generale resistenza alle proposte specifiche del vissuto ecclesiale.
I giovani probabilmente, non sono interessati ai problemi religiosi così come li presentiamo a loro. In realtà, si tratta di una generazione non cristiana o, per dirla alla Matteo Armando, sono la prima generazione incredula. Si tratta di una generazione secolare, post cristiana. Al di là del dibattito degli studiosi, troviamo alcune costanti nel vissuto religioso dei giovani oggi che per il prof Triani sono le seguenti:
1.      Erosione dell’appartenenza sociale alla fede cattolica, ma in generale un’erosione di appartenenza alle istituzioni religiose. Alla domanda: credi? Tra i giovani del nord Italia hanno risposto affermativamente il 42%, mentre nel Sud Italia il 55%. Ormai i giovani non si riconoscono più nella dimensione religiosa, perché percepita come qualcosa che appartiene al mondo dell’infanzia.

2.      Progressivo analfabetismo religioso. Le parole e i racconti cristiani erano più diffusi in passato rispetto ad oggi.

3.      Siamo in presenza di una forte riduzione della mediazione comunitaria. L’esperienza religiosa è considerata come un’esperienza individuale, personalista. La mediazione della chiesa è percepita come sovrastruttura convenzionale. Vale, allora, la dimensione relazionale. I giovani sospettano le mediazioni istituzionali. La fiducia nella chiesa è medio e, nelle ultime statistiche, è l’unica istituzione che non ha perso terreno. I giovani si fidano di papa Francesco. I giovani si fidano delle perone che vivono quello che dicono.

4.      Indebolimento dell’evocazione dei simboli cristiani e la trasformazione del simbolismo religioso. Irrilevanza del linguaggio cristiano. Appare sempre con maggior forza il Gesù sentimentale, così come viene presentato nelle devozioni, più che il Gesù della storia e dei vangeli. La parola Gesù non comunica più nel profondo. Ciò porta a una dimenticanza della dimensione trascendente. Ormai il tema religioso appartiene al privato.
Il prof Triani faceva notare come la domanda religiosa, nonostante tutto, permane. Le parole della fede cristiana sono parole forti che possono scuotere ancora le nuove generazioni. Occorre allora, passare dalla lettura stanca della condizione giovanile ad una concezione dinamica. Non serve a niente e a nessuno rimanere solamente sul piano delle indagini statistiche e alimentare le frustrazioni su ciò che non riusciamo più a fare con i giovani.  Oggi sempre di più siamo consapevoli che la fede sia un processo che si costruisce in un tempo più lungo. La maturità religiosa si raggiunge verso i trent’anni. Oggi i ragazzi non solo vivono questo processo, ma vivono esplicitamente l’adesione alla fede come un processo aperto e dinamico. Non si accontentano più delle modalità scolastiche della trasmissione della fede, ma vogliono essere coinvolti attivamente nel cammino formativo. Quali linee di lavoro si possono indicare per raggiungere questi obiettivi? Il prof Triani ne ha indicate otto:

1.      L’educazione alla fede è sempre una parola buona sulla vita delle persone. Incontro con la Parola buona. La comunità cristiana si deve porre l’interrogativo sulle modalità da mettere in atto per aiutare le nuove generazioni ad incontrare questa Parola.

2.      Riporre al centro dell’azione educativa la dinamica esistenziale delle persone, del raccontare la fede. Fede non come concetto, ma fede come racconto che parla di vita e alla vita delle persone. Educare alla possibilità dei sì della fede.

3.      Educarci all’apertura. C’è un rischio di chiusura su di sé che nega la possibilità stessa di riconoscere una parola altra.

4.      Tema del progetto che diventa autoreferenziale. Vocazione: che cosa ti viene chiesto? Educazione all’interiorità è inseparabile all’educazione all’apertura. Conosco me stesso se mi apro all’altro.

5.      Educare allo stupore. Aiutare a capire che c’è un mistero più grande.

6.      Educare a fare i conti con la fragilità. Il concetto di salvezza è difficile oggi. La fragilità dell’umano.

7.      Educare a sentirsi parte di una grande storia. E’ il senso della comunità, sia parrocchiale che diocesana. Necessità di uscire dalle dinamiche asfittiche del piccolo gruppetto parrocchiale.

8.      Educare a leggere la vita con le parole evangeliche. E’ questo uno dei compiti principali della comunità. Mettere in grado i giovani, gli educatori, i responsabili, a leggere la propria vita a partire dal Vangelo, per fare in modo che le proprie scelte siano il più possibile evangeliche.

Per rendere operativi questi obiettivi il prof. Triani indicava come fondamentali alcuni elementi. In primo luogo l’ascolto quotidiano della Parola di Dio. La comunità non potrà mai trasmettere alle nuove generazioni i contenuti di quella Parola che non conosce e non vive. In secondo luogo, occorre recuperare il valore simbolico della liturgia. E’ certamente questa una delle urgenze maggiori. Assistiamo, oggi nella chiesa, ad un ritorno angoscioso delle forme liturgiche passate, probabilmente per nascondere il vuoto religioso. Recuperare il simbolismo liturgico che trova i suoi significati nella Parola di Dio, permette di cogliere in modo immediato il legame tra fede e vita, corpo e spirito. Il rischio, che già stiamo assistendo, è un ritorno dei ritualismi fini a se stessi, svuotati di significato e, soprattutto, scevri da qualsiasi legame con la vita. Infine, Triani indicava nella preghiera personale il cammino per una vita di donazione totale e gratuita, vita che stimola le nuove generazioni ad uscire dai cammini egoistici che incontra nella vita di ogni giorno.









venerdì 15 maggio 2015

DESIDERIO DI UNA CHIESA COME POPOLO DI DIO


Paolo Cugini

C’è una categoria ecclesiologica che ha preso piede in America Latina, subito dopo il Concilio Vaticano II: è l’idea della chiesa come popolo di Dio. Sappiamo quanto questa idea abbia sudato per entrare nei documenti ufficiali del Concilio, quando però è passata lo ha fatto in modo eclatante. Sfogliando, infatti, la Lumen Gentium troviamo che il capitolo sul Popolo di Dio precede la parte sulla gerarchia. E’ una bellissima indicazione di metodo, perché ci dice tra le righe e senza bisogno di sforzare troppo la fantasia, che nella chiesa siamo tutti figli e figlie di Dio e che la diversità di carismi e ministeri è in funzione della comunione. Non c’è nessuno, allora, che nella chiesa come popolo di Dio è più importante dell’altro o dell’altra in senso mondano. Tutte le volte che ciò avviene, tutte le volte che nella comunità cristiana si presenta con privilegi e con pretese d superiorità sta negando il Vangelo, anzi, lo sta facendo a pezzi.  Se tutto ciò è chiaro e comprensibile viene da chiedersi che cosa sia avvenuto nella storia da rendere il rapporto tra clero e laici così complicato, ostile, in una parola: teso. In queste righe non m’interessa fare un’analisi storica, ma recuperare il valore di un’idea, di un’intuizione. La chiesa come popolo di Dio, significa, innanzi tutto, uno stile, un modo di essere nel mondo. Di che modo si tratta? Si tratta del modo di Gesù che da ricco che era si è fatto povero, che si è abbassato per innalzarci, che è venuto ad abitare in mezzo a noi, che si è fatto uno di noi.  Si tratta anche, del cammino di discepoli e discepole uguali, dove la differenza non è mai il merito, la conquista personale che si trasforma in sopruso sull’altro, ma un dono condiviso. Mettere in un discorso ecclesiologico l’accento sul popolo, significa desiderare una chiesa che cammina al passo della gente, non davanti o dietro, ma insieme. Una chiesa che non pone differenze, che non costruisce barriere e, soprattutto, che non diventa elitaria. E’ questo, forse, uno dei problemi maggiori che riscontriamo nel cammino della chiesa e che sta diventando eclatante dinanzi allo stile di papa Francesco: una gerarchia ecclesiale che invece di porsi al servizio del popolo di Dio, si mette a comandare, si mette davanti, diventa in altre parole, autoreferenziale. E così, invece di accompagnare il popolo, lo giudica, invece di usare misericordia, lo condanna, invece di mettersi in ascolto, lo fa tacere. La chiesa come popolo di Dio, così com’era stata pensata nel Concilio, era nella prospettiva della comunità così come viene presentata negli Atti degli Apostoli, dove i credenti erano un cuor solo e un’anima sola e avevano tutto in comune. Non c’è nulla, in queste bellissime descrizioni della vita delle prime comunità cristiane, che faccia presagire a quello che avverrà dopo, e cioè la separazione tra laici e presbiteri e una classe gerarchica che diviene una élite, distaccata da quel popolo che dovrebbe guidare con amore.

 La chiesa come popolo di Dio offre un’altra indicazione importante su come dovrebbe svolgersi la vita nella comunità, soprattutto nelle decisioni che è chiamata a realizzare durante il cammino. Gesù nel suo viaggio verso Gerusalemme sapeva coinvolgere tutti. Certamente tra i discepoli e le discepole c’erano funzioni diverse, ma non nel senso del potere civile o politico, vale a dire di un’importanza mondana, di una differenza di quantità. Gesù lo ripete più volte e lui stesso vive il fatto che è venuto a servire e non a farsi servire. Se, allora ci sono delle differenze nella comunità dei credenti, son sempre in funzione della comunità e non di un prestigio personale mondano e temporale. Lo stile dell’autorità come servizio alla comunità si manifesta nella capacità evangelica di coinvolgere le persone nelle decisioni, nell’accompagnare i membri della comunità ad assumersi le responsabilità insieme, a valorizzare e a far emergere al massimo i carismi che lo Spirito Santo suscita in tutti i battezzati. La malattia ecclesiale del clericalismo ha prodotto alla distanza l’infantilismo dei laici, che non riescono a muoversi autonomamente ed hanno bisogno del continuo riferimento dei loro pastori. Più la comunità è segno di un cammino di corresponsabilità e di valorizzazione dei carismi di tutti, più diventa segno della presenza dello Spirito del Signore Risorto nella storia.

C’è poi un altro dato importante suggerito dall’idea di Chiesa come popolo di Dio sul quale vale la pena soffermare l’attenzione. Si tratta dello stile di vita di coloro che Dio chiama a guidare la comunità. Siccome siamo tutti uguali e la diversità non è nell’ordine del merito o della quantità, ma della chiamata che è un dono, ciò significa che lo stile di vita di un vescovo o di un presbitero dovrebbe essere segnato dalla semplicità e dall’essenzialità. La somiglianza del vescovo e del presbitero al Buon Pastore oltre che negli atteggiamenti misericordiosi, dovrebbe essere visibile e comprensibile nello stile sobrio, così com’è lo stile delle persone della comunità, soprattutto le persone povere che in molti contesti ecclesiali costituiscono la maggioranza. L’abitudine consolidata nei secoli, rafforzata nell’occidente medievale, a identificare il vescovo e il presbitero con una gerarchia di potere e non di servizio, con gli imperatori più che con i servi, ha prodotto nell’immaginario collettivo occidentale un’idea distorta di chiesa, che è difficile da rimuovere. Ci ha provato il Concilio Vaticano II con l’idea di chiesa come popolo di Dio e di chiesa come serva dell’umanità, non accompagnato però da un effettivo sforzo di porre il cammino delle comunità in questa direzione. Quanto più avremo Papi alla Francesco, vescovi alla Helder Camara e preti alla Puglisi, tanto prima riusciremo a recuperare l’idea e la pratica del buon pastore, ed avvicinare le persone che si sono allontanate dalla chiesa a causa dello scandalo della testimonianza non data. Che cosa ha provocato nei secoli questo stile temporale e mondano di svolgere il ministero? Primo fra tutti il culto alla personalità, vale a dire la richiesta da parte delle così dette autorità religiose, di essere considerate dai laici come qualcosa di diverso, di sacro, aprendo il varco, in questo modo, ad atteggiamenti idolatrici. Purtroppo sappiamo e constatiamo che questi atteggiamenti di sapore medievale, sono ancora oggi presenti tra di noi. L’aderenza al Vangelo, la fedeltà alla tradizione della chiesa delle prime comunità potrebbe aiutarci a guarire da queste malattie religiose e vivere in modo più sereno.

La celebrazione liturgica, infine, è lo spazio nel quale diviene visibile la modalità ecclesiale che anima la comunità. Nelle comunità in cui si è affermato uno stile temporale di vivere il ministero, tutto l’accento sarà nell’evidenziare da una parte la distanza tra presbiterio e fedeli e, dall’altra, nell’accentuare il potere sacro del ministro. In queste liturgie i laici sembrano non esistere, quasi invisibili. Ori, orpelli, candelabri, tovaglie raffinate, vestiti liturgici curati nel dettaglio, diventano il perno di queste liturgie dove la vita sembra essere un accessorio di poco rilievo. Nella chiesa come popolo di Dio l’accento liturgico è su tutto ciò che fa emergere la comunione e la corresponsabilità. In queste liturgie il rapporto tra la fede e la vita vissuta è ben visibile nel modo di celebrare, di cantare, di muoversi. Protagonista di queste celebrazioni non è il presidente, ma la comunità. Sono, infatti, i fedeli laici che trovano spazio per esprimere la vita, manifestandosi nei momenti previsti dalla liturgia. L’accento non viene messo sulle tovaglie e sui turiboli, che spesso e volentieri non appaiono nemmeno, ma sulla vita celebrata. Le liturgie che celebriamo dicono che cosa passa per la testa di quella comunità. Forse le liturgie medievali esprimevano meglio quel modo di chiesa di essere presente nella storia. Oggi, mi sembra, che abbiamo più che mai bisogno di recuperare quell’idea che i padri della chiesa avevano elaborato e che il Concilio Vaticano II aveva espresso nella Lumen Gentium parlando di popolo di Dio.


LA TRASFORMAZIONE DELLA MISSIONE



LA TRASFORMAZIONE DELLA MISSIONE DI DAVID. J. BOSCH
ELEMENTI DI UN NASCENTE PARADIGMA MISSIONARIO ECUMENICO

Recensione di Paolo Cugini

1. MISSIONE COME LIBERAZIONE
Le teologie della liberazione si svilupparono, soprattutto in America Latina, in polemica con l’incapacità della chiesa di far fronte ai problemi legati all’ingiustizia sociale e con l’inadeguatezza del tradizionale modello della carità. La salvezza dei poveri è molto di più di un aiuto finanziario per mettere al passo dell’Occidente i paesi poveri. Per i teologi della liberazione il problema consiste nell’andare alle cause dell’ingiustizia sociale e lottare anche attraverso la rivoluzione per toglierle. A partire da questa presa di coscienza inizia una riflessione che giunge ad una prima elaborazione significativa a Medellin nel 1968, nella Conferenza Generale dei Vescovi dell’America Latina (CELAM II). È in questo contesto che viene elaborata l’affermazione dell’opzione preferenziale per i poveri, perché “La chiesa non ha altra scelta che quella di essere solidale con i poveri”. In questa prospettiva, Hugo Asmann, uno dei maggiori teologi della liberazione, sostiene che i poveri sono un privilegio epistemologico. A partire da queste considerazioni si sviluppa una profonda riflessione che coinvolge non solo i teologi, ma anche le conferenze episcopali e, soprattutto, il cammino delle comunità di base. Bosch tenta anche un confronto tra la teologia della liberazione e la teologia liberale europea. Secondo l’autore la teologia della liberazione non è solo l’ala radicale e politica della teologia progressista europea, ma ha qualcosa di originale e, soprattutto, una proposta che si colloca nella tradizione dei risvegli evangelici e della teologia riformata. La teologia della liberazione ha aiutato la chiesa a riscoprire la sua antica fede in YHWH, la cui qualificazione primaria si basava sul suo coinvolgimento nella storia, quale Dio della rettitudine e della giustizia, che difendeva la causa dei deboli e degli oppressi. La teologia della liberazione ci ha aiutato a comprendere in maniera nuova lo Spirito Santo, in particolare: “La sua capacità di trasformare le cose inerti in cose viventi, di riportare le persone dalla morte alla vita, do conferire potere ai deboli”. Soprattutto, però, la TL ci ha ricordato che i cristiani possono assumere una posizione critica di fronte alle autorità, alle tradizioni e alle istituzioni di questo mondo. In questa prospettiva il teologo Gustavo Gutierrez, riflettendo sul rapporto profondo tra fede e vita, ricorda che la vera liberazione deve avvenire a tre livelli: una liberazione dalle situazioni sociali di oppressione ed emarginazione, da ogni sorta di asservimento personale e dal peccato. I tre livelli citati sono interconnessi, ma non sono la stesa cosa. Bosch critica la tendenza ad innalzare la liberazione politica come l’elemento principale del processo di liberazione integrale. Questo, a suo avviso, è stato il limite della teologia della liberazione che ha letto la Bibbia nella prospettiva della liberazione politica, nascondendo l’ altra più profonda liberazione dal peccato. Sempre secondo Bosch c’è stata un’altra tendenza all’interno della TL che possiamo considerare negativa, vale a dire l’insistenza sul popolo di Dio a discapito della chiesa. “Dire che Dio ascolta le grida degli oppressi – sostiene Bosch – e dà loro risposta, è una cosa; dire che queste grida sono la voce di Dio è una cosa diversa”. I teologi Segundo Galilea, Gutierrez e Clodovis Boff stanno denunciando questa situazione. Segundo Galilea, secondo il nostro autore, è il pioniere di un nuovo corso all’interno della TL. “Il cristiano può trionfare – sostiene Segundo – anche quando le circostanze non cambiano, anche quando la liberazione non arriva”.

2. MISSIONE COME INCULTURAZIONE
L’inculturazione rappresenta un secondo importante modello di contestualizzazione della teologia. Questo modello sostiene che la fede cristiana non esiste se non in quanto tradotta in una cultura. La fede della comunità primitiva fu inculturata in una grande varietà di liturgie e contesti. Durante questo primo periodo l’accento era posto sulla chiesa locale, più che sulla chiesa universale. Dopo Costantino la chiesa divenne la portatrice della cultura. La sua espansione missionaria comportò un movimento dai civili ai selvaggi e dalla cultura superiore a quelle inferiori, un processo che richiedeva la sottomissione. Bosch fa notare come lentamente il cristianesimo diviene parte della cultura Occidentale e viceversa e, nell’incontro con altri popoli e altre culture, era evidente che l’annuncio del vangelo e la conversione includeva l’esportazione della cultura Occidentale. L’adattamento richiesto non includeva mai la modificazione della teologia occidentale. La fede nei termini in cui era concepita nella chiesa occidentale era il nocciolo autentico, mentre i rivestimenti culturali presso cui si recavano i missionari erano il guscio sacrificabile. “Nel processo di adattamento il nocciolo doveva rimanere intatto, ma adattato alle forme della nuova cultura, la quale doveva essere adattata a sua volta al nocciolo”. Tuto ciò è ben visibile nella controversia sui riti che coinvolse la Compagnia di Gesù sia in India che in Cina. Questo sistema rigido di adattamento non poteva durare per sempre. Infatti, nel Novecento l’ascesa del pensiero antropologico rivelò la relatività e la contestualità di tutte le culture. Grande impulso in questa direzione venne dalla maturazione delle chiese più giovani, che andò spesso a braccetto con la fondazione di chiese indipendenti sottratte ad ogni controllo missionario. Papa Benedetto XV con l’enciclica Maximum illud (1919) fu uno dei primi a promuovere il diritto delle chiese di missione di cessare di essere colonie ecclesiastiche sottoposte al controllo straniero e di avere un proprio clero e propri vescovi. Da allora sono state introdotte dappertutto delle gerarchie locali. Lentamente si viene a riconoscere che una pluralità di culture presuppone una pluralità di teologie e, di conseguenza, per le chiese del Terzo Mondo, l’addio ad un approccio eurocentrico. La fede cristiana dev’essere ripensata, riformulata e vissuta in maniera rinnovata in ciascuna cultura. Negli anni Settanta e Ottanta furono organizzati molti convegni per riflettere su questo tema e sulle conseguenze pastorali e teologiche dell’inculturazione. Lo stesso Paolo VI tentennò sull’accettazione o meno di questo paradigma anche se poi, sia lui che Giovanni Paolo II entrarono e incentivarono questa nuova frontiera teologica. C’è da dire che già il Concilio Vaticano II andava in questa direzione quando sosteneva che l’unica chiesa universale trova la sua vera esistenza nelle chiese particolari (cfr. LG 23, 26). Giovanni Paolo II ha fatto notare come l’inculturazione segua il modello dell’Incarnazione. Inculturazione suggerisce comunque un duplice movimento: inculturazione del cristianesimo e cristianizzazione delle culture. Il cristianesimo offre alle culture la conoscenza del mistero nascosto aiuta le culture a far sorgere dalla loro propria viva tradizione espressioni originali di vita. Pedro Arrupe ricorda che: “Il senso dell’inculturazione è quello di divenire un principio che animi, diriga e unifichi la cultura, trasformandola e ricreandola in maniera tale da produrre una nuova creazione”. Bosch, alla fine del paragrafo ricorda che l’inculturazione non è mai un fatto compiuto, ma rimane sempre un processo provvisorio. “La relazione tra il messaggio cristiano e la cultura è una relazione creativa e dinamica, piena di sorprese”.

3. MISSIONE COME TESTIMONIANZA COMUNE
All’inizio del secolo scorso in campo protestante viene lentamente facendosi strada un’idea, che successivamente diverrà un vero pe proprio programma teologico, vale a dire la presa di coscienza che la missione e l’unità sono indivisibili. Sempre in questo periodo vengono organizzati una serie d’ incontri internazionali con l’obbiettivo di apprendere a camminare insieme (Edimburgo 1910). L’Assemblea di Nairobi del 1975 arrivò a sostenere che: “Lo scopo per cui siamo chiamati all’unità è perché il mondo creda. Una ricerca di unità che non sia collocata nel contesto della promessa di Cristo di attirare tutti a sè sarebbe falsa”. É importante sottolineare che esistono differenti correnti ecumeniche all’interno del mondo evangelicale. Oltre a ciò Bosch fa notare come l’accento sull’unità degli evangelicali differisce da quello della concezione ecumenica. Gli evangelicali tendono a considerare l’unità come qualcosa di spirituale e come un attributo della chiesa invisibile. In campo cattolico un grande impulso nella direzione ecumenica venne dal Concilio Vaticano II. Fu soprattutto il Decreto sull’ecumenismo unitatis redintegratio a parlare a chiare lettere dell’esigenza di migliori relazioni tra le chiese e di un’accettazione reciproca. Il Decreto descrive il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani come una delle preoccupazioni principali del Concilio e dichiara che la divisione tra cristiani contraddice la volontà di Cristo ed è di scandalo al mondo. Il Vaticano II e gli sviluppi del protestantesimo segnarono l’avvento di una nuova era. I progetti di dialogo fra la chiesa cattolica e diverse altre comunità confessionali, evangelicali inclusi, sono oggi parte integrante della scena ecclesiale. A partire dal Vaticano II, sostiene Bosch, è divenuto impossibile dire chiesa e missione senza parlare contemporaneamente dell’unica missione e dell’unica chiesa. Ciò rappresenta un mutamento di paradigma di enormi proporzioni, che indica una nuova autocomprensione della chiesa. In questo nuovo paradigma, diviene irrinunciabile la coordinazione reciproca di missione e unità. È la presa di coscienza sempre più netta che la comunione, prima di essere uno sforzo o una situazione sociale, è un dono per tutti coloro che si riconoscono nell’unico Vangelo di Gesù. É evidente che sostenere questo paradigma non significa aprire lo spazio a facili irenismi. Chi lavora nel cammino ecumenico è consapevole che la comunione è possibile soltanto dove le persone si accettano nonostante le differenze. “La nostra meta – continua Bosch – non è una comunione senza conflitti, ma una comunione caratterizzata dall’unità nella diversità”. La più grande conseguenza dal punto di vista missionario di questa presa di coscienza è che missione nell’unità significa la fine della distinzione fra chiese che mandano e chiese che ricevono. Solo in questo modo divine visibile l’uguaglianza fra i popoli, perlomeno fra i fratelli e le sorelle che credono nel Signore Risorto. L’importanza dell’unità visibile diviene non solo un servizio della chiesa ma, attraverso questa, un servizio all’umanità. L’unità è il grande tema del nuovo paradigma ecclesiale sorto nella riflessione sulla missione, che trova un posto specifico nel significativo rapporto della chiesa con il mondo.

4. MISSIONE COME MINISTERO DI TUTTO IL POPOLO
Il passaggio dal ministero come monopolio di uomini ordinati al ministero come responsabilità di tutto il popolo di Dio, ordinato e non, è uno dei più importanti mutamenti, secondo il Nostro autore, oggi in corso nella chiesa. La crisi che dobbiamo affrontare a riguardo del ministero è parte integrante di quella crisi che fronteggia la chiesa e la missione in questo tempo di mutamenti di paradigma, in cui praticamente ogni elemento tradizionale della fede e della vita sociale è sottoposto a gravi pressioni. Bosch propone un excursus storico per mostrare l’ampiezza e la profondità del mutamento in corso. Dopo aver analizzato alcuni dati biblici, l’attenzione di Bosch si ferma sui dati storici. “La clericalizzazione della chiesa andò a braccetto con la sacerdotalizzazione del clero”. Lentamente il sacramento dell’ordine diviene mezzo per separare il sacerdote dalla comunità, ponendolo di fronte ad essa come una figura mediatrice e come una sorta di alter Christus. La chiesa era così composta da due categorie di persone chiaramente distinte: il clero e il laicato, quest’ultimo concepito come immaturo, assolutamente dipendente dal clero nelle faccende religiose. Con una simile impostazione l’attività della chiesa è concepita esclusivamente nella sfera del sacro. La chiesa cattolica nell’epoca medievale, sviluppò l’abitudine di concepire se stessa come il vero regno di Dio in terra. “La chiesa cattolica – sostiene Bosch – si considerava provvista di una fornitura di grazie celesti che i proprietari clericali potevano erogare ai loro clienti”. Lo stesso tipo d’impostazione avviene anche in campo protestante. La differenza è che il punto focale della “cura delle anime” non sono più i sacramenti, ma la Parola di Dio. Del resto, in entrambe le tradizioni il sacerdote-uomo del clero, custodito in una posizione centrale e privilegiata, rimaneva il fulcro della chiesa. E così, le missioni protestanti come quelle cattoliche, esportarono come cosa del tutto naturale il modello clericale in esse dominante in “terra di missione”, importandolo agli altri come unico modello legittimo, rendendo difficile alle chiese locali di mettere in atto il loro ministero particolare. L’apostolato dei laici e l’idea del sacerdozio di tuti i credenti sono idee apparse da pochi decenni, appunto in un’epoca di grandi trasformazioni di paradigma. Dopo la seconda guerra mondiale cominciò a farsi strada nelle chiese, sia cattolica che protestante, l’idea che i tradizionali modelli monolitici dell’ufficio ecclesiastico non corrispondessero più alla realtà. L’aggiornamento teologico di ambedue le principali confessioni occidentali riscoprì che l’apostolicità era un attributo di tutta la chiesa e che il ministero ordinato poteva essere inteso solo come esistente all’interno della comunità di fede. Sappiamo l’apporto significativo del Concilio Vaticano II sul ruolo dei laici nella chiesa. Nonostante ciò, la vecchia dicotomia tra laici e presbiteri continua ad essere presente nella vita delle comunità. Anche se lo stesso Leonardo Boff sostiene che il problema di questa dicotomia non si risolve eliminando il ministero ordinato, è comunque un dato di fatto che la chiesa fa ancora fatica a vivere il ministero come servizio umile, piuttosto che come segno di potere e comando. Secoli di connubio con il sacro romano Impero vogliono pur dire qualcosa sia sul piano della storia, che su quello dell’impostazione pastorale e della riflessione teologica.

5. MISSIONE COME TESTIMONIANZA AI MEMBRI DI ALTRE FEDI VIVE
Sia nel modello cattolico che in quello protestante missione voleva dire conquista e sostituzione. Il cristianesimo era concepito come unico e superiore, definitivo e normativo, come l’unica religione che aveva il diritto divino di esistere e di espandersi. Secondo Bosch uno dei fattori decisivi per il crollo di questa impostazione granitica è stato l’illuminismo. Il paradigma illuministico, infatti, prevedeva che la religione sarebbe scomparsa, quando le persone avessero scoperto che i fatti erano tutto ciò di cui avevano bisogno per sopravvivere e che i così detti valori avrebbero terminato il loro fascino e la loro parvente necessità. Paradossalmente a queste prospettive oggi stiamo scoprendo il mondo della religione dopo l’illuminismo. Bosch fa notare come da molte parti oggi si riscontri una rinnovata urgenza di fare i conti con l’intera questione della teologia delle religioni, che si sta rivelando molto complessa. Bosch prende come punto di riferimento lo studio di Kung del 1987 perché a suo avviso é il più chiaro e sintetico su questo tema. Kung divide l’atteggiamento del cristianesimo nei confronti delle altre religioni in tre concezioni:
a.     Esclusivismo. Questo atteggiamento è stato premoderno.
b.     Compimento. É l’idea che sostiene il cristianesimo come compimento delle altre religioni, idea ben presente all’epoca delle missioni nel periodo della colonizzazione. Kung presenta la posizione di Rahner dei cristiani anonimi. Rahner riconosce elementi soprannaturali di grazia nelle altre religioni, elementi che egli ipotizza essere stati dati agli esseri umani per mezzo di Cristo. All’interno delle altre religioni vi è la grazia salvifica, ma questa grazia è la grazia di Cristo. Ciò fa degli aderenti alle altre fedi dei “cristiani anonimi” e attribuisce alle loro religioni un ruolo positivo nel disegno salvifico di Dio.
c.      Relativismo. Principale esponente di questa impostazione fu Ernst Troeltsch, che sostenne l’esistenza di uno stretto legame tra una data religione e la sua cultura. In questa prospettiva il cristianesimo conserva una validità oggettiva per gli occidentali. Sempre in questa direzione John Hick sostiene che tutte le religioni sarebbero risposte umane differenti all’unica Realtà divina ed incarnano percezioni diverse che si sono formate in circostanze storiche e culturali eterogenee. Sono, comunque, le posizioni di Knitter quelle che segnano oggi il cammino del dibattito teologico sul tema delle religioni dal punto di vista del relativismo. Knitter mette in discussione il carattere normativo e ultimo di Cristo e del cristianesimo. Knitter postula la nozione di “Pluralismo unitivo”, che non ha nulla a che vedere con l’idea novecentesca della religione mondiale. Knitter sostiene che tutte le religioni sono ugualmente valide e altri rivelatori e salvatori possono essere importanti quanto Gesù Cristo.” L’incontro interreligioso – sostiene Knitter - deve basarsi sull’esperienza religiosa personale e su solide pretese di verità, ma senza insinuare che qualcuno degli interlocutori possiede la verità ultima, definitiva e irriformabile”.
Secondo Bosch, oggi abbiamo bisogno di una teologia delle religioni caratterizzata da una tensione creativa che vada al di là della sterile alternativa fra una comoda pretesa di assolutezza e un arbitrario pluralismo. La teologia delle religioni ha più bisogno di poesia che di teoria: “Sia il dialogo che la missione si manifestano infatti, in un incontro dei cuori più che delle menti”. La prima prospettiva che è necessario adottare è l’accettazione della coesistenza di fedi differenti. In secondo luogo, è necessaria l’adesione alla propria fede, nel nostro caso, l’adesione al Vangelo. Non si può entrare nel dialogo tra le religioni rinunciando alla propria identità. In terzo luogo, nella prospettiva di Bosch, “il dialogo è possibile solo muovendo dalla convinzione che non facciamo un salto nel vuoto, ma partiamo dall’aspettativa d’incontrare il Dio che ci ha preceduti e che ha già preparato le persone nel contesto delle loro culture e religioni”. Altro atteggiamento importante per il dialogo tra le religioni è l’umiltà che deve portare a non contrapporre mai dialogo e missione. Convertirsi, in fin dei conti, non è aderire a una comunità per procurarsi la salvezza eterna; è invece un mutamento di lealtà in cui Cristo è accettato come Signore e centro della propria vita.

6. MISSIONE COME TEOLOGIA
Quando l’Europa fu cristianizzata e il cristianesimo divenne religione istituzionalizzata nell’impero romano, la teologia perse la sua dimensione missionaria. Con il tempo e dopo le grandi epoche missionarie del periodo della colonizzazione, la missiologia divenne il “dipartimento degli affari esteri” dell’istituzione teologica, occupandosi delle faccende esotiche ma allo stesso tempo periferiche. Secondo Bosch a partire dal sesto decennio del secolo scorso, divenne convinzione generale, in tutte le famiglie confessionali, che la missione appartenesse all’essenza stessa della chiesa. Ciò provocò un grande cambiamento di paradigma. La chiesa non fu più percepita come contrapposta al mondo, ma come inviata nel mondo ed esistente per il mondo. La missione non era più soltanto un’attività della chiesa, ma un’espressione dell’essere stesso della chiesa. La teologia, da parte sua, cominciò ad assimilare questa nuova intuizione molto lentamente. “Affermare che la chiesa – sostiene Bosch – che la chiesa è essenzialmente missionaria non significa che la missione abbia come centro la chiesa. La missione è missio Dei. È trinitaria”. Come la chiesa cessa di essere chiesa se non è missionaria, così la teologia cessa di essere teologia se perde il suo carattere missionario. Già Gensichen nel 1971 affermava che: “La missione dev’essere il tema di tutta la teologia”. Diviene chiaro, in questa prospettiva, che la missione deve divenire l’oggetto di cui deve trattare la teologia. L’idea missionaria è un recupero dell’universalità che risiede nel profondo del Vangelo; per questo motivo dev’essere infusa nell’intero piano di studi, anziché fornire l’argomento di un corso specifico. “La missiologia – sostiene Meyer – accompagna le altre discipline teologiche nella loro opera; le interroga e se ne lascia interrogare; ha bisogno del dialogo con esse nel loro e nel suo stesso interesse”. Il compito della missiologia diviene, allora, quello di accompagnare criticamente l’impresa missionaria, d’indagarne i fondamenti, gli scopi, l’atteggiamento, il messaggio e i metodi.
7. MISSIONE COME AZIONE NELLA SPERANZA
Una delle caratteristiche più sorprendenti del ventesimo secolo è la riscoperta dell’escatologia. Bosch fa notare che non deve meravigliare che la riscoperta della dimensione escatologica si manifesti con particolare chiarezza negli ambienti missionari. Fin dai primissimi esordi della chiesa cristiana, sembra esserci stata una peculiare affinità fra l’impresa missionaria e le attese di un cambiamento di fondo nel futuro dell’umanità. Solo nel nostro tempo, tuttavia, abbiamo incominciato a riscoprire la natura fondamentalmente storica della fede e dell’escatologia bibliche. L’escatologia rappresenta l’elemento speranza della religione. Wiedenmann distingue quattro grandi scuole escatologiche del protestantesimo tedesco, ciascuna delle quali ebbe un impatto significativo sul pensiero missionario:
a.     Escatologia dialettica di Barth
b.     Escatologia esistenziale di Bultmann
c.      L’escatologia attualizzata di Paul Althaus
d.     L’escatologia storico-salvifica di Oscar Cullmann
Secondo Bosch l’approccio storico-salvifico costituisce il progresso più significativo rispetto alle posizioni precedenti, sia cattoliche che protestanti. Il teologo Aagaard sostiene che la prospettiva più rigorosamente escatologica ebbe particolare risalto negli ambienti missionari dell’Europa continentale, mentre i nordamericani sottolinearono piuttosto l’impegno sociale. Secondo Bosch questa distinzioni oggi non sono più così evidenti. “Abbiamo bisogno per la missione – continua il Nostro autore – di un’escatologia che sia allo stesso tempo rivolta al futuro e orientata al qui e ora. Dev’essere un’escatologia che mantenga in tensione creativa e redentrice il già e non ancora, il mondo del peccato e della ribellione e il mondo amato da Dio; la nuova era che è già iniziata e la vecchia che non è ancora finita; la giustizia e la giustificazione; il vangelo della liberazione e il vangelo della salvezza”. Essendo certa la vittoria di Dio, i cristiani possono operare con pazienza ed entusiasmo. La missionarietà, vale a dire l’essere inviati agli estremi confini della terra, è l’unica risposta che i discepoli ottengono alla domanda su quando sarà inaugurato il regno di Dio nella sua pienezza. Non è dunque possibile scegliere l’impegno nella storia della salvezza oppure quello nella storia profana. Non esistono due storie, ma due modi di comprendere la storia. Per il cristiano la storia della salvezza è dunque sia rivelata che nascosta, sia trasparente che opaca. L’escatologia cristiana, pertanto, procede in tutti e tre i tempi: passato, presente e futuro. Il regno di Dio è già venuto, sta venendo e verrà nella pienezza. E’ perché Dio sta già regnando e perché attendiamo la manifestazione pubblica del suo regno che possiamo essere ambasciatori nel qui ed ora del suo regno. La pienezza del regno di Dio deve ancora venire, ma proprio la visione di questo regno venturo si traduce in una preoccupazione radicale per il penultimo, anziché in una preoccupazione per l’ultimo. Nella morte e risurrezione di Cristo, la nuova era ha avuto irreversibilmente inizio e il futuro è garantito. Vivendo nel campo di forza della certezza della salvezza già ricevuta e della vittoria finale assicurata, il credente s’impegna nell’urgenza del compito a portata di mano. In questo senso, l’escatologia sta avendo luogo proprio in questo momento. Bosch conclude queste riflessioni affermando che: “Noi distinguiamo fra la speranza in ciò che è ultimo e perfetto da un lato e la speranza in ciò che è penultimo e approssimativo dall’altro. Noi tracciamo questa distinzione malvolentieri, con sofferenza e, allo stesso tempo, con realismo. Sappiamo che la nostra missione appartiene, come la chiesa, soltanto a questa età, non a quella ventura. La compiamo nella speranza”.

RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Lo sforzo di Bosch di presentare in un unico testo, anzi in un unico capitolo, i principali paradigmi della missione è senza dubbio da lodare. Positiva è la possibilità di avere un quadro d’insieme di tutta una serie di problematiche teologiche e anche pastorali che, solitamente, vengono trattate separatamente. Questo aspetto rappresenta, però, anche il suo limite. Infatti, Volere a tutti i costi presentare una sintesi di tanti problemi, che spesso nella storia sono passati attraverso dibattiti accesi e complessi, lascia dietro di sé elementi significativi.
La seconda osservazione è sulla proposta di fondo di Bosch. L’autore utilizza una categoria epistemologica per leggere una serie di mutamenti teologici e pastorali. Questo modo di procedere funziona sino ad un certo punto, perché se da una parte riesce a spiegare tutta una serie di spostamenti d’accento avvenuti nel secolo scorso, dall’altra l’utilizzo dell’apparato concettuale preso in prestito da Thomas Kuhn non funziona nel senso voluto. Quando, infatti, Kuhn nel suo famoso testo La struttura delle rivoluzioni scientifiche utilizza la categoria di paradigma, la presenta come espressione di un cambiamento epocale. Kuhn per spiegare quello che intende esprimere con il concetto di cambiamento di paradigma, utilizza come esempio quello che è avvenuto con la così detta rivoluzione copernicana. Se le idee di Galileo divulgate da Copernico prendono piede è perché avevano trovato appoggio in una serie di mutamenti epocali che ne permettevano l’accettazione. Non era, infatti, solamente un dato astronomico a mutare, ma anche la filosofia (è l’epoca dell’umanesimo che prepara il terreno all’epoca moderna), la religione (la riforma luterana), la politica (è l’epoca del passaggio in occidente della forma politica dello Stato) e la geografia (siamo esattamente all’epoca della scoperta dell’America). Kuhn fa notare che le idee di Galileo e Copernico da un punto di vista formale non sono originali perché Aristarco, nel terzo secolo a.C le aveva già espresse. Perché la teoria eliocentrica non fu accolta nel III a.C. mentre trovò piena accoglienza nel XVI secolo d.C.? Secondo Thomas Kuhn la risposta va cercata nella congiuntura che si era venuta a formare nel XVI secolo d. C., vale a dire che la teoria eliocentrica era un cambiamento di paradigma che trovava riscontro in tutta una serie di altri fattori, come ho descritto poco sopra. Si può, allora parlare di cambiamento paradigmatico quando il cambiamento di paradigma indicato è suffragato da tutta un’altra serie di cambiamenti culturali in ambiti diversi e quando il cambiamento indicato è permanente. E’ esattamente questo, a mio avviso, ciò che non funziona nel caso dell’analisi di Bosch. Ciò che l’autore indica come mutamenti di paradigma in missiologia, in realtà non lo sono perché non sono permanenti e non si tratta di cambiamenti epocali che trovano riscontro in altri contesti culturali.

La terza considerazione sul testo analizzato è sui contenuti espressi. Dal punto di vista generale la missione non si è mossa conforme ai cambiamenti di paradigma presentati. La Teologia della Liberazione, dopo il 1989, ha abbandonato i temi più specificamente ecclesiologici, presentati da Bosch, per offrire il proprio contributo a temi di carattere sociale come, per esempio, l’ecologia, la salvaguardia del creato, il genere, l’apporto delle teologie indigene. Anche il tema dell’inculturazione, all’interno del dibattito teologico attuale sembra più che superato, dimenticato. Da varie parti nella chiesa cattolica assistiamo ad un ritorno di preoccupazioni ad intra, che spesso e volentieri si traducono nell’eccessiva attenzione agli elementi esterni della liturgia, più che al contenuto. Ciò significa che da vari punti di vista quelli che Bosch chiama cambiamenti di paradigmi, in realtà non sono avvenuti o, perlomeno, non nel modo da lui descritto. Nonostante tanti sforzi e tante riflessioni teologiche, la dicotomia presbiteri e laici permane ben accentuata nelle nostre comunità occidentali e tende ad affermarsi sempre di più anche nella chiesa latinoamericana. Il paradigma ecumenico espresso nel binomio missione e comunione ha vissuto negli ultimi vent’anni pesanti sconfitte. La stessa proposta presentata da Bosch di fare in modo che la teologia della missione più che una materia a sé fornisse i contenuti per un modo nuovo d’impostare la teologia, a vent’anni di distanza si presenta come una vera e propria utopia. Il cambiamento di paradigma in ambito teologico e pastorale è vero quando è accolto dalla base, dal popolo di Dio. Solo così gli sforzi reiterati della gerarchia di distruggere i cambiamenti per mantenere la verità immutabile dentro il processo storico, potranno essere frantumati. La gerarchia ecclesiale è nata per proteggere la struttura: per questo aborrisce ogni forma di cambiamento perché la interpreta come attacco a ciò che lei è chiamata a difendere. Quando i cambiamenti sono così profondi da essere condivisi dal Popolo di Dio, anche la gerarchia si adegua. Se le pagine di Bosch scritte quasi trent’anni fa ci sembrano dei bei sogni è perché i cambiamenti da lui analizzati, in realtà sono stati sommersi dal desiderio di ritorno al passato propugnato dalla gerarchia. Se il nuovo che sembrava avanzare non è in realtà avanzato, è perché era solo un’elaborazione intellettuale e non un reale cambiamento strutturale. Quest’ultimo è visibile nel vissuto delle comunità, nella vita quotidiana del popolo di Dio. E’ a questo livello, infatti, che avvengono quei cambiamenti di paradigma che la gerarchia non riesce a fermare. E’ nella comunità che, all’insaputa della gerarchia, avvengono le inculturazione liturgiche, le modalità nuove di accostamento alla Parola di Dio, l’ecumenismo effettivo, il dialogo con le religioni, un nuovo modo di relazionarsi tra laici e presbiteri, l’effettivo esercizio del ministero femminile. E’ camminando nelle comunità di base che ci si accorge della forza e della creatività dello Spirito, nonostante la gerarchia e il tomismo. 

sabato 9 maggio 2015

MONDO MODERNO E RELIGIONE IN CHARLES PEGUY


E' uscito in questi giorni il nuovo libro sul pensiero di Charles Péguy e, qui di seguito, propongo alcuni paragrafi presi dall'introduzione



INTRODUZIONE


In un clima culturale di transizione, com'è quello nel quale stiamo vivendo, si tende a rovistare nel passato per trovare quei barlumi di luce che possono contribuire a portare un po’ di chiarezza. La post modernità, sia intesa come momento conclusivo del moderno sia come dissoluzione interna dei valori della modernità, chiama sul banco degli imputati il moderno.

 Non è allora un caso se, a partire da questo sfondo, vengono alla ribalta nel dibattito culturale odierno, autori che offrono spunti critici nei confronti della modernità. Péguy è certamente un autore che si presta ad una tale operazione critica. La sua opera è, infatti, contrassegnata da una puntuale disamina nei confronti di ogni simbolo del mondo moderno. Sfogliando le pagine soprattutto della sua opera filosofica, si ritrovano anticipate le critiche alla modernità che hanno caratterizzato il dibattito filosofico sulla post modernità degli ultimi decenni. La critica al metodo moderno, alla possibilità di controllare la realtà e di dirigerla dove si vuole, oltre ad essere l’espressione dell’arroganza culturale tipica di quell'Occidente che ha preteso di ordinare il mondo, è anche allo stesso tempo il segno di una perdita di senso, di contatto con la realtà. Il contatto con altri mondi, con altre culture e altri popoli, che anche chi non è abituato a viaggiare è costretto a vivere a causa della fortissima spinta migratoria in atto, che vede coinvolti milioni di persone in tutti i continenti, ci permette di verificare quotidianamente la fragilità delle presunzioni moderne. La pluralità delle visioni, dei modi di dire e di narrare la realtà, è spesso stata identificata come apertura alle derive relativiste e, di conseguenze, un ostacolo per la comprensione della verità. Abituati da millenni a leggere la realtà con gli schemi della logica aristotelica, del principio di non contraddizione, facciamo ancora oggi molta fatica a vedere nella posizione differente dalla nostra, nel punto di vista altro, non un limite, una limitazione, una contraddizione, ma un valore, un aspetto di verità da porre a lato del nostro, senza voler a tutti i costi fare una sintesi. Questo discorso  non vale solamente per quella che potremmo definire la cultura laica, ma anche per la teologia, per la religione. Infatti, il modo di vedere la realtà elaborato nei secoli dalla cultura Occidentale, ha lentamente assorbito anche il modo di confrontarsi con il divino. La verità dell’essere da Parmenide in poi, è sempre percepita in contraddizione al non essere. Anche se il mistero dell’Incarnazione sconvolge tutte le logiche di questo mondo, riusciamo, comunque sempre, come direbbe Péguy, a narcotizzarlo, a escogitare un modo d’interpretarlo che non sfugga dalle logiche della razionalità moderna.

La storia degli ultimi decenni ha spazzato via tutte le certezze pensate dalle meta-narrazioni moderne. E così, ciò che sembrava ineluttabile, come ad esempio la lettura marxista della realtà o la possibilità di calcolare il progresso economico e di debellare la fame nel mondo, si è rivelato con il tempo piuttosto relativo. I mutamenti climatici, i disastri ambientali, stanno dimostrando giorno dopo giorno che non è possibile ingabbiare la natura tra stretti procedimenti matematici. La realtà esige di essere ascoltata. Non si possono fare i conti senza l’oste. Quello che è sotto gli occhi di tutti è un mondo che più che essere ascoltato, è stato interpretato. Si è voluto che il mondo, la realtà, la natura prendesse quella direzione pensata a tavolino. Si è voluto a tutti i costi che la realtà obbedisse alle operazioni dei sistemi Occidentali, alle logiche delle meta-narrazioni. La volontà di potenza Occidentale si è scontrata con la realtà della natura. Senza dubbio questo modo di affacciarci alla realtà è frutto anche di un antropocentrismo malato di protagonismo, slegato cioè dal contesto nel quale l’uomo e la donna sono inseriti, vale a dire la natura. La storia di questi ultimi decenni ci sta insegnando che non possiamo pensare di prevedere il futuro dell’umanità escludendo dai nostri calcoli la realtà, la vita. Soprattutto però, questa triste e drammatica esperienza che stiamo vivendo c’insegna che la vita, la natura, la realtà sfuggono al tentativo di essere ingabbiate e interpretate da una sempre serie di logiche. C’è tutta un’imprevedibilità che la vita porta con  che, più che interpretata dev'essere ascoltata, accompagnata. Cercare un pensiero che ha percorso questo cammino, che si è messo in ascolto della realtà, che ha considerato la pluralità dei punti di vista come una ricchezza più che un limite, che in definitiva si è messo a servizio della vita e della natura più che servirsi di essa: è questo, forse uno dei grandi compiti della cultura Occidentale.

Se ancora oggi sfogliamo le pagine di Péguy è proprio per questi motivi. Nella sua opera infatti, oltre ad una critica serrata al metodo moderno, troviamo soprattutto interessanti indicazioni di metodo per ascoltare la realtà, per valorizzare la pluralità. Assieme all’analisi puntuale dei danni provocati dalla mentalità moderna soprattutto all’interno della cultura francese – bellissime sono le pagine sulla vita contadina nelle campagne francesi -, troviamo in Péguy una lucidità intellettuale capace di mostrare con precisione le cause delle faglie del metodo moderno. Sappiamo e in parte documenteremo, il grande debito filosofico che Péguy ha con Henry Bergson. E' a partire, infatti, dal bagaglio teoretico offerto dalla filosofia di Bergson che Péguy sarà in grado di offrire ai suoi lettori le chiavi ermeneutiche necessarie per interpretare il suo tempo. In ogni modo, sarà a partire da questo fecondo incontro culturale che Péguy riuscirà a trovare o, meglio, per dirla con Bergson, a intuire il cammino da percorrere per capire e mostrare le faglie del metodo moderno e di tutta la sua produzione. Significativo a questo punto notare che il particolare percorso esistenziale di Péguy, lo conducono a spostare la sua riflessione e la sua profonda analisi della realtà dal piano politico a quello religioso. Gli anni successivi alla sua conversione religiosa imprimeranno una profondità spirituale che lo condurranno a rileggere la Sacra Scrittura con occhi nuovi, gli occhi appunto del metodo intuitivo appreso da Bergson e messo a punto negli anni delle sue battaglie polemiche a tutti i i livelli con gli uomini di cultura del suo tempo. 

Affascinanti sono le pagine che Péguy dedica alla riflessione sui vangeli. Come nelle pagine di poesia e di prosa, anche in queste più specificamente spirituali o, per alcuni, mistiche, Péguy riesce a scoprire novità di significati e di contenuti, analizzando testi ascoltati da sempre e che in apparenza non avrebbero la possibilità di dire nulla di nuovo. Se è vero che, come vedremo, è importante ascoltare la realtà, senza volerla anticipare con angusti sistemi di pensiero che rischiano costantemente di reprimerla, lo stesso vale nel rapporto con la Sacra Scrittura. Troppe volte, secondo Péguy, si è trattato la Scrittura come se fosse un pezzo di materia freddo e distaccato, anticipandone il senso attraverso una griglia concettuale. Ascoltare la Scrittura, come vederemo in seguito, significa per Péguy anzitutto liberarla dagli schemi freddi del metodo moderno, per seguirla pazientemente dove lei vuole condurre il lettore, e cioè alla conversione nel cuore.  Questa relazione stretta tra filosofia e religione, tra metodo intuitivo e poesia, ci sembra una delle caratteristiche specifiche dell’opera di Péguy.

Il problema che a questo punto si pone a livello ermeneutico consiste nel cogliere il modo con il quale s’intende leggere e capire l’opera Péguy. Non è possibile, infatti, avvicinare un’opera così profonda e allo stesso tempo così poliedrica, come è quella del nostro autore, esclusivamente per sottolineare eventuali simpatie o affinità di vedute. Simili operazioni culturali rischiano non solo di decurtare l’integralità di un messaggio, quanto soprattutto di distorcerne il senso autentico. Del resto, Péguy sembra abituato a simili strumentalizzazioni. Se, infatti, si sfogliano le pagine dei suoi biografi, lo si trova tratteggiato con le sfumature più disparate: anarchico, socialista, comunista, rivoluzionario, reazionario, cattolico, mistico. Dinnanzi ad una tale varietà di opinioni viene spontaneo chiedersi chi sia realmente Péguy e quale sia in sostanza il suo messaggio. E' proprio questo che le pagine del libro cercano di scoprire.