Profezia della marginalità e della speranza
Verso una fede solidale, accessibile e incarnata nella
fragilità
Paolo Cugini
Nel
cuore della notte più silenziosa, nella periferia dimenticata di Betlemme,
nasce una teologia che non proclama dogmi granitici, ma si lascia modellare
dalla carne e dalla polvere, dalle lacrime e dall’attesa. La teologia debole
non è negazione del Mistero, ma suo abbandono nei solchi della storia, là dove
la vita si manifesta in tutta la sua vulnerabilità. È la teologia che sorge
dalle pieghe della marginalità, dove le domande non cercano risposte forti, ma
abbracci che sappiano custodire e sollevare.
Questa
prospettiva nasce da una lettura profonda dell’esistenza, che accoglie la
fragilità come luogo teologico e non come incidente da correggere. Si radica
nell’esperienza di chi vive ai margini, nei corpi stanchi degli esclusi, e nei
cuori inquieti dei riflessivi cercatori di senso. La teologia debole si
contrappone così all’arroganza di una fede che si vuole invincibile; essa si fa
invece compagna di strada, voce tra le voci, sguardo carico di misericordia. La
scena madre di questa teologia è la mangiatoia, non ornata né celebrata, ma
scelta per necessità e povertà. È qui che il Mistero si manifesta non tra
potenti, ma tra pastori, viandanti e animali, in un contesto di rifiuto e
precarietà che suggella la sua totale solidarietà con l’umanità scartata. La
mangiatoia non profuma di incenso, ma di fieno e di attesa, di quel freddo che
soltanto chi non ha casa conosce davvero.
La
nascita di Gesù, vissuta ai margini, è una profezia di un Dio che non teme la
piccolezza, ma la assume come via privilegiata di rivelazione. In quella notte,
la fragilità non è più motivo di vergogna, ma diventa grembo di una nuova
speranza. La teologia debole trova qui la sua culla: nella capacità di vedere,
nella piccolezza, la manifestazione del divino; nell’esclusione, la promessa di
una comunione che supera i confini dell’ordine stabilito. Poco dopo la nascita,
la famiglia di Gesù è costretta alla fuga. La precarietà diventa condizione
esistenziale: l’esilio, la paura, la necessità di trovare accoglienza in terra
straniera. Qui la teologia debole si trasforma in compagna dei migranti, dei perseguitati,
degli invisibili. L’esperienza di Gesù bambino perseguitato è specchio fedele
delle vite spezzate di chi oggi cerca rifugio, dignità e ascolto.
Non
c’è teologia più vera di quella che sa piegarsi sulle ferite, che osa nominare
la sofferenza senza strumentalizzarla, che non teme di abitare il dubbio. La
teologia debole si fa così sguardo solidale, capace di riconoscere la presenza
di Dio non nell’inaccessibile, ma nella carne ferita e nella speranza ostinata
di chi continua a camminare nonostante tutto. Essa non offre risposte facili,
ma presenza fedele, e accoglie la domanda come luogo sacro da abitare insieme.
La
storia della fede cristiana è attraversata da tensioni profonde tra visioni
forti e deboli della teologia. Da una parte, il bisogno umano di certezze ha
spesso generato sistemi dogmatici imponenti, talvolta distanti dalla
concretezza della vita. Dall’altra, la teologia debole propone una via
alternativa: non più la verità come possesso, ma come ricerca, non la dottrina
che separa, ma la misericordia che unisce.
In
questa tensione profetica, la teologia debole si distingue per il suo rifiuto
del linguaggio tecnico e della pretesa di totalità. Non si chiude in formule,
ma si apre all’ascolto; non costruisce torri, ma tende mani. Si fa prossima a
chi dubita, a chi cade, a chi si sente straniero dentro e fuori la Chiesa. Nel
suo cuore, la debolezza non è assenza di senso, ma grembo di una forza nuova,
diversa da quella del mondo: la forza mite che si fa servizio e condivisione. Se
la teologia vuole essere davvero buona notizia, deve parlare una lingua
comprensibile, abitare le parole semplici, farsi racconto vicino alle storie di
chi vive al margine. La teologia debole non si accontenta di essere pensata:
vuole essere vissuta, narrata e condivisa nel quotidiano. Sceglie le parole che
scaldano, che sollevano, che non escludono nessuno dalla tavola della
comprensione.
Una
teologia per i deboli non teme la contaminazione con le storie e le domande
della strada; ascolta più di quanto spiega, accompagna più di quanto giudica.
In questo orizzonte, anche il linguaggio della fede si trasforma: non più
scudo, ma ponte; non più arma, ma carezza. È tempo che la teologia si lasci
plasmare dall’esperienza di chi vive sulla soglia, perché solo lì ritrova la
sua vera voce e il suo senso più autentico. È tempo che la teologia si lasci
contaminare dalle fragilità esistenziali incontrate nel cammino. Proprio perché
debole, la teologia che nasce dalla mangiatoia rimane costantemente aperta per
accogliere e raccogliere le debolezze umane, gli esclusi del momento, i
profughi che non trovano un ristoro, di famiglie povere senza nulla in cerca di
un rifugio che non trovano.
La
teologia debole, generata dalla mangiatoia, dalla fuga, dall’esclusione, si fa
oggi profezia per una Chiesa che desidera essere casa di tutti, soprattutto
degli ultimi. È un appello a spezzare le barriere della paura, a scegliere la
via della solidarietà, ad abitare la complessità senza arroccarsi nel
dogmatismo. Solo una Chiesa che sa farsi debole, che accetta di imparare dalla
fragilità, può davvero essere segno credibile di speranza nel nostro tempo
inquieto.
Che cosa rimane dunque della notte di Betlemme? Resta la luce che nasce tra le ombre, la fiducia nell’incontro, la scelta radicale di non lasciare nessuno indietro. La teologia debole ci invita a scendere dalle cattedre e a sostare accanto ai poveri, agli esclusi, ai dimenticati: è lì che il Mistero continua a sussurrare parole di vita. E se la fede avrà ancora un senso, sarà quello di farsi carne dentro ogni storia ferita, perché solo nella debolezza fiorisce la speranza più vera.
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