Paolo Cugini
Diversi
aspetti del processo di contaminazione culturale li vediamo già in atto non
solo nell’universo culturale come l’arte o la letteratura, ma anche nelle
situazioni esistenziali. Gli artisti della contaminazione sono i giovani. Si
lasciano contaminare in continuazione e senza problemi perché, per loro, non
esistono valori assoluti o non negoziabili. Si negozia tutto perché tutto è
negoziabile. Non è un giudizio di valore, od etico: è una presa di coscienza. Le
nuove generazioni sono nate nel nuovo contesto tecnologico che li sollecita
alla velocità di cambiamento e di adattamento, che richiede libertà nei
confronti del passato, delle sue tradizioni e dei suoi valori. Se sino a
qualche decennio fa sin da bambini si faceva di tutto per inculcare i valori
ritenuti fondamentali per vivere in un preciso contesto culturale, oggi il
principio di sopravvivenza non è radicato nel passato, ma nella capacità di
abitare i mondi che si manifestano nel presente. Siccome non ci sono maestri in
questo nuovo percorso educativo, sono loro stessi ad ingegnarsi, a provare, a
scoprire nuove possibilità e combinazioni. Ancora una volta, se nel passato
l’istinto di sopravvivenza agiva sull’importanza di obbedire ai principi
culturali ritenuti fondamentali, per le nuove generazioni è possibile
sopravvivere solamente assorbendo la novità, modificando rapidamente i punti di
riferimento, per non correre il rischio di rimanere indietro, incapace di
cogliere le novità.
La chiesa entra in questo contesto
liquido e contaminabile, come un corpo duro, impenetrabile e, di conseguenza,
perdente, nel senso letterale del termine, destinato a scomparire o, perlomeno,
a rimanere un pezzo più o meno sofisticato da museo. È una struttura lenta e,
quindi, impossibilitata ad abitare la velocità postmoderna. Ci mette troppo
tempo per prendere decisioni e, per questo, con il tempo, è divenuta una
struttura inattuale, con delle proposte sul piano etico ed esistenziale
inadeguate perché obsolete. La chiesa si
è così abituata nei secoli a determinare le leggi morali e spirituali della
società in modo unidirezionale, che ritiene impensabile dover assimilare dei
valori esterni. Nel tempo, è divenuta così autoreferenziale da essere incapace
di mettersi in discussione: è un aspetto che non appartiene al suo codice
genetico. La necessità di rispondere in modo deciso e fermo alle situazioni
difficili incontrate nei vari periodi della storia, l’hanno progressivamente
indurita. Per questo motivo, l’aspetto giuridico della struttura ecclesiale è divenuto,
per diversi secoli, così preponderante da determinare le scelte sul paino
etico. Allo steso tempo, per l’impianto teologico messo in atto per spiegare i
propri contenuti, tra i tanti materiali a disposizione, la chiesa ha utilizzato
quelli che potevano garantire la maggior solidità e durata nel tempo. Da
narrazione degli eventi del fondatore, la teologia si è fatta sistematica,
costruita in modo tale da non lasciare alcun tipo di spiraglio per
l’immaginazione o la creatività. La caratteristica dei sistemi teologici e, in
modo particolare, il sistema tomista, consiste proprio nel fatto che deve
garantire l’impenetrabilità assoluta dal punto di vista concettuale, vale a
dire, la capacità di rendere ragione di qualsiasi aspetto della vita, senza
aver mai bisogno di correggere la prospettiva o le definizioni di tipo assiomatico
da lei elaborate. Dinanzi a sistemi teologici siffatti, si deve solo
apprendere, mai mettere in discussione: è impossibile. Proprio per questi
motivi, la struttura ecclesiale in tutti i suoi aspetti giuridico, teologico,
etico e burocratico non ha alcuna chance di sopravvivere nel mondo dei sistemi
contaminati e contaminabili. Le strutture rigide si spezzano, si sbriciolano,
vanno in frantumi.
Occorre, però, fare immediatamente una distinzione.
È lenta, anzi lentissima la struttura gerarchica della chiesa, gestita
costantemente da persone anziane, che sono arrivate alla dirigenza proprio
perché ponderate, moderate, dotate di quella saggezza che li conduce a
mantenersi sempre dentro i binari della tradizione del passato, senza osare mai
un passo in avanti. Diversa, invece, è la
base della chiesa, proprio perché fatta di persone che vivono quotidianamente
in mezzo a mondi contaminati e in continua contaminazione. A questo livello e,
cioè, al livello della Chiesa popolo di Dio, il futuro è possibile, perché
anche se professano i valori non negoziabili che, all’interno del nostro quadro
culturale, sono perdenti, nella realtà, nel vissuto quotidiano, agiscono in
modo totalmente diverso, perché mossi dal loro istinto di sopravvivenza, più
che dalla necessità di difendere dei valori. In fin dei conti, chi vive nei
piani alti della chiesa, sopravvive indipendentemente da come si muove il
mondo. È così abituato a lavorare sui massimi sistemi eterni, che gli elementi
della contingenza quotidiana, non rientrano nei loro problemi e difficilmente
si lasciano scalfire da essi. La mamma che deve amministrare una famiglia, un
padre che deve far quadrare i conti, vive a contatto con mondi che
costantemente sollecitano una velocità di decisioni tali da non permettere pensieri
troppo profondi. E così, mentre nei piani alti, i gerarchi procedono per deduzioni,
nei piani bassi, si procede per intuizione. Questa differenza di modalità di
azione fa si che la comunità cristiana abbia la possibilità di lasciarsi
contaminare e di interagire in modo propositivo con i mondi circostanti. Ho
scritto che la comunità ha la possibilità e non che realizzi questa
possibilità. Per farlo, dipende molto da dove è situata geograficamente. Più la
comunità è distante dal perimetro geografico in cui ha sede la gerarchia,
maggiore è la possibilità di interagire con i sistemi circostanti in modo
libero. Una struttura centralizzata, infatti, come è la chiesa, non lascia
molti margini di azione libera ai fedeli della comunità circostante. Non a
caso, le esperienze più significative e creative dal punto ecclesiale del dopo
Concilio, sono sorte a migliaia di chilometri di distanza da Roma, come ad
esempio, le comunità ecclesiali di base in America Latina, tanto per citarne
una.
Il
dato più significativo, che mi sembra opportuno segnalare, è che questa
modalità che potremmo definire contaminata, è iscritta nella proposta
cristiana. Lo si vede già in atto nello stile di Gesù, che non teme la rivalità
di coloro che operano il bene anche se non lo fanno nel suo nome, perché: non
c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di
me: chi non è contro di noi è per noi (Mc 9,39-40). La stessa intuizione la
comprende Pietro quando, vedendo che lo Spirito Santo era sceso anche sul
pagano Cornelio, afferma: “In verità sto rendendomi conto che Dio non
fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia,
a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10, 34-35). È
Gesù, dunque, che mostra il cammino di un’umanità aperta allo scambio con
l’altro, all’accoglienza del bene e dell’amore che proviene dall’esterno dal
proprio circolo di amici e amiche, proprio perché la comunità di amici e amiche
che lo seguono non sono chiamati a difendere nessuna dottrina e nessuna fortezza,
ma a vivere uno stile di amore senza frontiere. “Vi do un comandamento
nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi
anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei
discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35). Non una
dottrina, dunque, né un sistema teologico onnicomprensivo e nemmeno dei valori
non negoziabili da difendere con i denti, ma un unico comandamento: amatevi gli
uni gli altri. Per questo motivo, Paolo intuisce che nella comunità desiderata
da Gesù, non c’è spazio per relazioni disuguali e ingiuste, perché: “non c'è
più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non
c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo
Gesù» (Gal 3,28). È il superamento di una visione protettiva e settaria
della fede, che conduce ad uno stile di comunità aperto, accogliente, che
interagisce con i mondi circostanti, capace di accogliere ciò che di buono c’è
in ogni proposta, proprio perché non si tratta di difendere dei baluardi, ma
condividere il tesoro dell’amore donato da Cristo. È la comunità che sorge
spontaneamente dal basso, che trova nel Vangelo una luce per il proprio cammino
esistenziale e, in questo cammino apprende a non temere di lasciarsi
contaminare dagli elementi che provengono dall’esterno, perché ha imparato che
lo Spirito soffia dove vuole e nessuno può pensare d’imprigionarlo (cfr. Gv 3, 8).
Dove
dovrebbe essere visibile lo stile aperto e contaminato delle comunità
cristiane? A mio avviso nella liturgia. L’umanità di Cristo è la sorgente
dell’umanità della liturgia. La ricerca di una liturgia più umana non è
semplicemente richiamare la dimensione etica della liturgia, né l’ennesima
strategia pastorale, ma è di ordine teologico e, pertanto, essenziale se vuole
essere liturgia cristiana e non un mero rito religioso come tanti. La nostra
liturgia è cristiana se è conforme all’umanità di Gesù. È nella umanità della
liturgia che si rivela la forza dell’amore di Gesù e, per questo, dovrebbe
avere la forma del Vangelo, più che delle norme e delle rubriche, retaggio
della struttura rigida. Ebbene, come abbiamo visto, uno dei tratti
caratteristici dell’umanità di Gesù è la sua apertura, la sua libertà nel porsi
dinanzi alle proposte esterne, ma anche nei confronti della religione del
tempio, che critica radicalmente. In questa prospettiva, una liturgia che sa di
Vangelo non dovrebbe essere preoccupata di riprodurre fedelmente delle
indicazioni normative, ma di esprimere i tratti dell’umanità di Gesù
inculturata nel particolare contesto in cui si celebra. È triste assistere a
delle liturgie che non presentano alcun elemento di novità del luogo in cui
viene celebrata, preoccupata solo di essere fedele alle norme. Belle invece e
comunicative di contenuti, sono quelle liturgie in cui è visibile lo sforzo di
lasciarsi contaminare, accogliendo elementi culturali e religiosi del luogo in
cui la liturgia viene celebrata. È quello che diceva Papa Francesco a proposito
del contributo dei popoli indigeni: “si tratta di raccogliere nella
liturgia molti elementi propri dell’esperienza degli indigeni nel loro intimo
contatto con la natura e stimolare espressioni native in canti, danze, riti,
gesti e simboli” (Querida Amazonia, 82).
La chiesa che si lascia contaminare accogliendo al suo
interno le provocazioni positive dei mondi circostanti, ha la possibilità di
crescere, di trasformarsi e di contribuire nella costruzione di un mondo più
giusto e più umano, in forza anche del suo patrimonio di valori. E così, mentre
più rapidamente del previsto, si odono i rumori dello sbriciolamento della
struttura ecclesiale formatasi nei secoli, sbocciano da tante parti quelle
comunità cristiane che, come la semente di mostarda o come il lievito nella
pasta, contribuiscono alla trasformazione del mondo permettendo che lo Spirito
presente nei tanti cammini di pace, di giustizia e di amore presenti ovunque,
contamini e trasformi coloro che vi aderiscono.
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