Paolo Cugini
Nel mese di febbraio si sta svolgendo (finisce venerdì 1°
marzo) a Manaus il corso annuale sulla realtà amazzonica, aperto a tutti i
missionari in partenza verso l’Amazzonia. Quest’anno il corso si arricchisce
con le tematiche emergenti della preparazione del Sinodo Pan Amazzonico che si
svolgerà a Roma nel mese di ottobre. Il corso si svolge presso gli ambienti del
seminario san Giuseppe di Manaus, che è anche sede della Facoltà Claretiana e
della REPAM, la rete di associazioni che sono coinvolte nella preparazione del
sinodo. Partecipanti del corso, oltre a sei sacerdoti diocesani italiani – tre
di Padova e tre di Reggio Emilia -, sono religiose, religiosi e preti di varie
parti del Sud America (Messico, Argentina, Ecuador, Brasile), oltre ad una
religiosa della Burkina Faso, due dell’India e un sacerdote della Nigeria.
Desidero condividere alcune riflessioni maturate in questi
giorni. Da lontano si vedono le cose in un modo diverso. La distanza aiuta
nella percezione della prospettiva e, quindi, a valorizzare e anche a
relativizzare le esperienze che si vivono.
La
prima è sul contenuto che è stato somministrato, che riguarda per la maggior
parte dei casi, argomenti sulla situazione sociale e politica. Questo aspetto
merita la nostra attenzione perché dice di un modo d’intendere la Chiesa e del
suo posto nel mondo. Se questo corso o uno simile, fosse stato realizzato in
Italia, senza dubbio la maggior parte degli argomenti avrebbe riguardato i temi
interni alla Chiesa, come la liturgia, il modo di celebrare, la correttezza
degli argomenti teologici. In fin dei conti si tratta di un corso di
evangelizzazione di una realtà, corso rivolto a missionari, quasi tutti preti e
suore. Il problema è come concepiamo il mandato missionario. In certe situazioni
è possibile cogliere che cosa c’è dietro le nostre scelte e le nostre tante
parole.
In
Brasile, in America Latina il punto di partenza è sempre la realtà, il contesto
socio-politico-culturale. Dietro questa impostazione c’è la grande lezione del
Concilio Vaticano II della Chiesa come Popolo di Dio, di una Chiesa immersa nel
mondo, chiamata ad essere semente e fermento affinché il Vangelo trasformi la
realtà. Una Chiesa, dunque, chiamata a leggere e ad interpretare i segni dei
tempi, per cogliere la presenza del Signore nella storia. Affinché questo progetto si realizzi, e il
Vangelo possa penetrare la storia, il principio che il Concilio ha preso come
riferimento è l’incarnazione del Verbo, il cammino di abbassamento, il farsi
carne e l’abitare in mezzo a noi. L’evangelizzazione per essere incarnata
esige, dunque, che si conosca la realtà che si desidera incontrare. È questo
che è avvenuto durante il mese di febbraio a Manaus. Si sono succeduti
ricercatori, professori universitari, membri di associazioni umanitarie in
difesa dei popoli indigeni e della foresta amazzonica, tutti preoccupati di
aiutarci a capire dove stiamo mettendo i piedi, per non fare troppi danni e,
soprattutto, per inculturare il messaggio del Vangelo nelle realtà in cui
verremo a trovarci.
Questo aspetto, che avevo già visto in Bahia dove ho
trascorso 15 magnifici anni della mia vita, mi ha fatto riflettere molto. Ho
trascorso, infatti, gli ultimi 5 anni in un contesto di Chiesa in cui il punto
di partenza dell’Evangelizzazione non è la realtà da incontrare, ma il
contenuto da offrire. Penso a come sarebbe stato significativo realizzare
qualche consiglio pastorale dell’Unità Pastorale chiamando assistenti sociali o
persone che lavorano sul territorio, per mostrarci le dinamiche socio-politiche
del territorio. In realtà qualche volta ci ho pensato, ma ne stavo combinando
così tante che ho lasciato perdere. Non si tratta di sapere chi è il migliore o
chi ha ragione, ma semplicemente capire che lo Spirito Santo agisce in forme
diverse e con una ricchezza e creatività incredibile. La missionarietà di una
diocesi serve anche per questo, per mettere in circolo quelle esperienze di
evangelizzazione incontrate, affinché possano contaminare positivamente un
cammino e arricchirlo.
L’altra
riflessione è su ciò che è accaduto in una di queste sere. È stata organizzata
una notte culturale, come è costume da queste parti. Molte delle suore presenti
si sono presentate con gli abiti del proprio paese (India, Sri Lanka, Burkina
Faso, ecc.) e poi ogni paese ha presentato musiche e danze tipiche. Suore e
presbiteri danzare insieme con tanta allegria: che spettacolo! Mentre vivevo la
serata e io stesso con grande difficoltà provavo ad inserirmi nei passi di
danza, pensavo che una scena come quella che stavo vivendo sarebbe stata
improponibile nel contesto ecclesiale italiano, non solo per i preti e le
suore, ma anche perché diversi laici bacchettoni (e ce n’è a chili nelle nostre
parrocchie!) sarebbero rimasti scandalizzati. E così, mentre in un contesto
ecclesiale si passa il tempo ad applicare a puntino la rubrica liturgica,
rompendo l’anima ai poveri laici che adesso non possono nemmeno più uscire dal
banco per darsi la pace (ma non ci sono dei problemi in Italia per cui valga la
pena occuparsi? Mah), dall’altra parte del mondo si danza e si canta, anche
nelle celebrazioni liturgiche, offrendo ai fedeli la possibilità di sentirsi a
casa, liberi di muoversi perlomeno nella casa del Signore.