Paolo Cugini
Ci sono dei temi che non mettiamo mai
in discussione perché li riteniamo buoni, intoccabili. Uno di questi è il tema
degli aiuti umanitari e, in modo particolare, quella forma di aiuto conosciuta
con il nome di Adozioni a distanza. Su questo tema vorrei aprire un dibattito
partendo proprio dalla mia esperienza, citando quindi alcuni casi concreti e
proponendo alcune riflessioni.
Il primo caso l’ho vissuto quando
vivevo in uno dei quartieri poveri di una città all’interno della Bahia. Vicino
all’epoca di Natale stavo visitando alcune famiglie quando sono entrato in una
casa composta da una mamma e dieci figli. Due dei figli erano tutti allegri
perché avevano appena ricevuto i soldi di un’adozione a distanza per comprare
un paio di scarpe, perché la lettera diceva di spendere i soldi così. Avevo
notato il contrasto tra le facce allegre dei due bambini che scorrazzavano per
la strade mostrando a tutti le scarpe nuove, e gli altri otto con la faccia
cupa seduti sul marciapiede. Questa scena mi ha fatto riflettere molto sul modo
d’intendere l’aiuto ai più poveri. C’è un tipo di aiuto infatti, che invece di
provocare dei movimenti di speranza, provoca attriti, cammini negativi. Oltre a
ciò, mi è sembrato significativo il modo d’intendere la carità. Non solo si
inviano i soldi senza ben sapere dove vadano a finire, ma si esige anche il
modo nel quale vengano spesi. La coppia di sposi che aveva elargito la
donazione ai due bambini della famiglia povera sopra citata, aveva richiesto
che i soldi fossero spesi per comprare due paia di scarpe. Ebbene, solitamente
nei quartieri poveri che ho visitato difficilmente si trovano dei bambini con
delle scarpe da ginnastica; al massimo indossano un paio di havaiane. Oltre a
ciò, il periodo di Natale è in Bahia nel pieno dell’estate. Farsi consegnare
dalle persone che vivono sul posto il bisogno reale sul quale si possono
dirigere delle risorse economiche, è il punto di partenza minimo per un cammino
che possa dare un senso più umano alla parola carità. Il rischio è che quello
che spesso facciamo passare sotto il nome di carità non sia altro che una
soddisfazione del nostro egoismo.
Il secondo esempio riguarda i soldi
che un’associazione brasiliana da me incontrata riceveva dall’Italia. Quest’
associazione era sorta all’inizio degli anni Novanta su iniziativa di un
sacerdote brasiliano, che aveva notevoli contatti in Italia. L’associazione si
poneva come obiettivo immediato d’intervenire sulla grande situazione di
povertà nella quale vivevano centinaia di famiglie in una regione del Nordest
brasiliano. Quest’ associazione, grazie agli aiuti ricevuti dall’Italia, riuscì
a salvare la vita di molti bambini. Dopo circa dieci anni di attività il
sacerdote fu trasferito in un’altra regione del Brasile. Sempre nello stesso
periodo, l’allora presidente del Brasile Lula lanciò il famoso progetto Fame
Zero, con l’obiettivo di distribuire un minimo di reddito nelle fasce più
povere della società brasiliana. In questo modo, non erano più necessari gli
aiuti che l’associazione riceveva, attraverso le adozioni a distanza,
dall’Italia. E così, quando divenni parroco della città nella quale questa
associazione operava e che aveva un legame diretto con la parrocchia, mi feci
consegnare i documenti dell’Associazione e la password per leggere la posta elettronica.
Scopersi, così, che da alcuni anni i soldi delle adozioni a distanza che erano
destinati direttamente alle famiglie povere, venivano utilizzati per altri
progetti. Una parte dei soldi era utilizzato per attività dirette ai bambini
dei quartieri poveri. Un’altra parte consistente dei fondi era indirizzata al
personale della segreteria che, in alcuni periodi, arrivava alle sette unità.
Nella prima settimana della mia permanenza in questa parrocchia trovai tra la
posta elettronica una lettera proveniente da una delle associazioni italiane
che inviava soldi delle adozioni a distanza, che si lamentava del fatto che da
più di un anno non riceveva informazioni e foto dei bambini adottati.
Sollecitato dalle mie richieste di spiegazioni, la segretaria dell’Associazione
in questione mi disse che non c’erano problemi e, con molta tranquillità, mi
mostrò il testo di una lettera e un catalogo di foto pronte per la spedizione. Dopo
aver assistito a questa scena entrai immediatamente in contatto con le due
associazioni italiane che inviavano soldi delle adozioni a distanze denunciando
il caso e fissando un appuntamento in Italia per spiegare meglio la situazione.
Alla fine le due associazioni italiane, che da anni inviavano soldi, decisero
di non aprire nessun processo e di destinare le adozioni a distanze in Africa.
Sono storie come queste, che
purtroppo ho dovuto accompagnare da vicino, che mi hanno portato ad alcune
riflessioni. Probabilmente il sistema di aiuti ai paesi in via di sviluppo
basato sull’adozione a distanza poteva funzionare alcuni decenni fa. A mio
avviso va ripensato. Occorre uscire da tutta una forma di aiuti umanitari che
incentiva l’assistenzialismo e il paternalismo. Nella linea aperta da Gesù ha
senso quella carità che aiuta i poveri ad alzarsi e a camminare con le loro
gambe. Affinché ciò avvenga sono necessarie entità che entrino a contatto con
il territorio, conoscano le persone e i loro reali problemi e riescano a farsi
consegnare le necessità primarie sulle quali coinvolgere gli sforzi. In questo
cammino diviene di fondamentale importanza la capacità di coinvolgere gli
amministratori pubblici locali. E’ assurdo vedere, e purtroppo succede molto
spesso, progetti sociali che da decenni funzionano esclusivamente con soldi
provenienti da fuori. Senza l’intenzione di coinvolgere le entità locali è
meglio lasciare perdere. Può sembrare un’affermazione dura e radicale, in
realtà parte da una constatazione molte semplice che è questa. La borsa della
spesa che doniamo ad una famiglia di un quartiere povero del Brasile o di un
altro posto nel mondo può avere una forza dirompente o incentivare sistemi di
corruzione. La famiglia, infatti, che riceve la borsa della spesa vive in un
quartiere senza rete fognaria, senza servizi igienici, senza asfalto. Questa
donazione può avere una forza dirompente se aiuta a creare una coscienza
civile, se diviene un primo passo per coinvolgere i vicini a rivendicare
dall’amministrazione pubblica un quartiere più dignitoso. Molto spesso i soldi
ci sono: il problema è che le persone povere si abituano a vivere di briciole e
i politici corrotti lo sanno. In uno dei quartieri poveri nei quali ho abitato,
un giorno ho radunato un gruppo di famiglie per chiedere al sindaco di
asfaltare la strada e fare l’impianto di fognature. Ebbene, il sindaco ci
mostrò le cartine stradali che dichiaravano che per lo Stato della Bahia quelle
strade erano già state realizzate 15 anni fa! Evidentemente i gestori pubblici
passati si erano letteralmente mangiati i soldi elargiti dallo Stato per
sistemare il suddetto quartiere, alla faccia di tutti, anche perché nessuno
aveva reclamato qualcosa. Una carità che non responsabilizza le persone a
cercare ed ottenere i propri diritti non solo non serve, ma è deleteria perché
in un certo modo incentiva i sistemi corrotti.
Il sistema caritativo fondato sulle
adozioni a distanza è a mio avviso superato non solo per i motivi sopra
accennati, ma anche e, soprattutto, se si guarda il problema dal punto di vista
dei poveri. Infatti, non ho mai incontrato un povero nella mia vita che sia
contento di esserlo. Chi è povero, chi è nato povero tenta sempre di nascondere
le proprie origini. Quattordici anni trascorsi in mezzo a loro mi hanno
insegnato questo piccolo dettaglio. E allora quelle foto esigite dai donatori a
distanza sono delle vere e proprie violenze alla dignità dei poveri, sono una
mancanza di rispetto alla loro storia. Oltre a ciò, quei soldi dati
gratuitamente senza un ritorno o un coinvolgimento personale in un progetto,
alimentano il sistema assistenzialista sul quale si sorreggono i sistemi
politici corrotti.
Il salmo 81 dice: “Difendete il debole e l’orfano, al povero e
al misero fate giustizia! Salvate il debole e l’indigente, liberatelo dalla
mano dei malvagi”. Se la carità non va a braccetto con la giustizia può
divenire un cammino perverso, un movimento dell’egoismo personale più che un
sentimento di compassione. Liberare il povero dalla mano dei malvagi significa impegnarsi
in questa prospettiva. Ciò vale anche per i progetti sociali messi in piedi
nelle zone povere del mondo con i soldi provenienti dall’esterno. Non basta,
allora, denunciare le malefatte di coloro che si mettono in tasca i proventi,
ma occorre saper coinvolgere i poveri affinché divengano responsabili attivi
della propria liberazione. Possono sembrare belle parole e forse
irrealizzabili. A coloro che lavorano da anni sul campo sembra uno dei pochi
percorsi percorribili per trasformare dal di dentro le società rese povere dai
sistemi corrotti e che, purtroppo, vengono involontariamente sostenuti anche
dai finanziamenti così detti umanitari. Non basta, infatti, dare cose: occorre
anche esigere un ritorno, un coinvolgimento. Il rischio è quello d’incentivare
il circolo vizioso delle donazioni gratuite che servono solo a creare
situazioni di dipendenza, ottimo strumento per i politici corrotti, che
utilizzano queste donazioni gratuite per esigere il voto al momento delle
elezioni.
Come dicevo all’inizio, i casi citati
(sappiamo bene che ce ne sono molti altri) dovrebbero servire a provocare una
serie riflessione sul modo d’intendere la carità e i così detti aiuti
umanitari. Forse solo così si potrebbe impostare in modo nuovo e più
responsabile un cammino di collaborazione con i nostri fratelli e le nostre
sorelle più bisognosi.
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