lunedì 12 gennaio 2015

ADOZIONI A DISTANZA: NO GRAZIE!


Paolo Cugini

Ci sono dei temi che non mettiamo mai in discussione perché li riteniamo buoni, intoccabili. Uno di questi è il tema degli aiuti umanitari e, in modo particolare, quella forma di aiuto conosciuta con il nome di Adozioni a distanza. Su questo tema vorrei aprire un dibattito partendo proprio dalla mia esperienza, citando quindi alcuni casi concreti e proponendo alcune riflessioni.
Il primo caso l’ho vissuto quando vivevo in uno dei quartieri poveri di una città all’interno della Bahia. Vicino all’epoca di Natale stavo visitando alcune famiglie quando sono entrato in una casa composta da una mamma e dieci figli. Due dei figli erano tutti allegri perché avevano appena ricevuto i soldi di un’adozione a distanza per comprare un paio di scarpe, perché la lettera diceva di spendere i soldi così. Avevo notato il contrasto tra le facce allegre dei due bambini che scorrazzavano per la strade mostrando a tutti le scarpe nuove, e gli altri otto con la faccia cupa seduti sul marciapiede. Questa scena mi ha fatto riflettere molto sul modo d’intendere l’aiuto ai più poveri. C’è un tipo di aiuto infatti, che invece di provocare dei movimenti di speranza, provoca attriti, cammini negativi. Oltre a ciò, mi è sembrato significativo il modo d’intendere la carità. Non solo si inviano i soldi senza ben sapere dove vadano a finire, ma si esige anche il modo nel quale vengano spesi. La coppia di sposi che aveva elargito la donazione ai due bambini della famiglia povera sopra citata, aveva richiesto che i soldi fossero spesi per comprare due paia di scarpe. Ebbene, solitamente nei quartieri poveri che ho visitato difficilmente si trovano dei bambini con delle scarpe da ginnastica; al massimo indossano un paio di havaiane. Oltre a ciò, il periodo di Natale è in Bahia nel pieno dell’estate. Farsi consegnare dalle persone che vivono sul posto il bisogno reale sul quale si possono dirigere delle risorse economiche, è il punto di partenza minimo per un cammino che possa dare un senso più umano alla parola carità. Il rischio è che quello che spesso facciamo passare sotto il nome di carità non sia altro che una soddisfazione del nostro egoismo.

Il secondo esempio riguarda i soldi che un’associazione brasiliana da me incontrata riceveva dall’Italia. Quest’ associazione era sorta all’inizio degli anni Novanta su iniziativa di un sacerdote brasiliano, che aveva notevoli contatti in Italia. L’associazione si poneva come obiettivo immediato d’intervenire sulla grande situazione di povertà nella quale vivevano centinaia di famiglie in una regione del Nordest brasiliano. Quest’ associazione, grazie agli aiuti ricevuti dall’Italia, riuscì a salvare la vita di molti bambini. Dopo circa dieci anni di attività il sacerdote fu trasferito in un’altra regione del Brasile. Sempre nello stesso periodo, l’allora presidente del Brasile Lula lanciò il famoso progetto Fame Zero, con l’obiettivo di distribuire un minimo di reddito nelle fasce più povere della società brasiliana. In questo modo, non erano più necessari gli aiuti che l’associazione riceveva, attraverso le adozioni a distanza, dall’Italia. E così, quando divenni parroco della città nella quale questa associazione operava e che aveva un legame diretto con la parrocchia, mi feci consegnare i documenti dell’Associazione e la password per leggere la posta elettronica. Scopersi, così, che da alcuni anni i soldi delle adozioni a distanza che erano destinati direttamente alle famiglie povere, venivano utilizzati per altri progetti. Una parte dei soldi era utilizzato per attività dirette ai bambini dei quartieri poveri. Un’altra parte consistente dei fondi era indirizzata al personale della segreteria che, in alcuni periodi, arrivava alle sette unità. Nella prima settimana della mia permanenza in questa parrocchia trovai tra la posta elettronica una lettera proveniente da una delle associazioni italiane che inviava soldi delle adozioni a distanza, che si lamentava del fatto che da più di un anno non riceveva informazioni e foto dei bambini adottati. Sollecitato dalle mie richieste di spiegazioni, la segretaria dell’Associazione in questione mi disse che non c’erano problemi e, con molta tranquillità, mi mostrò il testo di una lettera e un catalogo di foto pronte per la spedizione. Dopo aver assistito a questa scena entrai immediatamente in contatto con le due associazioni italiane che inviavano soldi delle adozioni a distanze denunciando il caso e fissando un appuntamento in Italia per spiegare meglio la situazione. Alla fine le due associazioni italiane, che da anni inviavano soldi, decisero di non aprire nessun processo e di destinare le adozioni a distanze in Africa.

Sono storie come queste, che purtroppo ho dovuto accompagnare da vicino, che mi hanno portato ad alcune riflessioni. Probabilmente il sistema di aiuti ai paesi in via di sviluppo basato sull’adozione a distanza poteva funzionare alcuni decenni fa. A mio avviso va ripensato. Occorre uscire da tutta una forma di aiuti umanitari che incentiva l’assistenzialismo e il paternalismo. Nella linea aperta da Gesù ha senso quella carità che aiuta i poveri ad alzarsi e a camminare con le loro gambe. Affinché ciò avvenga sono necessarie entità che entrino a contatto con il territorio, conoscano le persone e i loro reali problemi e riescano a farsi consegnare le necessità primarie sulle quali coinvolgere gli sforzi. In questo cammino diviene di fondamentale importanza la capacità di coinvolgere gli amministratori pubblici locali. E’ assurdo vedere, e purtroppo succede molto spesso, progetti sociali che da decenni funzionano esclusivamente con soldi provenienti da fuori. Senza l’intenzione di coinvolgere le entità locali è meglio lasciare perdere. Può sembrare un’affermazione dura e radicale, in realtà parte da una constatazione molte semplice che è questa. La borsa della spesa che doniamo ad una famiglia di un quartiere povero del Brasile o di un altro posto nel mondo può avere una forza dirompente o incentivare sistemi di corruzione. La famiglia, infatti, che riceve la borsa della spesa vive in un quartiere senza rete fognaria, senza servizi igienici, senza asfalto. Questa donazione può avere una forza dirompente se aiuta a creare una coscienza civile, se diviene un primo passo per coinvolgere i vicini a rivendicare dall’amministrazione pubblica un quartiere più dignitoso. Molto spesso i soldi ci sono: il problema è che le persone povere si abituano a vivere di briciole e i politici corrotti lo sanno. In uno dei quartieri poveri nei quali ho abitato, un giorno ho radunato un gruppo di famiglie per chiedere al sindaco di asfaltare la strada e fare l’impianto di fognature. Ebbene, il sindaco ci mostrò le cartine stradali che dichiaravano che per lo Stato della Bahia quelle strade erano già state realizzate 15 anni fa! Evidentemente i gestori pubblici passati si erano letteralmente mangiati i soldi elargiti dallo Stato per sistemare il suddetto quartiere, alla faccia di tutti, anche perché nessuno aveva reclamato qualcosa. Una carità che non responsabilizza le persone a cercare ed ottenere i propri diritti non solo non serve, ma è deleteria perché in un certo modo incentiva i sistemi corrotti.
Il sistema caritativo fondato sulle adozioni a distanza è a mio avviso superato non solo per i motivi sopra accennati, ma anche e, soprattutto, se si guarda il problema dal punto di vista dei poveri. Infatti, non ho mai incontrato un povero nella mia vita che sia contento di esserlo. Chi è povero, chi è nato povero tenta sempre di nascondere le proprie origini. Quattordici anni trascorsi in mezzo a loro mi hanno insegnato questo piccolo dettaglio. E allora quelle foto esigite dai donatori a distanza sono delle vere e proprie violenze alla dignità dei poveri, sono una mancanza di rispetto alla loro storia. Oltre a ciò, quei soldi dati gratuitamente senza un ritorno o un coinvolgimento personale in un progetto, alimentano il sistema assistenzialista sul quale si sorreggono i sistemi politici corrotti.
Il salmo 81 dice: “Difendete il debole e l’orfano, al povero e al misero fate giustizia! Salvate il debole e l’indigente, liberatelo dalla mano dei malvagi”. Se la carità non va a braccetto con la giustizia può divenire un cammino perverso, un movimento dell’egoismo personale più che un sentimento di compassione. Liberare il povero dalla mano dei malvagi significa impegnarsi in questa prospettiva. Ciò vale anche per i progetti sociali messi in piedi nelle zone povere del mondo con i soldi provenienti dall’esterno. Non basta, allora, denunciare le malefatte di coloro che si mettono in tasca i proventi, ma occorre saper coinvolgere i poveri affinché divengano responsabili attivi della propria liberazione. Possono sembrare belle parole e forse irrealizzabili. A coloro che lavorano da anni sul campo sembra uno dei pochi percorsi percorribili per trasformare dal di dentro le società rese povere dai sistemi corrotti e che, purtroppo, vengono involontariamente sostenuti anche dai finanziamenti così detti umanitari. Non basta, infatti, dare cose: occorre anche esigere un ritorno, un coinvolgimento. Il rischio è quello d’incentivare il circolo vizioso delle donazioni gratuite che servono solo a creare situazioni di dipendenza, ottimo strumento per i politici corrotti, che utilizzano queste donazioni gratuite per esigere il voto al momento delle elezioni.
Come dicevo all’inizio, i casi citati (sappiamo bene che ce ne sono molti altri) dovrebbero servire a provocare una serie riflessione sul modo d’intendere la carità e i così detti aiuti umanitari. Forse solo così si potrebbe impostare in modo nuovo e più responsabile un cammino di collaborazione con i nostri fratelli e le nostre sorelle più bisognosi.


Nessun commento:

Posta un commento