martedì 21 giugno 2016

IL CALIFFATO NELLA STORIA DELLA UMNA




CORSO ISLAM
CUM VERONA 20-23 GIUGNO 2016



Prof. Celeste Intartaglia (PISAI)
Sintesi: Paolo Cugini


Agli inizi del VII secolo Muḥammad si presenta come “Inviato di Dio” (rasūl Allāh),  incaricato di portare agli uomini un messaggio (risāla) che viene a completare quelli precedenti, e che ha carattere definitivo e universale.  Tuttavia Muḥammad, che alla Mecca è stato solo profeta e predicatore, diventa a Medina anche capo politico, guerriero e legislatore. Diventa il capo di una umma, una comunità di fratelli ed eguali, composta da credenti (mu’minūn) che hanno accolto la sua predicazione, e che sono legati da un patto di fedeltà e protezione. La umma, “comunità di credenti”, diventa presto ummat al-muslimīn, la “comunità dei musulmani” e in tempi più recenti la umma islāmiyya, la “nazione musulmana”.  

I musulmani individuano tre punti di svolta nella storia della loro comunità.
1. Il primo, subito dopo la morte del Profeta, che i Compagni risolsero pensando di prolungarne l’opera organizzando uno stato la cui missione era quella di mettere in pratica gli insegnamenti della nuova religione - diffondendone il più possibile il “messaggio” e facendo in modo che i musulmani potessero mettere in pratica i riti che li preparavano alla vita eterna – con a capo un califfo (ḫalīfa, successore) che possedeva qualità morali e religiose adatte allo scopo. 

Alla morte di Muḥammad, un vuoto alla guida della umma, e nessuna successione organizzata. Benché nel Corano vi sia menzionata la nozione di “califfato” (ḫilāfa), i versetti non sono abbastanza chiari. Tra questi, ad esempio:
-            Q. 2, 30 : E quando il Signore disse agli angeli: “Ecco, io porrò sulla terra un mio Vicario”, essi risposero: “Vuoi mettere sulla terra chi vi porterà la corruzione e spargerà il sangue, mentre noi cantiamo le Tue lodi ed esaltiamo la Tua santità? Ma Egli disse: “Io so ciò che voi non sapete”,  che è l’unico versetto che legittima l’istituzione califfale come sostituto del Profeta;  
-            Q. 38, 26 : O David! Noi t’abbiam costituito Vicario sulla terra, giudica dunque tra gli uomini secondo verità e non seguir la passione che ti travierebbe dalla Via di Dio, e quelli che deviano dalla via di Dio avranno castigo violento, per aver dimenticato il giorno del Conto,
che sarebbe invece all’origine del titolo di califfo inteso come capo della comunità islamica. 


Ci si ricorda allora che l’anno precedente alla sua morte, Muḥammad aveva designato Abū Bakr a presiedere la preghiera al suo posto. Per la comunità di Medina, questa scelta fu determinante, poiché ritenevano che colui che il Profeta aveva giudicato degno di fare le sue veci per quanto riguardava il culto (dīn), era a maggior ragione degno di fare le sue veci nelle questioni temporali. È così che Abū Bakr diventa il successore di Muḥammad, per acclamazione da parte del gruppo dei Compagni più vicini al Profeta, e che dopo tre giorni riceve la bay‘a da parte degli altri musulmani e viene riconosciuto ḫalīfat al-rasūl, cioè successore dell’Inviato di Dio. 
Prima di morire, Abū Bakr nomina lui stesso un successore, ‘Umar. Questi decide che i sei Compagni del Profeta riuniti nella šūrā avrebbero dovuto scegliere al loro interno chi doveva poi succedergli. È ‘Uṯmān che beneficia della bay‘a, ma poi il quarto califfo, ‘Alī, non viene riconosciuto tale da tutta la comunità. Per la prima volta, scoppia una guerra civile che oppone i musulmani e che preparerà alla divisione della comunità. 
Il califfo assumeva, in linea di principio, le prerogative legate alla persona del Profeta, ad eccezione della rivelazione: la missione profetica era terminata, e dunque i califfi, che gli successero come capi della comunità musulmana, avevano il compito di salvaguardare il messaggio da lui già trasmesso  e continuare e sviluppare la sua opera politica.  
Questo “regime” durò circa trenta anni, fu segnato da scontri interni; tre dei quattro califfi “ben guidati” furono assassinati, e nonostante ciò la comunità ne ha conservato un ricordo meraviglioso; forse perché il loro potere non è mai stato percepito come imposto alla comunità, ma come qualcosa che derivava dalla comunità stessa e che ne traduceva le aspirazioni. 
Ciò che sembra aver maggiormente contato per i musulmani è il fatto che questi califfi non si consideravano come dei “sovrani” aventi ogni diritto sui propri sudditi, ma piuttosto come dei gestori responsabili del benessere generale della comunità, animati dal senso dell’etica e dalla visione religiosa. In altre parole, il ruolo della persona investita della funzione califfale consisteva essenzialmente nel prendersi carico della salvaguardia del culto e vegliare alla perennità dei valori culturali dell’identità islamica: l’unitarismo, la solidarietà, il precetto del comandare il bene e proibire il male (al-amr bil-ma‘rūf wa-l- nahy ‘an al-munkar), la giustizia e il comportamento corretto (iḥsān). 
Il regime dei califfi ben guidati è così diventato, agli occhi dei musulmani, il simbolo del sistema islamico giusto, rispettoso, allo stesso tempo, dei principi religiosi e degli interessi della comunità. 

        
2. Il secondo, quando la comunità islamica aveva già raggiunto le dimensioni di un impero (cioè un insieme di popoli di diversa origine e lingua riuniti sotto un unico governo e in un unico territorio), con l’instaurazione di un “regime” che conservò inizialmente la forma e il titolo di califfato, ma che adottò il sistema della monarchia ereditaria e le strutture militari e amministrative degli imperi di cui aveva preso il posto (bizantino e sasanide). 
Con l’instaurarsi di un potere di natura strettamente politica nacque la categoria degli ‘ulamā’ (gruppo che comprendeva anche imām, muftī e qādī, oltre ai fuqahā’), uomini dotati di conoscenza e competenza in materia religiosa che avevano il compito di   interpretare il Testo sacro ed applicare i precetti in esso contenuti o da esso derivati. Tali funzioni erano state affidate in precedenza a uomini pii, Compagni del Profeta o Successori della prima generazione (Salaf); col venir meno di queste generazioni, emergono nuove figure di studiosi, e presto si creano delle specializzazioni (muḥaddiṯ, mufassir, faqīh). Questi ‘ulamā’ avevano anche il compito di applicare le leggi derivate a partire dal Testo sacro e dalla Tradizione (senza esserne peraltro gli “autori”) e di praticare le funzioni giudiziarie.
Questa distribuzione del potere è stata definita da alcuni studiosi “compromesso medievale”, che si traduce in una relazione fra tre parti: 
-  i governati (le masse popolari), 
-  i detentori del potere politico, 
-  gli uomini di religione (a questi si sono poi aggiunti i “mistici”, che hanno contribuito a dare alla religione un contenuto spirituale vivo e d’altra parte a diffondersi nell’ambiente popolare e a divenire un tratto particolare delle società musulmane). 
Questa sorta di “compromesso” è stato predominante, seppure con varianti regionali, nelle società musulmane durante i secoli che hanno separato la fine del primo sistema di califfato dalla nascita degli Stati moderni nei secoli XIX e XX, benché in una prima parte con grande dinamismo e creatività sul piano culturale, artistico ed intellettuale, e nei secoli successivi siano stati invece dominati dalla ripetitività, dall’imitazione e dalla chiusura morale e culturale. 
Le realtà delle istituzioni statali nate dalla disgregazione del califfato abbaside si espressero in una copiosa letteratura sulla teoria politica. Possiamo distinguere tre filoni, accomunati dalla comprensione dell’importanza della comunità e delle politica:
-  una dottrina sunnita del califfato, ad opera degli ‘ulamā’; 
-  una letteratura di ispirazione persiana sul genere degli specula principis, presente nelle corti; 
-  una teoria filosofica dello stato ideale, composta da commentatori di Platone e Aristotele. 

Punto primo. La dottrina del califfato basata sul binomio sunna - šarī‘a era esposta in trattati teologici e giuridici: il capo della comunità governava per attuare la šarī‘a e guidare la umma al bene supremo. Gli autori dunque cercavano di spiegare perché dovesse esserci un califfato, quali erano le finalità, come si sceglieva il califfo, quali i suoi requisiti, che cosa determinava gli obblighi dei sudditi. 
Prima della metà del X secolo il dibattito riguardava due punti: chi aveva diritto a rivestire la carica di califfo e che cosa garantiva che il califfo fosse capace di adempiere i suoi doveri.  Nei secoli X e XI diventa chiaro che i califfi non potevano più sostenere il loro ruolo politico e religioso: i sultanati avevano spogliato il califfato del suo potere reale e le dispute “settarie” ne avevano ridotto l’autorità religiosa. 
I teorici sunniti si adattano a queste realtà. 
Il giurista al-Māwardī (972-1058), nella sua opera Aḥkām al-ṣulṭāniyya (I princîpi del governo), intendeva dimostrare che i doveri primari del califfo erano quelli di fare in modo che la religione non tradisse le sue origini storiche, di far rispettare le decisioni giudiziarie e di proteggere i popoli dell’Islam. Tuttavia non era affatto un nostalgico; si rendeva conto della necessità di ribadire l’autorità del califfato in un momento di crisi, e dunque focalizza il pensiero sulla “delega dell’autorità”, le condizioni necessarie per l’investitura e la condotta di tutte le categorie di funzionari governativi e i requisiti personali e morali richiesti per ciascuna di esse. 
Si avverte dunque la necessità di elaborare una dottrina del califfato per presentarlo come il simbolo di quel che doveva essere lo stato islamico ideale, quando lo stato islamico ideale non esisteva più; in altre parole, più che della descrizione di uno stato islamico, di un modello islamico di stato. 
Anche al-Ġazālī (1058-1111) opera una sintesi di fedeltà alla tradizione religiosa e consapevolezza della realtà politica. Si rende conto che per raggiungere il fine del califfato (protezione della tradizione del Profeta e della legge musulmana, unità della umma e sua preminenza nel mondo), era necessario assimilare i sultanati “turchi” subordinandoli al califfato, riformare l’amministrazione, e soprattutto usare i poteri del sultano e dei califfi per combattere i nemici dell’islam, in primo luogo gli sciiti. Era anche importante educare il musulmano al rispetto della vera fede e della vera legge. D’altra parte, era abbastanza realista da riconoscere che spesso erano i signori militari a nominare i califfi, i quali, a loro volta, ne legittimavano il potere; dunque, nella sua teoria nel governo musulmano, l’autorità dei califfi doveva coesistere con l’effettivo potere dei musulmani. 
Nel frattempo, si va affermando il principio dell’obbedienza; per paura della guerra civile, si doveva accettare come necessario qualsiasi governo. Con la disgregazione del califfato (1258), i pensatori sunniti espressero una concezione del governo islamico basata sulla collaborazione tra governanti e ‘ulamā’.  Il califfo in questo periodo è chiamato iman.
Ibn Taymiyya (1263-1328), eminente studioso hanbalita che scrisse numerose opere su molte questioni religiose, compendiò la tendenza a fare degli ‘ulamā’ il centro degli interessi religiosi e sociali dei musulmani. Prese parte di persona a numerose iniziative volte a denunciare i nemici della šarī‘a, che riteneva la forza essenziale per la vita quotidiana dei musulmani: combatté la teologia speculativa, le varianti del sufismo metafisico, la venerazione dei sepolcri, guidò spedizioni contro gli ismailiti sulle montagne del Libano, la resistenza dei musulmani di Damasco contro le invasioni dei mongoli. Con Ibn Taymiyya si inaugura quella che verrà definita dagli stessi autori la siyāsa šar‘iyya, cioè un modello di politica conforme alla šarī‘a. La parola siyasa ha a che fare con l’addestramento dei cavalli. Ibn Taymiya accantona la tradizionale definizione del califfato e definisce i governi musulmani a seconda della loro effettiva autorità e di quanto tenessero conto dei consigli degli ‘ulamā, devono insegnare i eri principi. C’è un ritorno alle origini. Occorre comandare il bene e vietare il male.  Una nuova concezione dello stato e della società, dove gli attori principali sono ora gli ‘ulamā’, non i califfi, e dove è rivendicato per gli “arabi” un ruolo nei regimi militari “stranieri”. 
La fatwa è un parere giuridico. Taymiyya ne emanò molte. Non in tutti i paesi c’è un’autorità suprema della fatwa. C’è in Turchia e in Arabia Saudita. Tra gli sciti la situazione è diversa. Tra gli sciti c’è un’organizzazione del clero gerarchica. Se la fatwa è emanata da una persona eminente, ha un valore maggiore. Ci sono tante fatwa di tanti autori diversi, ma non sono obbligatorie, anche se nel mondo scita ha valore di comando e di obbligo. Nel mondo sunnita le fatwa non sono vincolanti.
Dunque la teoria politica sunnita si è lentamente modificata, fino a ridimensionare la figura del califfo ed accettare la realtà del sultano e del dotto (‘ālim) come figure chiave dell’ordinamento politico musulmano. 

Punto secondo. Mentre la teoria sunnita si sviluppava negli ambiti religiosi, il genere dello speculum derivava da un tradizionale filone persiano di manuali sulla dottrina dello stato. Le prime opere di questo genere furono tradotte nei secoli VIII e IX per i califfi abbasidi; le crisi dei secoli X e XI generarono una nuova ondata di tali opere, scritti da funzionari pubblici e da dotti religiosi, che stabilivano le regole del buon governo per i nuovi signori turchi. 
Il più importante trattato del genere fu Il libro del governo (Siyāsat nāme) scritto da Niẓām al-Mulk (n. 1092) che esorta il sultano a rendere giustizia e gli da consigli sulle tecniche di governo. Un’altra opera importante è il Qābūs-nāme di Kay Ka’ūs (m. 1082) che compendia la saggezza di un re che da consigli al figlio in materia di agricoltura, delle professioni, dello stato, al fine di insegnare a un giovane come essere “uno statista, un gentiluomo e un buon musulmano”. Anche al-Ġazālī scrive un’opera di questo genere, Libro dei consigli ai re (Naṣīhat al-mulūk), in cui sottolinea l’importanza della giustizia e della disciplina; la principale responsabilità del governante è quella di sopprimere le eresie e le cattive azioni, mantenere in vita le tradizioni del Profeta, compensare i virtuosi e punire i malvagi: in sostanza mantenere l’ordine nella società (giustizia sociale) e diffondere gli insegnamenti della vera fede. Le virtù dei principi derivano dal timor di Dio; per mantenere la sua virtù deve consultarsi con gli ‘ulamā’ che gli insegneranno che cosa vuole Dio da lui e lo terranno lontano dalle innovazioni (bida‘). 

Punto terzo. Dal retaggio dei greci deriva il terzo filone di letteratura, quella dovuta ai commentatori arabi dei filosofi greci: tra questi al-Fārābī (m. 950), Ibn Sīna (Avicenna, 980-1037), Ibn Rušd (Averroè, 1126-1198). 
Al-Fārābī fu il principale teorico politico appartenente alla tradizione filosofica. Dedicò alla questione le opere Kitāb al-siyāsa al-madaniyya (Sul governo politico) e Kitāb arā’ ahl al-madīna al-faḍīla  (Le opinioni degli abitanti della città virtuosa), in cui traccia uno stato ideale: un primo stadio è retto dal filosofo – profeta - governante, che con la sua presenza personale ispira una società virtuosa. Il secondo stadio è quello in cui lo stato è governato secondo le regole stabilite dall’originario  profeta – governante, che corrisponde alla società islamica governata dalla legge rivelata, sotto la guida di un sovrano che la fa applicare. 
Anche Ibn  Rušd tracciò, nel suo commentario alla Repubblica di Platone un ampio quadro dell’universo spirituale e del posto che vi occupa la società umana.  
In tutte queste forme di teoria politica musulmana il fondamento è la premessa secondo la quale il fine nell’ordine sociale è la formazione di individui che vivano rettamente e in armonia con la verità in questo mondo, preparandosi così a conseguire la salvezza in quello che verrà. La società politica è essenziale alla realizzazione di questa perfezione; e richiede un buon governante. Il sovrano simboleggia il legame con Dio; la sua persona è enfatizzata perché simboleggia non solo l’aspirazione alla giustizia politica, ma anche la speranza di raggiungere la perfezione religiosa individuale.  Averroè si dice che studiò tutti i giorni della sua vita eccetto quando si sposò e quando morì suo padre.

3. (Il terzo). Infine, questo sistema socio-politico è messo a dura prova quando le pressioni europee si fanno più forti a partire dal secolo XVIII e nel XIX. 
L’Impero Ottomano, la maggiore entità politica del mondo islamico, e che in un certo senso si riteneva ed era considerata rappresentare tutti i musulmani, finisce per essere frammentato ed eliminato, ma prima ancora altri regimi e società musulmane erano finiti sotto la dominazione diretta o indiretta delle potenze europee. Ciò costituisce una nuova svolta nella storia dei musulmani: è l’inizio del loro confronto con condizioni che non avevano mai provato prima, il punto di partenza di trasformazioni profonde nell’ambito delle loro società e della loro visione di sé stessi e del mondo. L’evoluzione si è accelerata da quando certe istituzioni moderne sono state introdotte e messe in pratica, tra cui principalmente lo Stato moderno.
L’abolizione del califfato, un preciso avvenimento storico, ha costituito dunque il punto culminante di un processo evolutivo iniziato da più di un secolo e il punto di partenza di un rinnovamento generale del paesaggio intellettuale e morale nell’ambito della umma (“la comunità islamica”, l’insieme dei musulmani). 

-            È stata ad esempio, fin dalla fine del secolo XIX, la posizione di Ǧamāl al-Dīn al-Afġānī (1839-1897) che per la prima volta pone, in modo esplicito, l’opposizione necessaria e ineluttabile fra l’Islam e il mondo occidentale, e introducendola presso l’Università alAzhar. Al Afgani veniva da una sottomissione dall’Inghilterra. Questa esperienza personale influenza la sua produzione teorica. Spronava al ritorno alle fonti, il Corano e la sunna del profeta, e all’esempio degli antichi, i salaf. Dal punto di vista politico, era convinto che solo l’unità dei popoli musulmani e dei loro stati, quando poi formati, e liberi dal giogo coloniale, avrebbe potuto garantire una effettiva rinascita dell’Islam. Sognava perciò di investire il sultano ottomano, nei cui confronti era tuttavia molto critico del compito di rappresentare le istanze di unità dei popoli islamici. La sua era una prospettiva pan-islamica, al cui centro vi era l’idea di califfato.  Non riuscì a formare una sua scuola con dei seguaci.
-            Un altro contributo importante fu quello portato da Rašīd Riḍā (1865-1935), che compose un trattato, pubblicato nel 1922, dal titolo Il Califfato o imamato supremo (al-ḫilāfa aw alimāma al-‘uẓmā). E’ di mentalità più rigida rispetto al suo maestro al Afgani. In Turchia, l’Assemblea Nazionale presieduta da Mustafa Kemal aveva appena proclamato la fine dell’istituto del sultanato, assorbendone le funzioni, e si preparava ad abolire anche il Califfato, che per il momento resta una pura guida spirituale. La cancellazione della realtà storica del simbolo dell’unità della umma aveva suscitato lo sconcerto dei pensatori musulmani, con dibattiti e proposte.
Riḍā propose di rinnovare il califfato partendo dai presupposti della dottrina classica (con il recupero di concetti quali šūrā, iǧmā‘, bay‘a, appartenenza qurayshita), ma vi aggiunge alcune idee originali. Il califfo non incarnava un potere personale, ma doveva essere al servizio della Comunità, e soprattutto garante della sua unità. Il popolo era il depositario del diritto dell’autorità, dunque poteva anche deporre un califfo indegno. Il corpo degli ‘ulamā’ (nella dottrina classica definiti come “coloro che hanno il potere di sciogliere e legare”) corrispondeva all’istituzione parlamentare.  Propone dei convegni alla Mecca per vedere se c’è la possibilità di rispolverare la nomina a Califfo. Ma non ebbe esito, perché nessuno volle avere la sovranità su un altro stato. Dopo la seconda guerra mondiale vennero create delle confederazioni. Gheddafi aveva l’idea dell’Unità araba, ma non riuscì mai a realizzare il suo sogno. Con l’avvio degli tati nazionali divenne difficile creare il Califfato.

Shura: consiglio che elegge, consultazione.
Igma: è l’opinione comune dei dotti. E’ una delle fonti di diritto secondarie.
Baya: riconoscimento formale del sovrano. Il darsi la mano dopo un contratto.
Qurayshita: tribù del profeta.
Al califfo erano richieste qualità fisiche: non poteva essere cieco, zoppo, non doveva essere pazzo.

-            Una opinione opposta venne sostenuta da un altro pensatore, anch’egli fra gli ‘ulamā’ di al-Azhar, ‘Alī ‘Abd al-Rāziq (1888-1966), che nel 1925 pubblicò L’Islam e i fondamenti del potere (al-Islām wa-uṣūl al-ḥukm). Sebbene la dottrina classica considerasse il califfato come un dovere religioso, ‘Abd al-Rāziq sostiene invece che niente nel Corano e nella sunna prescrive il sistema del califfato, che egli accusa di essere stato un potere tirannico e oppressivo e che ha mal gestito la umma. Il suo contributo innovativo fu quello di aver sottolineato l’esigenza di un a secolarizzazione del pensiero islamico. Infatti, egli dice, che il profeta Muhammad aveva portato un messaggio esclusivamente religioso e spirituale, e che i primi quattro califfi avevano detenuto un potere esclusivamente politico, senza rapporto con la dimensione religiosa, che egli definiva come la relazione diretta con Dio e che considerava finita con la fine della Rivelazione e la morte del Profeta. Queste tesi suscitarono in Egitto vivaci reazioni: all’epoca l’Autore fu allontanato dall’insegnamento presso alAzhar; nel corso degli anni si sono poi succedute numerose confutazioni della sua opera.

-            Un’altra opinione in questo dibattito è quella del giurista egiziano ‘Abd al-Razzāq alSanhūrī (1895-1971), che pubblicò nel 1926 la sua tesi di dottorato in scienze politiche ottenuta a Lione con il Edouard Lambert (fondatore degli studi di diritto comparato). Come si vede già dal titolo, Le Califat. Son évolution vers une Société des Nations Orientales,  sosteneva che una lettura moderna del califfato doveva prevedere l’unità dei popoli islamici nella dimensione sovranazionale di una società delle nazioni islamica, dunque una società politica e non religiosa, che deve la sua dimensione sovranazionale non tanto alla comunanza di pensiero religioso, ma ad una cultura scientifica e sociale antica di secoli. Il suo obiettivo era quello di rifondare il diritto pubblico dell’Islam, a cui peraltro si dedicò negli anni successivi, dedicandosi a studi di diritto comparato e civile (al-qānūn almadanī).  Secondo lui non si doveva pensare alla religione, ma alla cultura. Voleva arrivare al rinnovamento del sistema giuridico.

Il dibattito sul califfato ha assunto una connotazione utopistica. Non c’è possibilità di realizzarlo. La possibilità della ricostruzione di un sistema califfale nel mondo contemporaneo, abbandonata di fatto dopo la sua abolizione, è ritornata a lavorare nell’immaginario dei musulmani tradizionalisti. 
L’abolizione del califfato ha prodotto nella storia dell’islam una ferita che sembra ancora non guarita, una profonda disillusione e uno choc, perché si perdeva la “continuità della comunità con le proprie origini”. Da ciò derivano due tendenze: da una parte, una tendenza spirituale e portatrice di speranza, dall’altra, una che combatte contro quella che sarebbe la causa dell’abolizione del califfato nel 1924. 
1.         Invece di disperarsi, una parte dei musulmani hanno preso a studiare le Tradizioni profetiche (ḥadīṯ) e vi hanno trovato che si è compiuta una profezia di Muḥammad (probabilmente spuria, ma si trova con più varianti, anche in Ibn Ḥanbal),  secondo cui : 
La profezia resterà fra voi fintanto che Dio lo vorrà, poi vi metterà fine. Vi sarà poi il califfato che seguirà la via profetica, che resterà fra voi fintanto che Dio lo vorrà, poi vi metterà fine. Poi verrà la monarchia, che resterà fra voi fintanto che Dio lo vorrà, poi vi metterà fine. Poi verrà la signoria tirannica, che resterà fra voi fintanto che Dio lo vorrà, poi vi metterà fine. Infine verrà il califfato che seguirà la via profetica. 
Questa tendenza vede il tempo attuale come quello governato dai tiranni, e attende pazientemente di veder risorgere il califfato sul modello profetico (ultima parte della profezia. I predicatori nutrono la speranza del ritorno dell’Islam potente come al tempo della sua grandezza e che sottometterà il mondo. 
2.         L’altra tendenza, invece, vede questa crisi come una umiliazione inflitta al mondo musulmano dall’Occidente, e dunque bisogna vendicarsi di esso
A quasi un secolo dalla sua abolizione, l’immaginario collettivo dei musulmani è preso dalla reminiscenza del califfato, fermento di unità della umma. Per questo, alcuni dei paesi musulmani hanno cercato mezzi e vie per rimettere in funzione il califfato, ma senza arrivare all’unanimità. Per i fautori del califfato, l’idea degli stati indipendenti sarebbe accettabile solo se per guidare la vita dei musulmani si applicasse la šarī‘a. Questi paesi, che hanno acquisito la loro autonomia nazionale, non saranno pronti a rinunciarvi a favore di un califfato. Una parte degli ‘ulamā’, poi, sostiene che l’Islam dovrebbe essere rinnovato grazie alla pratica interiore. Per l’ala più dura, bisogna combattere contro l’Occidente egemone, responsabile della decadenza dell’Islam e che governa l’attuale ordine socio-politico mondiale (ad esempio l’egiziano Muḥamamd al-Ġazālī, 1917-1996).  

Questo comportamento suscita affermazioni di identità nazionale, culturale o religiosa, come tattiche di autodifesa. Nel caso dei musulmani, l’attuale supremazia dell’Occidente è quella portata via all’Islam nella sua epoca d’oro.

Da Ali Merad (nel suo Le Califat) vengono citati come punti focali attuali per una ripresa del califfato i seguenti:
-            nostalgia dei tempi “mitici” dell’islam, che porta a magnificare l’esemplarità delle prime generazioni musulmane; 
-            bisogno di rafforzare la solidarietà e la resistenza dei musulmani di fronte alle nuove forme di avversità che si chiamano: egemonia occidentale, razzismo, islamofobia;
-            mistica dell’unità: una comunità islamica universale che aderendo alla causa del califfato, coopera alla realizzazione della “promessa divina” ( Q. 24, 55). 
Nel loro desiderio di vedere risorgere il califfato, i musulmani non tengono conto dell’evoluzione geopolitica e sociale. Sognano un califfato dei tempi dei Ben guidati, ma questa visioni è in contrato con il sentimento nazionalista e con le aspirazioni alle libertà individuali e ai diritti dell’uomo. 
Da qualche tempo, l’evidenza dimostra che la resistenza all’egemonia occidentale ha preso aspetti spaventosi attraverso le azioni di gruppi che si qualificano come fondamentalisti, estremisti sul piano religioso e di terroristi sul piano politico. Fra questi citiamo gli Shebab in Somalia, Boko Haram in Nigeria, la “galassia” di al-Qaïda (al-Qā‘ida), e infine il Daesh con la sua proclamazione dello stato islamico sotto un nuovo califfato autoproclamato. 

Molti musulmani hanno preso le distanze da questi gruppi, ma molti altri li sostengono, soprattutto finché contrasteranno gli interessi dell’Occidente, ritenuto colpevole delle umiliazioni inflitte ai musulmani. È questo forse l’unico punto che mette d’accordo i musulmani e fa dimenticare le loro divisioni interne. 
 Il peso del Colonialismo è molto sentito ancora oggi.

        
        
BIBLIOGRAFIA 


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