sabato 27 ottobre 2018

ECCLESIOGENESI: LA CHIESA SOGNATA DA LEONARDO BOFF






Paolo Cugini

La Chiesa che nasce dal basso
In America Latina il tema della Chiesa come popolo di Dio non solo viene positivamente recepito, ma provoca un nuovo modo di essere Chiesa nel cammino di un intero continente, prende vita una produzione teologica che preoccupa sempre di più la gerarchia romana. I testi del teologo brasiliano Leonardo Boff in materia ecclesiologica vengono considerati pericolosi[1] ed eretici al punto da subire un processo da parte della Congregazione per la dottrina della Fede nel 1984[2]. Nei suoi testi Boff elabora un pensiero ecclesiologico a partire dall’esperienza delle Comunità Ecclesiali di Base (CEB), sorte in America Latina negli anni ’50 e rafforzatesi nell’immediato dopo-concilio grazie, soprattutto, alla positiva presa di posizione della II conferenza della Chiesa Latinoamericana, radunatasi a Medellin nel 1968 per attualizzare nel Continente le intuizioni del Concilio. Già questa prima osservazione è significativa perché mostra lo scarto esistente tra il modo di fare teologia in Occidente e quello elaborato in America latina. Leonardo Boff elabora una ecclesiologia “dal basso”, vale a dire osservando e descrivendo ciò che concretamente sta avvenendo nella Chiesa Latinoamericana e, in modo particolare, in Brasile nell’esperienza delle CEB. Nei testi di Boff il punto di riferimento costante che guida la riflessione è l’attenzione all’esperienza di Chiesa in atto, al popolo di Dio che settimanalmente si trova nelle piccole comunità di base. Tra la Lumen Gentium e il testo conclusivo del Sinodo straordinario di Roma del 1985 in cui viene sostituita l’ecclesiologia del popolo di Dio con l’ecclesiologia di comunione, la produzione ecclesiologica del teologo brasiliano Leonardo Boff è, a nostro avviso, fondamentale, per comprendere il delicato passaggio e l’oscuramento di un’espressione importante dell’ecclesiologia del Vaticano II.

Secondo Boff il nascere delle comunità di base e lo stile comunitario che in esse si sviluppa contengono un innegabile peso che mette in questione l’attuale modo di vivere nella Chiesa. «La chiesa comincia a nascere dalla base, dal cuore del Popolo di Dio. Questa esperienza mette in crisi il modo comune di pensare la Chiesa e ci fa riscoprire la fonte genuina che permanentemente fa sorgere e sviluppare la Chiesa: lo Spirito Santo». Si tratta, dunque, di una vera e propria reinvenzione della Chiesa che mette a nudo il limite accumulato nel corso dei secoli di un cammino di Chiesa incentrato sul rapporto Chiesa-Cristo in una prospettiva giuridica. Questo rapporto venne articolandosi sul modello delle relazioni che una società ha con il suo fondatore. Gesù Cristo affidò ogni potere ai Dodici e costoro ai loro successori, i vescovi e il papa. Furono considerati come gli unici depositari di tutte le responsabilità avendo concentrato su di sé tutti i poteri della Chiesa, «di modo che essi si trovano in presenza di una comunità divisa tra governanti e governati, celebranti e assistenti, produttori e consumatori di sacramenti». In tale rapporto schematico, la gerarchia era l’unico rappresentante della Chiesa universale e particolare. Secondo Boff questa visione di Chiesa si è sviluppata in Occidente sulle tracce di una cristologia, che considera Gesù Cristo solo nella sua esistenza secondo la carne e non pensa a Cristo risorto con i mutamenti in lui operati dalla risurrezione, come l’ubiquità cosmica e la natura pneumatica del suo corpo. Boff conclude la sua riflessione affermando che: «La Chiesa non nacque solo dal sangue squarciato di Cristo, ma anche dalla Spirito Santo nel giorno della Pentecoste».

 Le CEB aiutano la Chiesa a credere nella presenza viva del risorto e dello Spirito presente nella comunità, che non si struttura per una decisione deduttiva dall’alto, ma che vive grazie all’azione dello Spirito, che si manifesta e organizza in mezzo al popolo di Dio. In altre parole, secondo Boff, la storia e l’esperienza delle CEB, così come sono venute formandosi in America Latina, rivelano un volto di Chiesa suscitata dallo Spirito Santo nel cuore degli uomini, una Chiesa che non è nata e non si è strutturata per una volontà giuridica o gerarchica, ma autonomamente e spontaneamente come manifestazione della fede nel risorto, che conduce un gruppo di persone animate dallo Spirito Santo a desiderare di vivere il Vangelo di Gesù Cristo nella loro specifica realtà. In questa prospettiva, continua Boff: «Il fatto di riconoscere la presenza del risorto e dello Spirito nel cuore degli uomini ci fa pensare alla Chiesa considerata più nelle sue espressioni di base che nei vertici; ed è un accettare la corresponsabilità di tutti nell’edificazione della Chiesa e non appena di alcuni uomini dell’istituzione clericale». Nello schema della Chiesa piramidale, la categoria popolo di Dio decorre come il risultato di un’organizzazione previa, nella quale il potere si concentra sull’asse vescovo-sacerdote. In questo stile di Chiesa il laico deve solo ricevere e nulla produrre in termini di organizzazione: è per certi aspetti, funzionale alla struttura. A questo punto Boff si chiede: la Chiesa nasce da un’organizzazione oppure è il contrario? Quando è l’organizzazione che decide la strutturazione della Chiesa, significa che ci troviamo dinnanzi ad un’ideologia della classe dominante, che elabora una teologia affinché i propri diritti e privilegi siano mantenuti. In questa concezione ecclesiologica, Cristo e lo Spirito non fruiscono di un’immanenza immediata, ma solo mediatizzata attraverso i ministeri e gli ordini. Per questo, la gerarchia sta al centro di interessi e non già il risorto e lo Spirito con i sui carismi. Secondo Boff questa impostazione ecclesiologica non ha come supporto la teologia, ma il diritto: «secondo essa il potere è divino solo per l’origine e nel suo esercizio segue l’organizzazione di ogni potere profano con i suoi meccanismi di coercizione, di sicurezza e di controllo».

Chiesa comunità di base: il popolo di Dio
Nella prospettiva della Chiesa come comunità di base, la realtà popolo di Dio emerge come prima istanza e l’organizzazione come seconda, derivata e a servizio della prima. La forza di Cristo non è presente solo in alcuni membri – Papa, vescovi, presbiteri – ma in tutto il popolo di Dio, portatore della triplice funzione di Cristo, rendendo in questo modo visibile l’intuizione conciliare della Lumen Gentium. In questo modo, il potere di Cristo si diversifica secondo le funzioni specifiche, ma non esclude nessuno. «Prima ancora che appaiano in forma visibile attraverso le mediazioni umane (nella persona del Vescovo, del sacerdote e del diacono), il Signore risorto e lo Spirito sono già presenti nella comunità […] La gerarchia è posta per una funzione sacramentale di organizzazione e di servizio in una realtà a cui essa non diede vita, ma che trovò già costituita e nella quale essa venne a trovarsi inserita». Le CEB realizzano l’idea di una Chiesa popolo di Dio, dove gli uomini e le donne si sentono fratelli e sorelle, una Chiesa-comunità, che rende visibile il Corpo di Cristo.

Un nuovo modo d’intendere la gerarchia
In questa prospettiva, Boff elabora una riflessione che presenta la gerarchia come carisma a servizio della comunità. Gesù, infatti, non scelse i Dodici perché fossero i fondatori di future chiese, ma li costituì come comunità, Chiesa messianica ed escatologica, che poi diede origine ad altre comunità. E’ a partire da questa presa di coscienza storica, che vede la comunità che Gesù ha istituito come comunione di fratelli e sorelle con uguali dignità, che svolgo diversi servizi, che è possibile cogliere l’importanza del carisma specifico del governo e guida della comunità, che presiedono all’unità della stessa. Il compito specifico di chi è chiamato a servire la comunità nel carisma della guida:

                            Non sta nell’accumulare e concentrare, ma nel partecipare e coordinare. E’ un carisma che non è posto fuori, ma dentro la comunità, non sopra di essa, ma a vantaggio di essa […] Il servizio di unità, sia come guida di una comunità sia come papa, non prende l’indirizzo di un potere autocratico sulla Chiesa, ma al di dentro di essa e in funzione di essa. Proprio come scrisse sant’Agostino: vescovo per voi, cristiano con voi. Non viene ordinato qualcuno esclusivamente per una funzione di direzione; non c’è un presidente senza una sua comunità; per questo motivo i Concili di Nicea (325) e di Calcedonio (451) considerano nulle le ordinazioni svincolate dalla base.

Il cammino delle CEB, secondo Boff, rende visibile la proposta conciliare della Chiesa come popolo di Dio, il principio di uguaglianza tra i membri che formano la comunità, il significato autentico del ruolo di colui che dalla stessa comunità è chiamato a svolgere il compito di guida, strumento di unità. Diviene evidente che tutti i servizi nascono al di dentro della comunità e per la comunità. Ancora una volta, sottolineiamo il dato fondamentale che Boff non sta presentando una propria teoria ecclesiologica, ma sta formalizzando l’ecclesiologia delle CEB, nelle quali lui stesso prestava servizio. Una comunità nella quale vengono bloccate le vie di partecipazione in tutte le direzioni, come accade secondo Boff nello stile di Chiesa piramidale, non può avere la pretesa di chiamarsi comunità, perché per essere tale deve prevalere il principio di uguaglianza di tutti i partecipanti, sostenuto anche dalla Lumen Gentium. Secondo Boff il problema che la Chiesa ha vissuto sino ad ora e che il cammino storico delle CEB ha posto in evidenza, consiste nel fatto che coloro che avevano la funzione di guide della comunità, vale a dire i vescovi e i presbiteri, hanno esercitato il loro potere al di sopra della comunità, come un corpo a sé stante, monopolizzando tutti i servizi e poteri, e non dentro di essa, cercando di partecipare nel rispetto dei vari carismi e in funzione dell’unità dello stesso corpo. Se allora, ci si chiede quale modello di Chiesa rispecchia di più lo stile di comunità voluto da Gesù, Boff non ha dubbi: quello vissuto attualmente dalle CEB.

Anche i laici possono celebrare l’Eucarestia
È questo stile di Chiesa di fratelli e sorelle uguali, che percepisce il carisma della guida all’interno della comunità e a servizio della stessa che Boff, nella seconda parte del testo, affronta due problemi che a suo modo di vede sono fondamentali per il camino delle CEB, vale a dire la possibilità dei laici di celebrare la cena del Signore e la possibilità del sacerdozio della donna.

Il tema della cena del Signore celebrata da laici si pone per il fatto che, i fedeli laici, che partecipano della via delle CEB, alla domenica hanno la possibilità di accedere all’eucarestia solamente saltuariamente, a causa della scarsità del clero, che spesso deve attendere a parrocchie costituite da decine di CEB. Se è l’Eucarestia a fare la Chiesa allora è giusto porsi il problema, come fa Boff nel suo testo, sulla possibilità di permettere che qualcuno della comunità celebri la cena del Signore. Uno dei cammini possibili che potrebbero essere percorsi è quello fondato sul carattere battesimale e sul potere che il battesimo conferisce alla Chiesa di essere un corpo sacerdotale. Boff, a questo proposito cita lo studio del teologo F.J. Van Beeck[3], che sosteneva che i sacramenti post battesimali «sono la concentrazione e la specificazione del sacramento del battesimo e come tale è un sacramentum fidei et ecclesiae» e non solo sacramento riservato al presbitero e al Vescovo. «In questo modo il sacerdozio ministeriale (del sacerdote e del Vescovo) dev’essere pensato in base al sacerdozio universale dei fedeli e dentro di esso, cioè nella successione apostolica che è data a beneficio di tutto il popolo di Dio». Come ci sono ministri straordinari per il battesimo e per il matrimonio, Boff si chiede se non potrebbero essere dei ministri straordinari che celebrano l’eucarestia. Anche in questo caso, come nel precedente, propone come possibilità per elaborare una risposta esauriente ad un problema effettivo, che non si guardi al passato mediante la successione lineare, ma un riferimento alla presenza del risorto e del suo Spirito nella comunità, Spirito che in essa opera perché sia un’autentica comunità di discepoli e discepole.

Le donne presbitere
Stesso tipo d’impostazione del problema riguarda il tema del sacerdozio femminile. Se, infatti, è vero che il problema dell’eucarestia domenicale s’impone nelle CEB per il fatto che attualmente non ci sono sacerdoti in grado di accompagnare le migliaia di CEB presenti sul territorio latinoamericano, altrettanto vero è il fatto che queste comunità sono guidate per la maggior parte dei casi da donne. Sempre di più le donne assumono delle funzioni direttive nelle CEB. Secondo Boff «il tema del sacerdozio della donna fa parte della tematica più generale della liberazione della donna […] L’aspirazione generale è di veder riconosciuta la differenza tra i due sessi, senza privilegiare nessuno di essi». Anche in questo accaso Boff fa appello al principio di uguaglianza formulato da Paolo e alla presa di posizione di Gesù nei confronti della difesa della donna contro le arbitrarietà della legislazione giudaica nel campo del matrimonio. Per questi motivi, è possibile sostenere secondo il teologo brasiliano, che in se stesso il cristianesimo include il germe di una completa liberazione della donna dalle discriminazioni della cultura patriarcale. «Fin dove potrà arrivare la Chiesa – si chiede Boff – forse fino ad una totale uguaglianza dei due sessi nel poter accedere ai sacri ministeri, ivi compresa l’ammissione al sacerdozio? O vi saranno anche qui strutture definite di ordine e di diritto divino che lo impediscono?». Dopo aver dedicato alcune pagine per approfondire il tema di Gesù come voce di un uomo in difesa delle donne, Boff approfondisce il discorso affermando che non vi sono argomenti teologici determinanti contro l’ordinazione della donna, ma solo disciplinari. In questa prospettiva cerca di confutare le principali obiezioni al sacerdozio femminile per arrivare a sostenere che:

 Dal punto di vista dell’ermeneutica e dell’esegesi non ci sono argomenti scritturistici determinanti che escludano le donne dall’ordine sacerdotale. La tradizione non porta nessun principio teologico fondamentale che giustifichi la prassi attuale di conferire il sacerdozio solo agli uomini. Si può affermare con sufficiente chiarezza che tale prassi è dovuta ad uno sviluppo storico-sociologico […] L’esclusione della donna dal sacerdozio rifletteva la sua condizione d’inferiorità nella società stessa. Si tratta quindi non di una tradizione dottrinale, ma del sopravvivere di un costume millenario, costume che può essere suscettibile di trasformazioni in seguito alla nuova coscienza della dignità della donna e della collaborazione che essa può dare nella Chiesa.

Secondo Boff non è sufficiente pronunciarsi a favore dell’ordinazione della donna al sacerdozio, ma occorre sostenere che l’eventuale sacerdozio della donna non potrà essere il sacerdozio attuale degli uomini. Il sacerdozio attuale che esiste nella Chiesa è, infatti, segnato profondamente dall’immagine dell’uomo maschio e celibe. Per sostenere la sua tesi Boff riporta l’opinione della teologa tedesca Van Der Meer, la quale sosteneva che:
Bisogna riconoscere che la donna non si adatta ai ruoli ecclesiali derivatici da un lungo processo storico e che ancora oggi sussistono. Solo quando queste funzioni saranno riformulate a partire dalla comunità e in relazione a essa, avrà senso conferirle alle donne. Con ciò risulta chiara la conclusione che il sacerdozio particolare della donna non è ancora adeguato alla fase dello sviluppo attuale (storico-salvifico) della Chiesa.
Ci siamo soffermati ad analizzare l’impostazione ecclesiologica di Leonardo Boff perché, a nostro avviso, aiuta a comprendere i possibili sviluppi ecclesiologici della rivoluzione copernicano operata dal Concilio quando ha definito la Chiesa popolo di Dio. L’esperienza delle CEB che, come abbiamo visto, è ancora in atto nonostante abbia subito nel tempo alcune significative trasformazioni, incarna in modo visibile l’idea di Chiesa come popolo di Dio e produce delle conseguenze significative sul piano ecclesiologico, che rendono comprensibili, con gli occhi di poi, l’intervento autoritario di Roma.

Una Chiesa libera dal potere temporale
In Chiesa: carisma e potere, il libro che provocò la dura reazione di Roma, Boff non nasconde il suo entusiasmo per il cammino delle CEB e la possibilità di una riforma radicale della Chiesa. Dopo avere sferzato, nella prima parte del volume, la gerarchia della Chiesa soprattutto sulla questione della violazione dei diritti umani e dell’abuso di potere, non nasconde, nella seconda parte, il suo entusiasmo per il cammino delle CEB e sulla possibilità, grazie a questo nuovo modo di essere Chiesa, di creare una rivoluzione all’interno di essa. «Una parte significativa della Chiesa/istituzione – sostiene Boff – a partire da una meditazione evangelica e da una lettura teologica dei segni dei tempi, ha compreso le sfide che vengono che vengono lanciate alla fede cristiana e tenta di rispondervi responsabilmente». Si sta assistendo, grazie al cammino delle CEB, al sorgere di una nuova Chiesa, generata nel cuore della vecchia. Si tratta di comunità di base, alla periferia delle città, chiesa dei poveri fatti di poveri con inserimento di vescovi, preti, religiosi negli ambienti emarginati. Il perno centrale di questo cammino, ribadisce il teologo brasiliano, «sta nell’idea di Chiesa popolo di Dio, pellegrino, partecipe di tutti i rischi e contento delle piccole conquiste, con un senso molto profondo della sequela di Gesù Cristo, identificato nei poveri, i perduti e abbandonati della terra». Non è più una Chiesa che vive nei palazzi, ma in mezzo alla gente, nel mondo del lavoro nel cuore del mondo secolare. E’ questo nuovo cammino, chiamato ecclesiogenesi che permette alla Chiesa di essere segno di Cristo nel mondo. Per questo motivo, il papato, l’episcopato e il presbiterato non perderanno la loro funzione, semplicemente guadagneranno nuove funzioni, probabilmente più evangeliche. Secondo Boff, il popolo si meraviglia perché la Chiesa sia arrivata così tardi a questo cambiamento, recuperando il significato originario proponendo nel Concilio Vaticano II l’idea di Chiesa come popolo di Dio.
Il cambiamento è stato dalla parte dei preti. I quali non si sentivano più staccati dalla gente, con la loro formazione di élite e i vari privilegi del loro stato. Il prete si incarnava. Si mescolava con il popolo. Questo processo si è realizzato sotto il segno della secolarizzazione. Il prete lasciava quasi tutti i segni sacrali di cui era investito: talare, clausura per i religioso, semplificazione della liturgia, canoniche aperte al popolo.

La trasformazione della Chiesa che sta avvenendo grazia all’impulso prodotto dalle CEB e che sta già modificando il significato dei ruoli all’interno della comunità, provoca anche un cambiamento nella relazione della Chiesa con il mondo. L’attenzione, infatti, non è solo più ad intra, ma anche e soprattutto ad extra. La comunità di base prende coscienza della propria missione nel mondo. Non ha più senso preoccuparsi dei problemi interni alla comunità, se fuori dalla stessa campeggia la miseria, lo sfruttamento. La comunità inizia, così, ad interessarsi non solo dei problemi sociali, ma provoca lo studio dei meccanismi di oppressione.  «Sul piano della comprensione della gente, si fa necessaria una comprensione scientifica della realtà. Per scientifico non s’intende l’uso di parole tecniche e di ricerche dettagliate. Scientifico significa conoscenza di ciò che sta dietro i fenomeni».

La ricerca delle cause della povertà nella realtà in cui vive la comunità, dice del rapporto fede e vita che è specifico delle CEB, che cerca di dare speranza al povero che si sente parte di un ingranaggio senza uscita, ma che nella comunità trova un motivo di speranza. La Chiesa popolo di Dio assume, dunque, una valenza sociale e sociologica, in quanto non solo si pone al servizio delle persone povere, ma cerca anche di capire i meccanismi che generano la differenza di classe, alla base della povertà dei molti e del benessere di pochi. La ricerca delle cause non offre solamente spunti sociologici, ma offre il materiale per delineare un vero e proprio itinerario mistico-spirituale di resistenza al sistema oppressivo. È nella comunità che i poveri si ritrovano per trovare forza nella Parola di Dio e indicazioni per comprendere i meccanismi assurdi del potere oppressore e immettersi in una lotta di liberazione.



[1] Cfr. in modo particolare: L. BOFF, Ecclesiognesi. Le comunità ecclesiali di base reinventano la Chiesa, Borla, Roma 1978; ID.: Chiesa: carisma e potere, Borla, Roma 1983
[2] Il processo avverrà il 7 settembre 1984. Il testo in questione è Chiesa, carisma e potere, accusato di essere eccessivamente inficiato di tesi marxiste. I maggiori teologi del mondo sulla rivista internazionale "Concilium" presero posizione con una dichiarazione di solidarietà ai teologi della liberazione accusando i gruppi integristi di voler accentuare la divisione nella chiesa. Boff venne assistito dal cardinale Aloisio Lorscheider anch' egli francescano, figura profetica della chiesa latino-americana, il quale tuttavia dovette restare muto testimone durante il processo. Gli stessi francescani in qualche modo vennero chiamati in causa. Nel volume preso di mira dal Sant' Uffizio, Boff ipotizza una nuova divisione del potere religioso nella chiesa e sollecita, fra l' altro, più coerenza tra la proclamazione dei diritti umani e la sua applicazione all' interno della chiesa.
[3] F.J. VAN BEEK, Nato dalla Vergine Maria, Ed. La Scuola, Brescia 1999.

lunedì 22 ottobre 2018

IL CRISTIANESIMO E I DETRITI PAGANI DEL SACRO





Paolo Cugini

Il dato immediato per cui diviene identificabile la religione come struttura culturale è, senza dubbio, il sacro. C’è tutto un materiale culturale che viene declinato come rito e simbolo, che si è venuto strutturando nel tempo per descrivere la relazione dell’uomo con l’ignoto, al quale si è trasferita la causa degli eventi razionalmente indescrivibili. Come ci ha sapientemente illustrato Mircea Eliade nei sui studi di fenomenologia della religione, nella maggior parte dei gruppi sociali da lui studiati, che vanno dall’India all’America Latina, è possibile riscontare sempre persone specifiche che nel gruppo assumono la competenza per mediare con il sacro. Esiste tutta una sfera di fenomeni che richiedono competenze e conoscenze specifiche e, senza di queste, è possibile provocare reazioni nocive non solo per l’individuo, ma anche per l’intera comunità. Il sacro, dunque, non è mai solamente un fenomeno che chiama in causa il singolo soggetto, ma soprattutto il gruppo, la comunità. C’è qualcuno in mezzo alla comunità che, o per dinastia, o per selezione, viene collocato per mediare tra il fenomeno sacrale e il gruppo sociale. C’è tutta un’arte che viene tramandata oralmente o, raramente, in forma scritta, tra coloro che avranno il compito di svolgere questo delicato compito di relazionarsi con il sacro. Non tutti, nella comunità, possono avvicinarsi al sacro e, soprattutto, possono comprendere le sue manifestazioni. Occorre sempre far riferimento a colui che nel gruppo è stato indicato e che possiede le conoscenze tramandate nel tempo per compiere questo delicato e fondamentale compito. Questo fenomeno sacrale fatto di sacerdoti, di riti e di simboli che è passato sotto il nome di religione, rivela un’intuizione arcaica di come l’uomo e la donna si percepiscono nel cammino della storia: non siamo soli. Ci sono forze ignote che interagiscono con gli uomini e le donne e che vanno gestite, per certi aspetti controllate, incanalate. Gesù, con la sua venuta, ha distrutto questo principio di differenziazione. Attraverso di Lui, d’ora innanzi, tutti possono accedere al sacro, perché il suo Spirito ci ha resi sacerdoti, profeti, re.

Le strutture culturali si formano nel tempo e passano attraverso i secoli. Germinano dall'istinto di sopravvivenza e, di conseguenza, rispondono non a logiche razionali, ma istintuali. L’istinto di sopravvivenza è il legame più forte con la vita. Qualsiasi forma culturale si struttura su basi istintuali. Ce lo insegna l’antropologia culturale che i meccanismi messi in atto a tutte le latitudini della terra e in tutte le epoche della storia, funzionano in questo modo. Levis Strauss, il grande antropologo francese, in uno dei suoi famosi studi, dimostrava come la proibizione dell’incesto, sorto per salvare la comunità dall’estinzione, promovendo un meccanismo di uscita dalla comunità per riprodurre la specie, si trova in tutti i popoli, nonostante non ci sia stato contatto tra essi. Ci sono strutture culturali che contraddistinguono la specie umana, perché riflettono il bisogno di sopravvivere e di difendersi dagli attacchi, qualsiasi essi siano, della morte. La religione è una di queste strutture culturali sorte dall’istinto di sopravvivenza, costruitasi attorno alla paura dell’ignoto. Essendo una struttura si definisce nel tempo. Ciò significa che le sue caratteristiche, che la specificano e che la rendono identificabile rispetto ad altre, dipendono dall’elaborazione che avviene nel tempo e dal conseguente processo di adattamento. Sono questi i motivi che rendono una struttura così solida e difficilmente deperibile nel breve periodo. Al massimo, una struttura culturale può modificare elementi costitutivi del suo sistema in un determinato periodo storico di crisi, rimanendo, in ogni modo, identificabile nelle sue peculiarità. È questo, credo, il grande insegnamento di Thomas Khun quando, analizzando le rivoluzioni culturali, in modo particolare, la rivoluzione copernicana, ha dimostrato come il cambiamento di una struttura formatasi e consolidatasi nel tempo, avviene solamente quando sono disponibili al cambiamento una serie di elementi che costituiscono la medesima struttura.

In qualsiasi religione e, dunque, anche nel cristianesimo, permangono come detriti, le forme pagane del sacro, vale a dire quelle forme culturali sorte dalla rielaborazione dell’istinto di sopravvivenza nei confronti dell’ignoto, attraverso gli strumenti culturali a disposizione nel momento dell’elaborazione.  Il processo d’inculturazione che il cristianesimo ha vissuto nei primi secoli della sua era, ha prodotto l’assimilazione di alcuni elementi presenti nelle religioni misteriche attive a quell’epoca. Certamente si è trattato di un processo di assimilazione non passiva, ma creativa, un processo di elaborazione degli elementi assimilati che ne ha caratterizzato la specificità. Questo fenomeno di assimilazione e trasformazione, come sappiamo, non ha solo riguardato alcuni elementi delle religioni misteriche, ma anche della cultura filosofica. I concetti di essere, essenza, persona – solo per citarne alcuni – sono concetti della filosofia greca, assimilati nelle argomentazioni teologiche. Questo processo di assimilazione di concetti della filosofia greca è ben visibile, ad esempio, nel Credo niceno-costantinopolitano. Assimilazione e trasformazione sono momenti del cammino d’inculturazione del cristianesimo che, da un lato ha saputo valorizzare i contenuti della cultura del tempo, mostrando un’attenzione e una capacità di penetrazione significativa; dall’altra ha mostrato la novità e, allo stesso tempo la forza, del proprio apparato concettuale nei confronti della cultura pagana. La capacità d’inculturarsi, vale a dire di valorizzare in modo creativo ciò che si trova su di un territorio culturale, lo ha insegnato lo stesso Gesù. Le parabole sono l’espressione più limpida della capacità di Gesù di osservare con attenzione le situazioni esistenziali che caratterizzavano il mondo circostante in cui si trovava a vivere, per assorbirne i significati profondi trasformandoli nei significati che voleva offrire alle persone che lo seguivano. Assimilazione e trasformazione creativa sono, dunque, momenti fondamentali di qualsiasi processo d’inculturazione, che permettono ad una struttura di mantenersi in vita sulle basi di ciò che incontra, offrendo la novità dei propri contenuti.

Il problema, a questo punto del discorso, non è constatare le forme dei detriti del sacro, ma come nel cristianesimo si sia fatto di tutto per mantenerle in vita, nonostante sia in una relazione di idiosincrasia con il centro del suo messaggio che è il Vangelo. Come mai? Credo che la risposta immediata sia data dal fatto che è più facile controllare il potere temporale con le forme arcaiche del sacro, che con la spoliazione evangelica proposta da Gesù. Seguire il maestro significa decidere ricercare solo ed esclusivamente la gloria del Padre. Non è un caso che il fenomeno più eclatante e significativo dei primi secoli della Chiesa, sia stato l’eremitaggio nel deserto e il monachesimo, fenomeni che possono essere racchiusi nella spiritualità della fuga del mondo. In questi ambienti di altissima spiritualità evangelica, ciò che davvero conta è seguire le orme del maestro e, di conseguenza, non c’è il minimo spazio per l’apparenza, la gloria, la ricerca del potere. Non a caso, in queste esperienze religiose troviamo pochissime tracce dei detriti del sacro inteso in senso pagano, ma un costante sforzo di elaborazione di rappresentazioni del nuovo volto del sacro manifestato in Gesù Cristo. Un sacro che, nel cammino presentato da Gesù, diviene umano, esageratamente umano, per dirla con Nietzsche. È questo che confonde gli adoratori del sacro, gli avidi di potere che in ogni epoca e in ogni società hanno fatto di tutto per andare a braccetto con i sacerdoti degli idoli umani. Idolo diventa anche il cristianesimo tutte le volte che si presta ai giochi di potere, dimenticandosi di essere nel cammino di Colui che è venuto per servire e non per essere servito.

sabato 20 ottobre 2018

VOGLIONO SOLO VIVERE. RIFLESSIONI SUI CRISTIANI LGBT







Paolo Cugini

È stata questa la mia considerazione finale al termine dei tre giorni del Forum con i cristiani LGBT, svoltosi all’inizio del mese di ottobre 2018 ad Albano Laziale. Non vogliono nient’altro che questo: vivere come tutti. È questa una risposta semplice e banale alla classica domanda che la gente perbene, quella gente che pensa di essere nel giusto e nel vero, per il semplice fatto che si sente normale (non ho scritto: che è, ma che si sente): che cosa vogliono questi qua? Vogliono vivere, mia cara signora omofoba; desiderano vivere liberi e non giudicati, carissimo signore della porta accanto, che ti fa ribrezzo solamente sentire nominare la parola omosessuale. È questo semplicissimo dato esistenziale, che ho compreso in queste bellissime giornate di amicizia, studio, preghiera e condivisione. Mentre ascoltavo le relazioni, partecipavo ai gruppi di lavoro, pregavo, mi domandavo: ma perché siamo arrivati al punto che delle persone devono nascondere la propria identità, per paura delle ripercussioni, non solo in famiglia, ma anche nel lavoro e anche -mi rincresce molto dirlo, ma è la verità – nella Chiesa. Che cosa è successo?

Ascoltando le testimonianze dei cristiani omosessuali, dei loro genitori (mi hanno colpito, in modo particolare, le testimonianze di alcune mamme), delle loro sofferenze causate spesso dagli uomini di Chiesa, che utilizzano la dottrina come un machete senza nessun scrupolo, forti dell’identificazione dottrina-verità, mi chiedo a cosa siano serviti secoli di filosofia e di teologia, se non sono riusciti a sgretolare nel pensiero occidentale pregiudizi ancestrali ingiustificati, tenuti in piedi solamente da ragioni artefatte, messe in piedi per salvare l’opinione comune. Nonostante da decenni la scienza affermi che ci sono persone che nascono omosessuali, la cultura nella quale siamo nati e della quale ci siamo imbevuti, rifiuta questo dato confermato dalle stesse persone interessate. Basterebbe fermarsi ed ascoltarle. Come prete dico: basterebbe prendere sul serio le testimonianze ascoltate nelle confessioni, per capire che nella dottrina cattolica che dichiara “l'inclinazione omosessuale oggettivamente disordinata, c’è qualcosa che non funziona, qualcosa che non è inerente alla realtà. Quando la teologia non spiega la realtà, o la spiega parzialmente, mettendo delle pezze a ciò che, a causa delle precomprensioni culturali, non riesce a comprendere, significa che ha imboccato la strada dell’ideologia e, come sappiamo, qualsiasi ideologia è di parte, difende interessi, provoca divisioni dentro e fuori le persone. Come ha sostenuto la teologa Cristina Simonelli, attuale presidente delle teologhe italiane, nel suo intervento al V Forum dei cristiani LGBT: “Il catechismo della Chiesa cattolica è una sintesi datata, non certo eterna o intangibile: a dimostrazione, è stata tolta la liceità della pena di morte, può essere tolto anche il disordine oggettivo!  Si tratta dunque di un documento che merita rispetto, sì, ma anche comprensione storica, critica, teologica e dunque dibattito”.

Sono solo due anni che come pastore accompagno cristiani LGBT e già sono stanco di sentire l’ipocrisia della Chiesa che servo, che utilizza le parole magiche dell’accoglienza e dell’inclusione senza poi, dall’altra parte, offrire i contenuti della stessa. Rimango stordito quando ascolto le belle parole dell’accoglienza da quella mia Chiesa, che poi sbatte volgarmente fuori dai confessionali fratelli e sorelle che s’inginocchiano per chiedere misericordia. Ma che roba è questa? Di che cosa stiamo parlando? Soprattutto: ci rendiamo conto dei disastri che stiamo combinando in nome di un Vangelo che il mondo non riconosce nelle nostre scelte e nei nostri atteggiamenti schizofrenici? Con la bocca, infatti, diciamo una cosa, mentre con i nostri gesti la neghiamo. Perché non permettiamo ad una persona omosessuale di leggere in Chiesa o di fare catechismo (su questo tema specifico la letteratura è spiacevolmente e vergognosamente enorme)? Come si fa, poi, a dire ai cristiani LGBT “ti accolgo nella comunità” e poi vescovi e preti proibiscono di realizzare le veglie per le vittime dell’omofobia? Quanta vergogna e quanto imbarazzo ho sentito in questi due anni in cui assieme agli amici e amiche del gruppo abbiamo organizzato le veglie di preghiera e venire barbaramente e violentemente attaccati da quegli stessi fratelli e sorelle che alla domenica incontravamo attorno alla stessa mensa del Signore per ascoltare la sua stessa Parola e cibarci del suo stesso corpo. Perché accadono queste cose? Che cosa hanno fatto? Non hanno diritto di pregare come tutti? Perché tu che sei stato messo per essere il pastore conforme al Vangelo del Signore, sbatti le porte in faccia a questi fratelli e sorelle? Eppure i cani li lasciamo entrare nelle Chiese!

Chi lavora da anni con i cristiani omosessuali sente che, grazie anche agli impulsi e agli stimoli dottrinali di Papa Francesco, è giunto il momento di osare qualche passo in più nella direzione di un’accoglienza che sia retta da una nuova elaborazione dottrinale e teologica. Lo ha ricordato suor Fabrizia che da dieci anni, assieme alle sue consorelle domenicane, ha aperto le porte del monastero di Firenze. Dopo aver ricordato che: “le nostre comunità cristiane, che hanno condannato per lo più al nascondimento le persone LGBT presenti al loro interno, lasciando sussistere il sospetto di un sottile legame tra condizione omosessuale e perversione morale, debbono riconoscere di aver tradito lo sguardo benedicente di Dio”, suor Fabrizia ha aggiunto che “per quanto sia fondamentale la conversione pastorale, siamo convinte che questa non basti. Crediamo che la teologia sia chiamata oggi a ripensare con coraggio, secondo la sua specifica vocazione alla ricerca, le questioni relative al mondo LGBT”.

I nostri fratelli e le nostre sorelle LGBT ci stanno facendo crescere, ci stanno aiutando a togliere dai nostri occhi il velo dell’ipocrisia, ci stanno aiutando a capire il vangelo divenendo in questo modo, un luogo ermeneutico incredibile. Per questo, ve ne siamo grati e preghiamo perché anche i nostri pastori-vescovi escano al più presto dalle facili parole e dai facili atteggiamenti di maniera, per riconoscere finalmente il dono di grazia che Dio ha fatto con la vostra vita omosessuale.




giovedì 18 ottobre 2018

NEL SILENZIO DEL PADRE. INDICAZIONI PER USCIRE DALLA RELIGIONE MALATA






Paolo Cugini

Me lo chiedo spesso ultimamente e non riesco a trovare una risposta, una qualsivoglia ragione plausibile, perché molto probabilmente ragione non c’è. Ci saranno delle motivazioni estetiche, erotiche, pansessuali, ma di evangelico non si vede nulla all'orizzonte. Mi chiedo, allora, come mai ci sono cristiani che hanno bisogno di eventi miracolosi per sentire la presenza di Dio? Come mai, ci sono persone che si dicono cristiane e che cercano costantemente l’apparenza pomposa, le manifestazioni eclatanti, lo sfarzo liturgico come segno del sacro? Pensavo che tutta questa roba, dopo il Concilio Vaticano II, fosse finita ammuffita in soffitta. E invece no, ci sono i nostalgici di turno che la ritirano fuori, la ripuliscono e se la mettono anche addosso, dimostrando un cattivo gusto demodé ma, soprattutto, manifestando un’incapacità cronica di accompagnare i tempi, di leggere dentro la storia i segni dei tempi, di una presenza di Dio che esige altro per essere identificata e, quindi, incontrata. Come si fa a pensare che per essere cristiani occorre tenere le manine giunte, il capo chino, vestire una cotta con dei pizzi inamidati, inginocchiarsi nel modo giusto? Pensavo, ripeto, che la storia di Gesù che viene nel mondo non in un palazzo regale, ma in una mangiatoia, fosse servita a qualcosa, fosse stato chiaro come d’ora innanzi Dio avesse deciso di farsi incontrare che, tra l’altro, è il modo che da sempre il Dio biblico desidera essere incontrato: e invece no. Ci sono strutture culturali formatesi nei secoli che sono durissime a morire, anzi per certi aspetti non muoiono mai, ma riappaiono sotto forme diverse nelle nuove strutture. Una di queste è il sacro, che sopravvive al cristianesimo e riappare nelle sue forme più pagane soprattutto nei momenti di crisi della civiltà, momenti in cui la paura dell’ignoto e dell’imprevedibile esige delle rappresentazioni sacrali che il cristianesimo ha cancellato per sempre, ma che la dimensione istintuale dell’uomo esige. Il sacro è, per certi aspetti, la pancia della religione.

Se c’è bisogno di pontificali per dimostrare la trascendenza di Dio nella storia, significa che abbiamo abbandonato il cammino del mistero. Se per mostrare che Dio esiste c’è bisogno di pizzi e merletti, di sontuose processioni con tanto di candelabri e crocefissi d’oro e una pompa sfarzosa per far vedere qualcosa di differente da ciò che è umano, allora siamo arrivati alla frutta della religione. Anzi siamo arrivati proprio al cuore della religione, a quella religione che non è cristianesimo; a quella religione che Gesù ha combattuto durante la sua attività pubblica e, per causa di questa lotta è finito in croce. E’, difatti, la religione dell’uomo, costruita dalle sue mani, elaborata dalla sua fantasia, voluta da lui. È la religione pagana, una manifestazione dell’ateismo o dell’antropomorfismo mascherato per qualcosa di sacro, quando di sacro non vi è nulla. È la religione che l’uomo si costruisce per sentirsi bene, per calmare i sensi di colpa. Si tratta dunque, di un farmaco e, nella fattispecie, un analgesico, che si prende in dosi costanti, sotto forma di riti, quindi, per mantenere sotto controllo il mal di testa. Riti e feste così dette religiose, elementi di quella cultura pagana retaggio dell’ancestrale bisogno di protezione dalle forze oscure del cosmo che, nonostante la tecnologia e la scienza, ancora oggi sono necessarie per una salutare presenza serena nel mondo. Lo sappiamo molto bene che chi vive sotto prescrizioni farmacologiche significa che proprio bene non sta. C’è tutta una religione che serve per tranquillizzare l’angoscia del vuoto prodotto dall'insoddisfazione della vita, dalle carenze affettive, che bruciano dentro di noi e non ci lasciano dormire. Abbiamo bisogno di riempirci la pancia di qualcosa per sentirci pieni e non soffrire troppo. Abbiamo bisogno di sballare la mente, quando non abbiamo avuto la pazienza di ricucire le ferite della vita con il balsamo dell’amore, cadendo in quella disperazione profonda che sembra senza fine. E allora, corriamo alla ricerca di qualcosa che possa lenire il dolore, anche solo per un po'. Sento una profonda pena per quell'umanità disperata che si riversa nelle chiese alla ricerca di quella cura miracolosa, che possa produrre un po' di quella pace che sarebbe dovuta venire se avessimo curato maggiormente la nostra interiorità, dedicando un po' più del nostro tempo a noi stessi, ad ascoltarci, a cercare risposte profonde e non analgesici immediati. Provo una grande tristezza quando vedo le chiese traboccanti di gente accorsa da tutte le parti per ascoltare l’ultimo ciarlatano di turno, pronto ad offrire esorcismi, a scacciare demoni, in altre parole, ad offrire l’ennesima scorciatoia della vita per chi questa bellissima vita dono di Dio, l’ha riempita di cose, svuotandosi l’anima. Quando la religione serve per silenziare i sensi di colpa, significa che Dio è sparito dall'orizzonte della nostra esistenza.

Guardare a Gesù, a come Lui ha affrontato la vita, a come si è messo in relazione con il Padre: è il nostro compito attuale per uscire dalla religione come analgesico e riscoprire l’autentico cammino della fede. Guardare a Gesù, al tempo che ha dedicato alla meditazione, al silenzio, alla riflessione, alla solitudine, per uscire dai cammini disperati delle masse anonime, che vogliono a tutti i costi riempirsi la pancia del divino. Guardare a Gesù, per imitarlo nel suo modo di mettersi in silenzioso ascolto del Padre, per assimilare quella Parola capace di comprendere il cammino da compiere in ogni momento dell’esistenza. Guardare a Gesù, per imparare da Lui a gustare l’amore del Padre che viene al nostro incontro senza che noi ce ne accorgiamo. Perché Lui sa di che cosa abbiamo bisogno: basta solo cercarlo e trascorrere del tempo con Lui. In silenzio.

giovedì 4 ottobre 2018

SANT’OSCAR ROMERO MARTIRE: L’AMICO DEI POVERI




Paolo Cugini

Domenica 14 ottobre a Roma verrà dichiarato santo non solo papa Paolo VI, ma anche Mons Oscar Romero, vescovo martire di San Salvador.

Oscar Romero nasce a Ciudad Barrios di El Salvador il 15 marzo 1917 da una famiglia modesta. Avviato all’età di 12 anni come apprendista presso un falegname, a 13 entrerà nel seminario minore di S. Miguel e poi, nel 1937, nel seminario maggiore di San Salvador retto dai Gesuiti. All’età di 20 anni fa il suo ingresso all’Università Gregoriana a Roma dove si licenzierà in teologia nel 1943, un anno dopo essere stato ordinato Sacerdote. Rientrato in patria si dedicherà con passione all’attività pastorale come parroco. Diviene presto direttore della rivista ecclesiale “Chaparrastique” e, subito dopo, direttore del seminario inter diocesano di San Salvador. In seguito avrà incarichi importanti come segretario della Conferenza Episcopale dell’America Centrale e di Panama. Il 24 maggio 1967 è nominato Vescovo di Tombee e solo tre anni dopo Vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di San Salvador. Nel febbraio del ’77 è Vescovo dell’arcidiocesi, proprio quando nel paese infierisce la repressione sociale e politica. Sono, ormai, quotidiani gli omicidi di contadini poveri e oppositori del regime politico, i massacri compiuti da organizzazioni paramilitari di destra, protetti e sostenuti dal sistema politico e finanziati dagli Stati Uniti. E’ il periodo in cui il generale Carlos H. Romero è proclamato vincitore, grazie a brogli elettorali, delle elezioni presidenziali. La nomina del nuovo Vescovo non desta preoccupazione: mons. Romero, si sa, è “un uomo di studi”, non impegnato socialmente e politicamente; è un conservatore. Il potere confida in una pastorale aliena da ogni compromesso sociale, una pastorale spirituale e quindi asettica, disincarnata. Mons. Romero inizia il suo lavoro con passione.

Passa poco tempo che le notizie della sua inaspettata attività in favore della giustizia sociale giungono lontano e presto arrivano i primi riconoscimenti ufficiali dall’estero. Nelle omelie domenicali Romero prende posizione in favore dei poveri: “La vera persecuzione è contro il popolo dei poveri. Essi sono il popolo crocifisso come Gesù, il popolo perseguitato come il servo di Yahvè. Sono quelli che completano nel loro corpo ciò che manca alla passione di Cristo. E, per questa ragione, quando la Chiesa ha raccolto le speranze e i dolori dei poveri ha corso la stessa sorte di Gesù e dei poveri: la persecuzione”. Famose divengono anche, le sue reiterate prese di posizione nei confronti del potere locale e delle ingiustizie realizzate nei confronti degli ultimi, i poveri contadini. “Il nostro appello si rivolge anche a coloro che per difendere ingiustamente i propri interessi e privilegi, si sono resi colpevoli di tanto malessere e tanta violenza. La giustizia e la voce dei poveri devono essere ascoltate perché si tratta della causa stessa del Signore che chiama a conversione e che un giorno giudicherà tutti gli uomini”.
Nel vescovo Romero matura sempre di più la consapevolezza che i cristiani non possono rimanere chiusi nelle chiese e, soprattutto, non possono rimanere ommessi dinanzi alle situazioni di violenza e d’ingiustizia. “La Chiesa sente come suo dovere e diritto essere presente in questo settore della realtà, perché il cristianesimo deve evangelizzare la totalità dell’esistenza umana, inclusa la dimensione politica. Per questo critica la posizione di coloro che tendono a ridurre lo spazio della fede alla vita personale o familiare, escludendo l’ordine professionale, economico, sociale e politico come se il peccato, l’amore, l’orazione e il perdono non avessero anche lì rilevanza… Le masse vanno evangelizzate in modo che da masse si trasformino in popolo. Le comunità cristiane non possono proporsi come un luogo di rifugio tranquillo e alienante, devono essere fermento, impegno”. L’impegno politico caldeggiato dal Vescovo Romero non si è mai identificato con l’attivismo in un partito, come spesso ricordava nelle sue omelie e nella terza lettera pastorale scritta nel giorno della trasfigurazione del Signore del 1979.

Ma che cosa è accaduto nell’animo del vescovo conservatore? Nel libro Romero martire di Cristo e degli oppressi pubblicato dall’Editrice Missionaria, il teologo sudamericano John Sobrino sostiene che potrebbe essere stato l’assassinio del gesuita Rutilio Grande da parte dei sicari del regime a provocare il cambiamento. « monsignor Romero – afferma John Sobrino - conosceva molto bene Rutilio, lo considerava un sacerdote esemplare e un amico… ma troppo politicizzato… credo che davanti al cadavere di Rutilio a monsignor Romero siano cadute le bende dagli occhi».

Romero apre un’inchiesta sul delitto e ordina la chiusura di scuole e collegi per tre giorni consecutivi. Nei suoi discorsi, a partire da quel momento, inizia a mettere sotto accusa il potere politico e giuridico di El Salvador. Istituisce, in seguito, una commissione permanente in difesa dei diritti umani. Le sue omelie, ascoltate da moltissimi parrocchiani e trasmesse dalla radio della diocesi, vengono pubblicate sul giornale “Orientaciòn”. Una certa chiesa, quella filo-regime,  si impaurisce allontanandosi da Romero e dipingendolo come un ”incitatore della lotta di classe e del socialismo”.
In realtà Romero non invitò mai nessuno alla lotta armata, ma, piuttosto, alla riflessione, alla presa di coscienza dei propri diritti e all’azione mediata, mai gonfia d’odio. Basterebbe leggere le sue quattro lettere pastorali e, in modo particolare le ultime due, per rendersi conto dello stile di Romero. Purtroppo, il regime sfidato aveva alzato il tiro; dal 1977 al 1980 si alternano i regimi ma non cessano i massacri: il 24 marzo 1980 Oscar Romero, proprio nel momento in cui sta elevando il Calice nell’Eucarestia viene assassinato. Le sue ultime parole sono ancora per la giustizia: “In questo Calice il vino diventa sangue che è stato il prezzo della salvezza. Possa questo sacrificio di Cristo darci il coraggio di offrire il nostro corpo ed il nostro sangue per la giustizia e la pace del nostro popolo. Questo momento di preghiera ci trovi saldamente uniti nella fede e nella speranza”.
Da quel giorno la gente lo chiama, lo prega, lo invoca come San Romero ’America. La profezia di Romero, il vescovo fatto popolo si è realizzata: “Se mi uccideranno – aveva detto – risorgerò nel popolo salvadoregno”.

Durante i tre anni di episcopato a san Salvador Romero aveva fatto di tutto per promuovere la pace. Era profondamente convinto della necessità di promuovere leggi giuste per garantire ai contadini il giusto salario. L’invito costante era rivolto ai militari affinché smettessero di uccidere, perché la pace si potrà ottenere solo con la giustizia e non con la violenza. “Desidero fare un appello speciale agli uomini dell’esercito e in concreto alla base della guardia nazionale, della polizia, delle caserme. Fratelli! Siete del nostro stesso popolo! Ammazzate i vostri fratelli campesinos! Davanti all’ordine di ammazzare dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice “Non ammazzare!”… E’ ora  che recuperiate la vostra coscienza; e che obbediate alla vostra coscienza piuttosto che agli ordini del peccato”.

Come sappiamo, gli appelli di Romero rimasero per lungo tempo senza una risposta positiva. L’anno successivo della sua morte, tra l’8 e il 13 dicembre 1981, l’Esercito della dittatura salvadoregna sterminò centinai di contadini, donne, anziani, adolescente e bambini. Il 20 ottobre 2013 mons. José Luis Escobar Alas, arcivescovo di San Salvador, parlando con la stampa ha dichiarato: «Gli archivi dell’Ufficio Tutela legale non saranno mai consegnati al Procuratore generale». Questi archivi, proprietà della Chiesa salvadoregna, conservano la memoria storica documentata di almeno 50.000 casi di persone che dal giorno della loro fondazione (1977) per volere dell’arcivescovo Oscar Romero, hanno chiesto protezione e aiuto alle autorità ecclesiastiche locali, in particolare quando i diritti umani dei salvadoregni erano violati sistematicamente, soprattutto da parte dei regimi di destra. Il Vescovo Romero era consapevole che chi si schiera dalla parte dei poveri e denuncia ogni forma d’ingiustizia e oppressione, prima o poi arriverà a soffrire pesanti conseguenze. In un’omelia pronunciata a pochi mesi dalla morte disse: “La Chiesa deve denunziare ciò che viola la vita, la libertà e la dignità dell’uomo. Non chiede la vita, ma dà la vita per difendere la vita. La mia funzione è di essere voce di questa chiesa. Colui che si impegna con i poveri deve correre lo stesso destino dei poveri: scomparire, essere torturato, catturato, ucciso. Come pastore della Chiesa e del popolo, io sono obbligato a dare la vita per coloro che amo”. E così, purtroppo, avvenne.