lunedì 26 dicembre 2022

TRADIZIONE

 

 


Paolo Cugini

Agosto 1986

 

 

È l’eredità culturale, cioè la trasmissione da una generazione all’altra di credenze o di tecniche. Nel dominio della filosofia l’appello alla tradizione implica il riconoscimento della verità della tradizione stessa. La tradizione diventa, da questo punto di vista, una garanzia di verità e talvolta l’unica garanzia possibile. (U.T.E.T. voce curata da N. Abbagnano).

 

Ogni singolo uomo è situato all’interno di una tradizione che, nel suo senso etimologico significa consegnare, porgere. Il consegnare indica al contempo due elementi: un essere che porge e un contenuto che è posto da. Conseguenza immediata di ciò, è che lo studioso della tradizione deve porre l’attenzione speculativa su due direzioni diverse, una attenta ad analizzare i modi in cui il contenuto della tradizione viene consegnato, l’altra capace d’indagare sull’origine del contenuto che viene tramandato. Noi ci soffermeremo su questo secondo aspetto. Come nascono gli elementi che vengono a costituire il nucleo della tradizione? Quali sono i criteri che vengono adottati per selezionare il materiale? Di che natura sono questi criteri: razionali o qualcosa d’altro?

Prima di addentrarci all’interno del problema occorre fare ulteriori precisazioni. In primo luogo, dev’essere chiaro che un’epoca è costituita da un insieme di diverse tradizioni. Inoltre, queste ultime non sempre sono facilmente individuabili a causa della complessità della realtà in cui viviamo. Infatti, se per un verso ci è semplice comprendere la diversità tra la tradizione filosofica e quella scientifica, per un altro, a volte ci è difficile distinguere gli elementi dell’una e dell’altra tradizione. Questo lo affermiamo perché riteniamo la realtà, cioè il vissuto storico, non diviso in scomparti ben determinati, ma un tutt’uno cresciuto assieme.

È possibile affermare che la realtà in cui viviamo è tutta tradizione? Proporre l’identità tra realtà e tradizione può sembrare avventato e assai discutibile, in quanto anche il nostro senso comune interviene ad informarci che, il termine realtà, sta ad indicare un insieme di aspetti non completamente e totalmente riconducibili a quello di tradizione. Quando, infatti, noi parliamo di realtà ci possiamo trovare in vari universi di discorso: è reale la pianta, una montagna, il mare. Al contempo, però, è altresì reale Paolo o Pietro. In definitiva tutto ciò che appartiene al mondo materiale, sia esso minerale, vegetale o animale è reale.

Che ne è, allora, di tutto il resto? Per tutto il resto, vista la selezione previa, intendiamo il frutto della elaborazione intellettuale da parte dell’uomo. A questo punto, diventa estremamente interessante soffermarci sul procedimento conoscitivo elaborato dall’idealismo. Difatti, la distinzione sopra effettuata tra mondo materiale e mondo ideale, tipica di una certa tradizione filosofica, può essere messa in discussione proprio dall’idealismo. Quando discorriamo intorno al tavolo o alla sedia, non affermiamo solo realtà appartenenti al mondo materiale. Sedia o tavolo stanno, infatti, ad indicare anche una organizzazione e un ordine che solo un essere dotato d’intelletto poteva effettuare. Di conseguenza, il mondo che ci circonda possiamo a ragione considerarlo il frutto di una lunga e sofferta elaborazione concettuale prodottasi nell’arco del tempo: la tradizione. Occorre, però, precisare che affermare il mondo come il risultato di una lunga elaborazione concettuale non porta in sé l’esigenza di negare al mondo materiale una propria indipendenza rispetto al soggetto che la percepisce. Entità materiale e soggetto (che è materiale anch’esso) sono posti da altro. È il loro incontro e ciò che ne consegue, vale a dire il mondo umanizzato, che è frutto esclusivo dell’operazione intellettiva.

A questo livello, si può chiarire anche il discoro religioso. L’uomo è posto da Dio assieme alle cose. Il mondo che si formerà attraverso le capacità intellettive dell’uomo, porterà costantemente con sé l’impronta divina. Il cammino dell’uomo con Dio acquista, in questa prospettiva, nuovi significati depauperati da quei misticismi mantenuti per troppo tempo all’interno della tradizione. Ritorniamo, però, sui nostri passi. Stiamo cercando di delineare le caratteristiche che ci permettono di tematizzare ciò che intendiamo con il termine tradizione.

Ciò che viene tramandato deve avere come elemento peculiare, una certa durata nel tempo. Più un elemento dura alle “intemperie” del tempo più è tradizionale. Il tradendum ha, quindi, valore solo ed esclusivamente in quanto è antico.  L’elemento che in seguito diventerà tradizionale, ha, però, un momento iniziale nuovo. Problema: come fa questo elemento nuovo a diventare tradizionale? L’elemento che poi verrà a far parte di una tradizione non nasce nel nulla, ma da un contesto ben strutturato. In definitiva, ciò che in seguito si chiamerà tradendum nasce all’interno di una tradizione. Sembriamo in un circolo chiuso per cui per spiegare una parte abbiamo bisogno della definizione dell’altra e viceversa. La tradizione vive costantemente in un presente ed è il continuo procedere di quest’ultimo, il tempo, che ci permette di parlare di tradizione in modo non astratto. Infatti, la tradizione non è qualcosa di dato, bensì è una realtà posta costantemente dall’uomo. Questo è perlomeno il processo che avviene dal punto di vista teorico. Nel presente dove costantemente abbiamo visto formarsi la tradizione, quest’ultima è sentita dall’uomo come qualcosa di dato, di posto da altro. Il tradendum è sentito come una forza immateriale che incute timore e alla quale va riservata una incondizionata obbedienza. Tutto questo è disumano proprio perché è una chiara distorsione delle capacità dell’uomo. Il compito di quest’ultimo, da un punto di vista teorico, sarebbe quello di passare al setaccio del proprio intelletto tutte le informazioni che ogni giorno e ogni istante gli presentano. Che cosa in realtà avviene? Al posto della personalizzazione delle cose, subentra la passività di fronte ad esse. Invece di farsi promotore attivo del suo mondo, diventa succube di ciò che dovrebbe dominare. Va, comunque, specificato che la personalizzazione del mondo è posta sul piano esigenziale e, di conseguenza, trova non poche difficoltà ad affermarsi nella concretizzazione storica. In questa prospettiva, la tradizione arriva all’individuo come patrimonio genetico già dato e posto da altro. Quando il senso comune parla di tradizione si riferisce ad una realtà oggettiva già stabilita, che dev’essere assunta. Il rifiuto della tradizione da parte dell’individuo pone quest’ultimo ai margini del sociale, del mondo al quale appartiene.

I criteri per cui un nuovo elemento può diventare appartenente al patrimonio genetico della tradizione, sono contenuti nella stessa. Questo implica che, il nuovo elemento, per passare alla storia deve costantemente subire il giudizio della verità che viene attribuita ad essa. Infatti, dire tradizione significa implicitamente riferirsi ad un determinato concetto di verità. Che cos’è che è più vero? Che cosa del mondo nel quale ci troviamo vale di più? Vale di più ciò che corrisponde maggiormente agli elementi che la tradizione della cultura dominante possiede. Noi così affermiamo la maggiore o minore validità di una cosa rispetto ad un’altra in base a dei criteri oggettivi contenuti nella tradizione. Al soggetto non rimane altro che farsi portatore di un insieme di elementi mai posti o scelti da lui. Sembra un’affermazione paradossale, ma, a nostro avviso corrisponde alla realtà nella quale viviamo. Perché, infatti, affermiamo che una cosa è più bella di un’altra? Oppure, perché critichiamo alcune manifestazioni come non sensate o fuori luogo? Le nostre tanto decantate capacità di scelta, in questa prospettiva, vengono ridotte a ben poca cosa. Noi non siamo nient’altro che i fedeli portatori di un materiale non mai scelto da noi, e in base a questo giudichiamo, valutiamo, viviamo. A che cosa è dovuta questa nostra evidente passività? A questa importante domanda risponderemo in seguito. Ora ci interessa soffermarci più attentamente sulla forza che la tradizione esercita sul singolo.

La tradizione è diventata una potenza irresistibile. Non è assolutamente possibile pronunciare un giudizio senza riferirsi ad un contesto tradizionale. L’uomo è uomo solo in quanto è capace di farsi fedele portatore della tradizione. La forza di quest’ultima si è venuta a costituire gradualmente nel tempo. Occorre precisare che, ogni epoca e ogni società, ha avuto e ha una propria tradizione. La comunità degli uomini ha sempre posto in un nucleo di proposizioni i criteri di veridicità per la propria epoca. La tradizione filosofica ci dice che fa parte della struttura antropologica dell’uomo il bisogno di verità. È una esigenza irrinunciabile, pena la disintegrazione del sé. Possedere dei costanti punti di riferimento per vagliare qualsiasi esperienza umana è una condizione fondamentale. La tradizione è proprio questo schema di riferimento. Com’è possibile, però, che lo schema di riferimento di un’epoca possa valere anche per quelle successive? Come mai gli elementi di una tradizione resistono alla prova del tempo, rimanendo per parecchi secoli inalterati? Spesso, noi uomini del duemila, valutiamo situazioni o cose utilizzando gli stessi criteri che venivano presi in considerazione da persone e, quindi, società vissute parecchi secoli fa. Non sarebbe più opportuno formulare uno schema di riferimento per ogni epoca? Alla luce di questi interrogativi, possiamo considerare l’uomo piuttosto lento nel cambiare le proprie abitudini. Per certi versi, l’uomo di oggi è lo stesso di quello di ieri. Le capacità riflessive non servono che a confermare quello che gli avi avevano pensato.

Se la tradizione ha sempre avuto una tale potenza, come si è venuta a costituire? Come nasce, ad esempio, il criterio per cui una cosa è più bella di un’altra? Quando osserviamo un oggetto e intendiamo valutarlo con la categoria del bello, non facciamo un’invenzione, ma ci serviamo di strumenti già dati (occorre studiare la genealogia della formazione dei criteri valutativi: perché un quadro è più bello dell’altro? Che cosa mi spinge ad affermare ciò? Per rispondere a questa domanda occorre conoscere la tradizione artistica e più specificatamente quella pittorica): in fin dei conti che cosa vogliamo dimostrare con queste affermazioni sulla tradizione? Vogliamo soprattutto trovare due risposte: una riguardante il grado di libertà di scelta del singolo; l’altro la possibilità di riscoprire un cristianesimo essenziale, liberato, cioè, da tutti i residui ricevuti dalla tradizione.

Rispetto alla tradizione, la libertà del singolo si situa ad un secondo livello di complessità. Noi, infatti non creiamo mai nulla di nuovo, ma continuamente scegliamo in base a cose già date, già poste dalla tradizione. Alla mattina quando ci alziamo possiamo scegliere se metterci la camicia rossa o gialla, ma mai potremo optare per il kimono. Il nostro unico compito verso il quale indirizziamo il nostro bagaglio intellettivo è valutare gli elementi posti dalla tradizione. A questo punto, sarebbe estremamente interessante indagare sui motivi che hanno portato ad affermarsi un elemento anziché un altro, comprendere quali fattori sono intervenuti per far si che la nostra realtà sia strutturata in un modo anziché in un altro. In fin dei conti c’è molta soggettivismo nei contenuti della tradizione, che vengono spacciati come contenitori di valori oggettivi […].

 

 

giovedì 22 dicembre 2022

Caso Rupnik: non basta più l’indignazione!

 



 Siamo determinate ancor di più a condurre una battaglia senza sconti per denunciare le “strutture di peccato” in cui si radica tale “caso”: un impianto di cui la chiesa cattolica è artefice e protagonista.

Troppo spesso abbiamo constatato che nei movimenti ecclesiali/congregazioni/culti ci si serve surrettiziamente di alcune categorie ecclesiologiche per usare e manipolare persone (quasi sempre donne) che si avvicinano a tali contesti religiosi in nome di una chiamata spirituale. Queste donne sono limpide, fiduciose, ignare degli “adescamenti” che troppo spesso - oramai lo abbiamo verificato nella nostra non più breve esperienza- si compiono.

 La logica è quella del dominio del chierico maschio “ontologicamente superiore” e in nome dell’“obbedienza”, “umiltà”, “segretezza delle procedure”, “perdono”, del “non infangare una santa istituzione”, della “adorazione verso chi incarna il sacro” e altre categorie “dello spirito”, si cattura la persona in una rete di soprusi, abusi, macchinazioni perverse, dove le logiche della sudditanza e dell’omertà sono la regola.

La minaccia è solo allusa: quella di subire le conseguenze di un potere androcentrico totalitario e quindi la condanna all’infamia, oltre che al baratro esistenziale in caso di dissenso conclamato e all’ isolamento senza nessuna via d’uscita percorribile. La cultura dello stupro (che non è solo fisico, ma anche spirituale) passa di qui.

Non ci intratteniamo sui dettagli del caso Rupnik, degno perpetratore di tale cultura. Vogliamo puntualizzare però alcune osservazioni.

Rupnik è sì uno tsunami, ma è solo la punta dell’iceberg: non è la mela marcia dentro a un paniere di mele sane, non è il criminale mentre i suoi sodali sarebbero innocenti. Si tratta di una malattia endemica che pervade il sistema ecclesiastico tutto e che in Italia, in particolare, si tende a occultare. Sono complici i mezzi di informazione, per lo più muti - tranne alcune lodevolissime eccezioni, a cui riconosciamo di essersi da tempo impegnate seriamente su tali fenomeni, per aver lanciato campagne di stampa e approfondito con inchieste: la agenzia di stampa Adista, la rivista Left, il quotidiano Domani; complici sono anche i /le cattolici/che che preferiscono non vedere e non sapere. Colluso è anche lo Stato che si mostra indifferente verso la sorte dei suoi/delle sue cittadini/e quando sono violati/e nei loro diritti.

La Compagnia di Gesù non può credere di salvare la faccia dicendo che le vittime si rivolgano a lei e saranno ascoltate e accolte a braccia aperte. È la stessa logica che percorre la CEI, logica che nasconde la strategia del “sopire e tacere”, di manzoniana memoria. Tali atteggiamenti non sono credibili: esigiamo che ci sia una azione giuridica legale pubblica.

Chiediamo altresì che si aprano gli archivi rendendoli accessibili a una commissione indipendente.

E soprattutto affermiamo che il caso Rupnik non deve essere trattato secondo gli stili discorsivi cari alla cronaca scandalistica. È fondamentale che, nella pubblicizzazione di tali eventi, sia invece messa in luce la struttura che permette tali abusi, che li copre con l’omertà dell’istituzione stessa, che per secoli è stata complice, se non prima responsabile, di un habitus androcentrico. È la struttura misogina gerarchica clericale che inferiorizza donne e laici, considerandoli a “propria diposizione”.

Firmato

Re-in-surrezione: per S-velare e fermare ogni abuso (il gruppo Re-insurrezione è una rete di persone appartenenti a: Donne per la Chiesa, Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne). 22 dicembre 2022

mercoledì 21 dicembre 2022

COME POTEVA?

 




Il Tuo mistero, Signore, rimane sempre nascosto, incomprensibile alla logica umana. Hai deciso di nascere in questo modo: è assurdo umanamente. Ti adora chi non ha nulla, chi non sente di avere grandi cose, di essere chissà chi.

Davanti al presepio non possiamo che rimanere sconvolti: che cosa ci vuoi dire?  Non sei forse il figlio di Dio, non sei Dio? E, allora, perché sei entrato nel mondo in questo modo? Se sei entrato nel mondo, in questo modo, vuole dire che tutti coloro che ti vogliono conoscere dovrebbero fare lo stesso percorso silenzioso, nascosto, di spogliazione, umiliazione. Il Mistero si manifesta nella povertà. Per chi nasce e vive nel benessere questa indicazione non può che essere motivo di scandalo e, quindi, rifiutata.

Sì, Signore, Tu non appena sei venuto al mondo sei stato rifiutato: e non poteva essere diversamente. Di fatto come potevano le tenebre accogliere la luce? Come poteva la menzogna accogliere la verità? Come poteva il ricco accogliere il povero? Come poteva? (Dai diari, 24 dicembre 2002).

martedì 13 dicembre 2022

ABUSI SESSUALI DEL CLERO E GRAVIDANZE: IL PRIMO STUDIO ACCADEMICO

 









Condivido sul mio blog questo articolo apparso su Adista di quest'anno

Ludovica Eugenio

Tratto da: Adista Documenti n° 00 del 26/02/2022

ROMA-ADISTA. Obbligate a nascondersi, ad abortire, spesso in condizioni disperate, o a partorire in contesti non sicuri, dopo gravidanze prive di qualsiasi assistenza medica, dando poi subito in adozione i neonati; condannate a non fare mai il nome del padre, a mentire a tutti, a subire la stigmatizzazione sociale, a portare interamente da sole, tra difficoltà indicibili, il peso di un abuso e di esperienze disumane, il cui responsabile resta sempre impunito, protetto, garantito dall’istituzione: sono le donne, spesso ragazzine adolescenti, vittime di abusi sessuali che sfociano in una gravidanza, perpetrati da preti cattolici. Nel quadro degli abusi clericali, forse il versante più oscuro di tutti, non ancora studiato ed esaminato. Ora, a metterlo sotto la lente d’ingrandimento, colmando questo vuoto di attenzione e analisi, è la teologa tedesca Doris Reisinger, del Dipartimento di Teologia cattolica della Goethe Universität di Francoforte, lei stessa vittima di abusi , in un articolo accademico “open access” (quindi aperto a tutti) pubblicato sulla rivista Religions (13, 198; appartenente alla piattaforma open access MDPI), frutto di due anni di ricerca e che aveva preannuciato la scorsa estate. La ricerca è partita dalla constatazione che in un numero significativo di casi, i preti abusatori causano gravidanze e obbligano le loro vittime a essere invisibili, a ricorrere all’aborto, o a partorire per poi far adottare il neonato o la neonata: è il fenomeno che la ricerca definisce come “abuso riproduttivo”. È evidente che molte delle vittime sono donne adulte, ma anche tra le minorenni che hanno vissuto l’abuso di preti pedofili una percentuale che varia dall’1 al 10% può essere stata vittima di abuso riproduttivo. Reisinger si basa su numerose fonti e su materiale d’archivio che riguarda decine di accuse di abuso riproduttivo nel contesto della Chiesa cattolica statunitense. Oltre a cercare di fare una stima della frequenza globale del fenomeno, essa distingue tre diversi tipi di abuso riproduttivo nonché un’analisi dell’interazione tra misoginia clericale e secolare, prima responsabile del silenziamento delle vittime, trattate come oggetti e stigmatizzate, e dell’impunità degli abusatori, sempre protetti dall’istituzione; aspetti che spiegano l’invisibilità del fenomeno, ancora più paradossale se si pensa all’importanza attribuita dal magistero ecclesiale alle tematiche bioetiche e alla morale sessuale. Proponiamo il testo integrale dell’articolo, rendendolo disponibile a tutti i lettori, - secondo lo spirito con cui è stato concepito e pubblicato -, in un numero speciale “extra” online, che potete scaricare dal sito, in una nostra traduzione dall’inglese. 

 

lunedì 5 dicembre 2022

GRATITUDINE E DONAZIONE - MASSIMO RECALCATI

 




Sintesi: Paolo Cugini

 

Come inizia una vita? Noi tutti sismo figli. Possiamo evitare di essere padri, madri, ma nessuno di noi può evitare l’opzione di essere figlio. Cosa significa essere figlio? Innanzitutto, significa essere stati fatti, portati nel mondo da un altro. Significa non essere padroni delle nostre origini. Se non incontrassimo nel mondo nessun altro che risponde alla nostra presenza, non saremmo nulla. La vita nasce dal grido. Nella risposta al grido troviamo la forma prima della riconoscenza. Questa è la prima forma della solidarietà. Abbiamo sempre a che fare con delle grida e la risposta è la prima forma di riconoscimento della vita.

Il nostro tempo si nutre di una grande menzogna: è pensare che la vita si costituisca da sé, mito della libertà come assoluto e puro arbitrio. Mito di riuscirsi a farsi un nome da sé. Nessuno di noi ha scelto il suo nome. Tutti portiamo il nome che i genitori hanno scelto. Tutti portiamo il nome di una altro. Ci facciamo sempre attraverso gli altri. Nella psicoterapia quando il cliente parla di sé inizia a parlare degli altri, delle persone che ha intorno. Non riusciamo a parlare di noi stessi se non parlando dell’altro. La vita è sempre rapporto con l’altro. La gratitudine è la forma più alta che assume una relazione.

Goethe amava l’Italia. Una volta si trovava sul lago di Garda, nella parte trentina, vicino a Monte baldo. Ad Arco di Treno si osserva tutto il lago. In un punto di questo passaggio, chiede di fermarsi e ha un gesto di stizza: nessun amico con cui condividere tutto questo, Quando siamo dinanzi allo spettacolo del mondo esigiamo che ci sia qualcuno con cui condividere la bellezza.

Into the wild: il ragazzo morirà solo in un camion abbandonato in Alasca. L’ultima frase che scrive è: la felicità è condivisione.

La gratitudine è esperienza di condivisione. È il contrario dell’invidia. Alda Merini diceva che non sopportiamo la vita felice degli altri. Guardiamo con invidia la vita che cresce. L’invidia è godere della disgrazia della vita felice, ricca ed è un sentimento che impoverisce, perché l’invidioso gode della disgrazia dell’altro. La gratitudine arricchisce la vita.

Nell’odisse abbiamo un doppio ritratto della giovinezza. I proci sono ragazzi che sprecano la loro vita. Ulisse li ammazza tutti. Qual è la colpa dei proci? Questi ragazzi hanno commesso per il mondo greco è non avere rispetto dell’ospitalità. L’odissea ci dà il ritratto anche della generazione Telemaco, che è il figlio di Ulisse. L’Odissea si apre con il viaggio di Telemaco, che assume con coraggio l’assenza del padre e si mette in viaggio, sulle orme del padre. Telemaco rischia la vita in questo viaggio. Il viaggio del figlio è sempre pericoloso. Dopo il viaggio del figlio ritorna anche il padre nelle forme di un mendicante e c’è l’incontro con Telemaco. Sono il padre e il figlio che si guardano per la prima volta e in quell’abbraccio c’è la gratitudine di entrambi. Quando nel rapporto tra genitori e figli non c’è gratitudine si genera l’odio. Quando riusciamo a mostrare l’umanità, la debolezza, il figlio si apre alla gratitudine. Riconoscimento della fragilità della vita.

Donare. Cosa differenzia un dono dalla carità? Quando facciamo la carità noi diamo all’altro quello che noi abbiamo in più, quello che è superfluo. La donazione ha a che fare con l’amore. Il vero dono è dare all’altro quello che non abbiamo. Per una madre dare il latte del proprio seno può non essere un atto d’amore, ma di necessità. Diverso è il caso di una madre in Africa dove non c’è pane. Immaginiamo doni un pezzo di pane al proprio figlio: questo è amore, perché dà quello che non ha, si priva di qualcosa.

L’anoressia infantile e adolescenziale: l’altro dell’anoressica è un altro che ha sempre dato cose, oggetti, ma le cose non sono un dono. Spesso i veri doni non sono cose. La bambina dice no, non voglio l’oggetto, la pappa, perché voglio da te quello che tu non hai, il dono della tua mancanza. Il dono è sempre particolareggiato. Il dono spesso esige anche le parole che lo accompagnano. Il dono della nostra presenza apre la vita. Una grande menzogna è pensare che la vita matura è autonoma, indipendente. In realtà è vero il contrario e cioè che senza l’altro non siamo nulla. La vita matura, riconoscendo la dipendenza è vita che sa amare. Il nostro tempo inaridisce le vite con il mito dell’indipendenza.

Gli amori che resistono nel tempo sono amori fatti da due solitudini, dove ciascuno dei due sa stare solo. Pensare che il legame che abbiamo non è mai confusione con l’altro, perdersi nell’altro. L’amore non è empatico. Littell boy: storia di un bambino che sposta le montagne. È la forza del desiderio di un bambino che sposta le montagne.

Accoglienza. La vita si umanizza solo se qualcuno risponde al grido. Noi tutti siamo grazie all’ascolto del nostro grido. Il grido dell’altro. Il nostro tempo è il tempo della chiusura, della non risposta al grido, perché ciò che vale è la nostra identità individuale. Rispondere al grido comporta aprire l’identità all’altro. Se la vita non si apre all’altro ed è accogliente, la vita muore. Abbiamo bisogno di confini, ma se questo comporta la costruzione di mura, allora l’identità ci fa morire, perché abbiamo bisogno dell’altro. I gruppi classe più produttivi sono quelli più eterogenei. Il problema è come ospitare l’altro senza perdere la propria radice.

 

giovedì 1 dicembre 2022

IL CREDO DELLE DONNE: E' IN LIBRERIA

 



Paolo Cugini

 

È uscito in questi giorni, edito dalle edizioni san Lorenzo di Reggio Emilia, un importante volume che ci tengo a segnalare: Il credo delle donne. Qui di seguito una breve presentazione.

 

 

L’interesse delle edizioni San Lorenzo e, in modo specifico, della collana Cammini diversi, nei confronti del pensiero teologico femminile, ha condotto a seguire in questi ultimi anni diversi percorsi di teologia delle donne, alcuni dei quali già pubblicati. Il primo di questi – Uno sguardo diverso su Dio. La teologia delle donne, Ed. San Lorenzo, Reggio Emilia 2021 – raccoglieva contributi di teologhe, bibliste e teologi sul delicato tema dell’omosessualità visto in una prospettiva di fede. Proprio in questo contesto e grazie ai contributi di coloro che avevano partecipato, abbiamo compreso l’importanza e la profondità di uno sguardo diverso, quello del pensiero femminile, sui problemi della vita illuminato dallo sguardo della fede. Pensiero diverso per troppo tempo silenziato e che esige di essere ascoltato, condiviso.

Il “Credo delle donne” nasce come proposta pastorale voluta da alcune parrocchie della bassa bolognese, ma esteso a tutti. Gli incontri, infatti, si sono realizzati nella modalità meet, permettendo, così, un’ampia partecipazione. Perché questo interesse per lo sguardo femminile sugli articoli del credo? La teologia cattolica, plasmata sin dalle origini dal modello patriarcale è, a nostro avviso, troppo sbilanciata sul modo di vedere maschile della fede. C’è la necessità di trovare un equilibrio, di proporre cammini di pensiero capaci di recuperare non solo il tempo perduto, ma anche di condividere la ricchezza di uno sguardo diverso su Dio, la Chiesa, il mondo. È quello che si sta cercando di fare con la pubblicazione di testi che riprendono conferenze e che, di conseguenze, hanno già avuto un primo riscontro positivo con il pubblico. Il desiderio, dunque, è la condivisione di un pensiero che può aiutare ad allargare i nostri orizzonti e a leggere in modo diverso e, crediamo, più profondo, i contenuti della nostra fede. I primi tre articoli di fede affrontati sono stati affidati alla biblista Soave Buscemi e alle teologhe Selene Zorzi e Cristina Simonelli. Ne seguiranno altri per completare un percorso dalla durata di tre anni e che le edizioni San Lorenzo hanno deciso di accompagnare e sostenere.

La speranza di questo progetto editoriale non è solo quello di condividere un’esperienza ritenuta positiva, ma anche di provocare un interesse nei lettori e, allo stesso tempo, stimolare percorsi simili. Dare spazio nella Chiesa alle donne non può essere solo uno slogan, una moda del momento. Ragionare sulla cultura patriarcale che ha plasmato la cultura occidentale, significa porre in atto dei processi di decostruzione, in grado di aprire spazi nuovi e costanti all’interno dei quali il pensiero femminile possa finalmente esprimersi. Fare spazio alle donne è il primo passo di una logica che si pone in controtendenza, anche nei confronti dei proclami altisonanti sul ruolo delle donne nella società, ma che poi, rimangono lettera morta. Secoli di cultura patriarcale hanno lasciato un segno profondo all’interno della cultura e non saranno delle parole a provocare il cambiamento radicale, ma delle scelte quotidiane capaci di proporre un cammino.

È in questa prospettiva che è nata la proposta di dar voce al pensiero teologico e biblico femminile, per accompagnare il cammino formativo dei fedeli di alcune parrocchie. L’azione è la concretizzazione di un pensiero che esce dallo spazio teorico, per incunearsi nei meandri della storia e, in questo modo, modificarla dall’interno. Le edizioni san Lorenzo sono liete di accompagnare da vicino queste proposte per condividerle e fare in modo che si trasformino in passi di un cammino.

Oltre che nelle librerie Paoline e in quelle cattoliche in tutta Italia, lo potete richiedere direttamente dall'editore:

Ed. San Lorenzo:

https://www.edizionisanlorenzo.it/collections/frontpage/products/il-credo-delle-donne-di-maria-soave-buscemi-selene-zorzi-cristina-simonelli

Oppure su Amazon: https://www.amazon.it/credo-delle-donne-Maria-Buscemi/dp/8880713302/ref=sr_1_11?qid=1670423328&refinements=p_27%3APaolo+Cugini&s=books&sr=1-11


martedì 29 novembre 2022

LA CHIESA E IL SENSO DELLA POVERTA’ EVANGELICA

 



 

Paolo Cugini

 

Gesù è venuto nel mondo! Dio si è fatto uomo, si è fatto carne; ha preso dimora in mezzo a noi, in noi; Dio è il Dio-con-noi, nel senso che vive con l’uomo nella sua storia. Dio vive con l’uomo per condurlo verso la Patria del cielo, la Gerusalemme celeste. “Dio ha creato l’uomo per l’eternità” (San Paolo). La constatazione, la presa di coscienza che Dio si è fatto carne per vivere a fianco dell’uomo crea un grande smarrimento. La chiesa è la “carne” del Dio incarnato, morto e risorto.

La “carne” se ha l’aspetto positivo di essere visibile, presenta però tutti i limiti che tale rivestimento comporta. La carne si corrode, è soggetta al tempo, alle intemperie, ha bisogno di essere rivestita nutrita. Ha il continuo bisogno di riflettere sulla propria condizione per verificare il suo stato di salute A volte si irrigidisce per paura di essere distrutta. Altre volte, comprende di dovere adeguare la propria riflessione ai tempi.

Ci si scandalizza della Chiesa. Si rimane scandalizzati di una Chiesa che tradisce l’essenza del suo annuncio. Si rimane traditi da una Chiesa che sceglie la propria conservazione mettendosi al fianco, nel cammino della storia, di chi detiene il potere. La scelta della Chiesa nel tempo è la scelta di essere evidente, visibile e come esserlo se non al fianco o al centro dello stesso potere? La Chiesa come struttura storica, la si coglie molto bene e questo fa parte del centro: i documenti storici, le fonti ecc. ne parlano. La Chiesa sta nella storia mettendosi in prima persona al fianco dell’uomo e della donna. Essa vuole che si veda il proprio impegno per l’umanità. Si è scelto il potere per andare verso il povero per aiutarla a stare meglio.

L’arrabbiatura più forte è sorta da coloro che dalla Chiesa sono andati verso i poveri e hanno scoperto che essi, i poveri, non volevano i soldi, ma desideravano semplicemente essere considerati uomini, donne, essere considerati degni di quell’umanità che i popoli ricchi tengono racchiusi per nei propri scrigni. La scoperta della realtà del povero ha creato una crisi all’interno della Chiesa, la quale si pone il problema di come stare nel mondo dei ricchi.

Lo sforzo che la Chiesa fa di andare verso i poveri rischia di andare a vuoto perché può rendere vano lo sforzo del ricco che, per tranquillizzare la propria coscienza, dà delle briciole al povero, e vengono recepite come tali. In questo sforzo, possono trasparire le forme implicite di un mantenimento di un proprio stato: nessun borghese, nessun ricco desidera diventare povero (è un cambiamento che può essere prodotto dalla conversione del cuore, che solo Dio può mettere in atto): questo desiderio può rimanere implicito anche nelle parole della Chiesa ufficiale e particolare.

Quando si parla di povertà si corre il rischio di sottolineare prevalentemente l’aspetto sociale, si rischia di fermarsi allo stato epidermico della rivendicazione dei diritti che è importante ma non è l’essenziale dell’annuncio evangelico.

Quando Gesù parla di povertà indica uno stato di vita, una condizione esistenziale a partecipare dalla quale è possibile un cammino di conversione, poiché è l’unico luogo che permette di ascoltare la parola di Dio. La povertà non è solo una condizione iniziale, ma deve rimanere permanente perché è la condizione dello spogliato, dell’uomo, della donna che non ha più nulla di proprio e la sua vita diviene totale dono, affidamento completo nelle mani di Dio la propria vita.

Vita domata, vita spogliata per essere santi, per essere come Lui. Non si può essere come Lui se si rimane legati ai propri bisogni, alle proprie esigenze, al proprio benessere. La spogliazione se non è radicale non porta a nulla, se non intacca le più intime radici dell’essere umano non è efficace. Chi è che è così distaccato dal proprio essere da accettare una vita che ha come meta la distruzione di sé, l’inappagamento dei propri desideri, la soppressione delle proprie pulsioni vitali? (Dai diari, 1992).

 

 

lunedì 21 novembre 2022

ABOLIRE LA PROSITUZIONE: A CHE PUNTO SIAMO?

 



Si concludono quest’anno gli incontri di approfondimento dell’Osservatorio Interreligioso sulle Violenze contro le Donne (OIVD) e della Federazione Donne Evangeliche Italiane (FDEI) dedicati al tema della prostituzione attraverso due filoni di ricerca: Prostituzione e pornografia ci riguardano tutti e tutte e Religione e prostituzione.

Attraverso questo ricco e significativo percorso, abbiamo ascoltato le voci delle donne sopravvissute che lottano insieme per abolire la prostituzione e l’esperienza di chi opera concretamente sul territorio a sostegno delle donne prostituite. Abbiamo anche affrontato il tema attraverso i punti di vista delle diverse religioni.

Per orientare le nostre azioni future sulla base degli orizzonti che si sono aperti in questo confronto, ci incontreremo il 1 dicembre 2022 alle ore 18 su zoom per ascoltare due donne impegnate nell’abolizionismo.

L’avvocata Grazia Villa ci aggiornerà sulla situazione attuale del dibattito, sulle reti, sulle campagne abolizioniste e sul disegno di legge Maiorino. La giornalista Claudia Angeletti ci offrirà un report sul workshop dal titolo Come possono le chiese contribuire alla prevenzione della violazione dei diritti umani nel settore della prostituzione? tenutosi durante l’Assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese a Karlsruhe (Germania), al quale è stata invitata come relatrice.

Vi aspettiamo.

Per richiedere il link: osservatorioivdonne@gmail.com

giovedì 17 novembre 2022

Realtà e verità. Dov’è Dio?

 




Paolo Cugini

 

 Ce ne accorgiamo lentamente, forse davvero troppo lentamente, quando la realtà ci mostra un lato nuovo e mai considerato delle nostre presunte conoscenze. È in questi frangenti in cui le nostre presunte verità si scontrano con la forza dell’evidenza che la realtà porta con sé, che siamo obbligati a scegliere.  Stare con le nostre ragioni oppure accettare la novità che la realtà manifesta? La scelta non è facile. Richiede, infatti, la capacità e la disponibilità a mettersi in discussione, la disponibilità a cambiare, spesso radicalmente. Da quello che si vede in giro la tendenza è quella di rimanere seduti comodamente sul sofà delle verità apprese e mai verificate. Perché è importante ascoltare la realtà? Che cos’è questa realtà? Non è possibile identificare la realtà con il semplice dato oggettivo della materia. La realtà è qualcosa di più della materia. All’interno della realtà, degli eventi, agisce lo Spirito di Dio. Ascoltare la realtà significa, allora, ascoltare Dio. Come dice Papa Francesco in un passaggio della Laudati Sii: “Il Creatore è presente nel più intimo di ogni cosa senza condizionare l’autonomia della sua creatura. Questa presenza divina, che assicura la permanenza e lo sviluppo di ogni essere, è la continuazione dell’azione creatrice” (LS, n. 80). La presenza di Dio nel creato non è, dunque, qualcosa di distinto da Dio. Potremmo dire che lo Spirito di Dio è immanente e intimo nelle creature (Gamberini, 2022, p.61).

 Le pseudo verità apprese sin da piccoli e che plasmano il nostro vissuto, verità ricevute e mai messe in discussione, hanno comunque una forza, che viene dall’essere condivise dalla maggioranza. Permettere alla realtà di smantellare le ideologie e le interpretazioni assimilate dall’infanzia: è questo il compito di un’autentica vita spirituale.  Il lavoro non è facile ed esige un cammino serio, un’educazione. I preconcetti assimilati, sono infatti, così radicati da renderli inaccessibili al pensiero critico. Gli eventi sono portatori della verità che si manifesta nella realtà e che sono in grado di smantellare le menzogne assimilate. È un lavoro lento, che richiede pazienza e tempo. Il contatto con la realtà è l’antidoto alla menzogna, alla vita falsa. Prima iniziamo questo cammino di smantellamento delle false verità assimilate, meglio riusciamo a creare uno stile nuovo di vita, basato non più su quello che pensa la massa, ma su quello che abbiamo colto ponendo attenzione alla realtà che si è manifestata nel presente della nostra vita.

 

giovedì 27 ottobre 2022

Per un cristianesimo postcristiano. Guardando avanti

 



Paolo Cugini

 

Forse ha ragione Collin quando dice che il cristianesimo non esiste ancora[1]. Lo prendiamo come un auspicio e come l’indicazione di un camino, come per dire che, chi desidera vivere, sperimentare la proposta cristiana, deve andare nella direzione opposta di quello che era stato indicato nella cristianità, senza nostalgia del passato, ma guardando avanti con fiducia. In questo ultimo paragrafo, dopo aver analizzato alcune teorie che presentano uno sguardo nostalgico al tempo che fu e che non è più, cercheremo di abbozzare qualche linea di sviluppo nel futuro postcristiano.

A questo punto del discorso è importante fare una precisazione. La fine della metafisica non significa fine della religione, ma la fine di quella forma religiosa che ha utilizzato la metafisica per sistematizzare il proprio pensiero. La fine della metafisica più che essere la fine della religione, dunque, apre il cammino per nuove ed interessanti novità. Di seguito offro alcune brevi indicazioni che, senza dubbio, avranno bisogno di un approfondimento, ma che in ogni modo desiderano offrire un contributo al dibattito sul futuro del cristianesimo. Provo, quindi, ad indicare alcune piste di sviluppo che, a mio avviso, sono già in atto.

La prima di queste è la possibilità di un cristianesimo non istituzionale. Si potrebbe pensare che il protestantesimo abbia già percorso questo cammino e che, di conseguenza, non c’è nulla di nuovo nella proposta. In realtà sappiamo che le cose non sono proprio così. Se, infatti, è vero che all’inizio il protestantesimo ha preso le distanze dalle forme istituzionali della religione, il suo sviluppo storico lo ha riposato nell’alveo dell’istituzionalizzazione. Non è facile pensare e strutturare un’intuizione nuova. Non basta infatti l’intuizione, occorre anche un contesto che ne permetta la realizzazione. Quando Lutero ha iniziato la sua riforma, la cultura moderna stava mettendo le radici sul cammino tracciato dell’umanesimo e stava influenzando tutti i settori della società, compresa la religione. Gli sviluppi della teologia moderna per mantenere un dialogo con il mondo culturale circostante, prende come punto di riferimento il metodo scientifico. Che cosa significa, allora, un’impostazione non-istituzionale del cristianesimo? Come si dovrebbe configurare? Significherebbe un ritorno alle origini o, per lo meno, riprendere un cammino lasciato in sospeso. Il postcristianesimo apre la possibilità non per restaurare la cristianità, come vorrebbero, con sfumature diverse, Cuchet, Delsol e Dreher, ma per riprendere il cammino interrotto proprio dalla cristianità, non per riprodurlo, ma per prendere ispirazione dalle origini. Abbandonare i luoghi di culto istituzionalizzati, che diventano sempre più vuoti, per ritrovarsi a leggere la Parola di Dio in piccole comunità domestiche, in un movimento che si sviluppa dal basso, senza la necessità di un riferimento istituzionale, che spesso diviene la causa della lentezza del cammino delle comunità: è questo un primo sviluppo.

Possibilità di creare comunità in cui il principio di uguaglianza non è un’utopia, ma il clima naturale del cammino. Se l’istituzione controlla i contenuti e le modalità del cammino, la libertà in un percorso di base non istituzionalizzato metterebbe le basi per un’esperienza comunitaria in cui i membri hanno gli stessi diritti e doveri, compreso quello della presidenza nella celebrazione. In fin dei conti, il controllo delle relazioni in una cultura patriarcale diviene oppressivo ed esclusivo come forma per controllare il potere. La cristianità si è lasciata modellare dalla cultura patriarcale perché, sin dal suo sorgere, ha avuto pretese di potere. Al contrario, in una comunità alla quale non interessa alcun potere, ma solo ed esclusivamente il benessere delle persone, l’uguaglianza dei membri diviene un’esigenza implicita. In questa prospettiva, la comunità cristiana che verrà sarà come un punto di riferimento sicuro nel quale tutti potranno sentirsi parte, senza alcun tipo di esclusione. Comunità di questo tipo, modellate dallo stile del Vangelo, potranno divenire cammini costanti di umanizzazione, luoghi di accoglienza, di fraternità e di sororità.

La comunità che si struttura nell’epoca postcristiana, proprio perché non è istituzione, non ha bisogno di leaders, di guide. Tutti possono celebrare e tutti possono guidare la comunità, perché la prospettiva non è più piramidale, ma circolare. È tutta la comunità che diventa celebrante, anche perché il numero di componenti sarà esiguo e non ci sarà bisogno di un responsabile istituito. Saranno i membri della comunità a decidere come distribuire i compiti per il funzionamento della vita comunitaria. Relazioni ugualitarie, che generano anche l’esigenza che tra i membri non ci siano disuguaglianze sociali. In questo modo, si comprende bene che lo stile del vangelo esige un cammino in cui le relazioni siano guidate dalla ricerca costante dell’uguaglianza tra i membri, senza alcun tipo di discriminazione culturale e sociale. Il Regno di Dio annunciato da Gesù trova nel nuovo contesto culturale postcristiano una maggior possibilità di realizzazione, anche perché la post cristianità nasce sulle macerie dell’impostazione moderna della cristianità. Lo stile coercitivo tipico della modernità lascia necessariamente lo spazio ad uno stile dialogico e democratico.

Una caratteristica che ha segnato negativamente e in profondità la cristianità occidentale è stata il suo intreccio con il potere politico ed economico, spesso divenuto motivo di scandalo. La Chiesa come potenza del mondo ha tenuto lontano dai propri spazi coloro che invece avrebbero dovuti essere accolti. Le classi più povere della società, non solo non si sono sentite accolte dalla Chiesa, se non in alcune esperienze spesso ostacolate dall’istituzione ecclesiale[2], ma sono state prese di mira, penalizzate con tassazioni al limite della sopportazione.  Non solo, ma la rigidità dei suoi dogmi ha creato, di conseguenza, un numero significativo di persone escluse dalla comunità. Divorziati, separati, omosessuali, lesbiche transessuali: c’è tutto un mondo che si sente rifiutato da quella istituzione che avrebbe dovuto esprimere il segno tangibile dell’umanità accogliente di Gesù. Nell’epoca postcristiana che stiamo iniziando a vivere, ci sarà la possibilità d’impostare comunità che s’ispirano al Vangelo e che potranno proporsi come una vera e propria società alternativa alle logiche del denaro e a tutte le logiche di oppressione.

Un'altra caratteristica del cammino ecclesiale postcristiano è che è contaminabile. Se le strutture rigide, i sistemi onnicomprensivi che avevano la pretesa e, soprattutto, la presunzione di spiegare tutto, di dar ragione di ogni aspetto del reale, sono state tra le caratteristiche più significative della modernità e della cristianità moderna, nell’epoca postcristiana che sta facendo i primi passi, la cultura è fluida e, quindi, contaminabile. Mentre la caratteristica di una struttura rigida è quella di proteggersi dalle possibili contaminazioni che possono mettere in pericolo il sistema, in una cultura post moderna che è, allo stesso tempo, post-sistemica la fluidità consente ed esige la possibilità delle contaminazioni conoscitive. Trasportare queste intuizioni in campo teologico significa riconoscere la presenza dello Spirito Santo in ogni cultura e riconoscere che lo Spirito è già presente in tutto. Di questo dato teologico c’era conoscenza anche nell’epoca moderna, ma non si riusciva a viverla in pienezza a causa della rigidità della mentalità sistemica. La contaminazione in ecclesiologia, è un aspetto dell’inculturazione, che implica un atteggiamento di ascolto della cultura altra. Le comunità che si svilupperanno nella post cristianità saranno contaminate, perché non avranno più il problema di difendersi, di proteggere un’ortodossia. Inoltre, saranno contaminate perché riterranno i contenuti provenienti dall’esterno come una possibilità di arricchimento, di scambio e, di conseguenza di crescita e non una minaccia.

Il cambiamento non avverrà da un giorno all’altro: richiederà tempo. In ogni modo, il dato certo è che il cambiamento è in atto e la struttura moderna della cultura occidentale è ormai parte del passato. Siamo, quindi, in una specie di zona di mezzo, in cui non ci sono punti di riferimento e questo stato genera inquietudine, insicurezza, desiderio di attaccarsi ai ricordi del passato. Avere lo sguardo rivolto al futuro dove il Cristo vittorioso sulla morte si trova, significa fidarsi di Lui, della sua Parola, del suo Vangelo, di quello che sta operando in mezzo a noi. Mai come in questa epoca di passaggio verso il postcristianesimo, il mondo ha bisogno di comunità alternative, che sperimentano ogni giorno la bontà della proposta del Signore risorto.



[1] COLLIN, D. Il cristianesimo non esiste ancora. Brescia: Queriniana, 2020.

[2] Cfr. i movimenti pauperistici, ma anche le esperienze dei catari e dei valdesi.

martedì 25 ottobre 2022

L’opzione Benedetto di Rod Dreher

 

Rod Dreher



 

Paolo Cugini

Non sono molte le proposte religiose che sanno offrire uno sguardo rivolto al futuro sul passaggio epocale che stiamo vivendo e che stiamo analizzando. La maggior parte delle analisi sulla post cristianità, oltre ad indicare le cause e l’origine del cambiamento in atto, fanno fatica ad elaborare una proposta nuova. C’è, dunque, una tendenza all’analisi negativa e, soprattutto a guardare al passato con nostalgia. Non mancano, poi, i tentativi di restaurazione di ciò che c’era e che ora non esiste più, tentativi a volter parziali, ma sintomo di quella confusione generale che non riesce a scrollarsi di dosso e il passato e che, per questo, non sa cogliere le opportunità che il cambiamento in atto porta con sé. Una di queste proposte religiose che guardano al passato è quella dello scrittore americano Rod Dreher, autore del libro: L’opzione Benedetto[1].

La tesi di fondo dell’opera di Dreher è che in un mondo come il nostro, molto simile a quello che vide la fine dell’Impero Romano, è necessario fare come Benedetto da Norcia, separarsi dall’impero per poter ritrovare e conservare le proprie origini, radici e identità. Non si tratta della fine del mondo, ma della fine di un mondo, sta finendo un certo tipo di cristianità, quella europea occidentale. La proposta di Dreher non è una fuga dal mondo, una separazione radicale, com’era avvenuto nei primi secoli del cristianesimo, ma d’imparare a stare nel mondo senza farsi condizionare.  L’autore approfondisce le radici filosofiche e teologiche che hanno portato alla frammentazione della nostra società. Nello stesso tempo definisce le virtù cristiane presenti nella regola di San Benedetto un manuale monastico che ha preservato la cultura cristiana nel corso di molti secoli e possono aiutare oggi molti credenti. Secondo Dreher l’Occidente moderno vive come se Dio non esistesse. La nostra società alla deriva si definisce per lo scoppio, la paura e la perdita dei punti di riferimento. La scomparsa della cultura cristiana è una grande perdita per il mondo:

Da quando la modernità ci ha fatto perdere la religione cristiana, abbiamo perso la sola cosa che ci univa, che ci legava ai nostri vicini, che ci ancorava alla fede nell’ordine eterno e nell’ordine temporale… Abbiamo perso il nostro cammino[2].

Si tratta, allora, di riscoprire il passato. I moderni pensano che i modi di servire Dio trasmessi dai predecessori rappresentavano un freno all’autenticità. Al contrario, dovremmo apprendere come lodare Dio in modo da adottare uno stato di spirito veramente cristiano. L’autore cita il teologo riformato Hans Boersma secondo il quale la perdita del sacramentale è la prima causa della rovina della Chiesa moderna. Senza partecipazione all’eterno, cioè senza la coscienza che il mondo materiale e il tempo sono profondamente radicati nell’Essere di Dio, allora la Chiesa è incapace di resistere alle correnti della società liquide. Guardando ai monaci benedettini l’autore non fa altro che riproporre i classici temi della spiritualità cristiana: “La loro tradizione insegna come obbedire alla Parola di Dio e lasciarsi portare dallo Spirito Santo e soprattutto li libera dal fardello che pesa su coloro che devono costantemente adattarsi al cambiamento”.



Come si concretizza la proposta di Dreher nel riproporre l’opzione di san Benedetto? Nella seconda parte il libro analizza lo stile di vita cristiano che è presente nella Regola e che può essere adattato alla vita dei laici cristiani moderni di tutte le chiese e confessioni. Secondo l’autore la Regola di San Benedetto offre soluzioni sul modo di porsi di fronte alla politica, alla fede, all’istruzione e al lavoro. Anzitutto, è una proposta che tiene conto di tutti gli aspetti della vita sociale delle persone e che, di conseguenza, coinvolge il vissuto quotidiano che va dalla famiglia, agli amici, la comunità e ogni tipo di attività. Il principio di fondo della proposta dio Dreher è che coloro che s’identificano con la proposta cristiana devono organizzarsi in modo tale da proteggere i propri valori specifici dal contagio negativo del mondo. Interessante, in questa prospettiva, è il capitolo quinti in cui l’autore configura in modo dettagliato quello che dovrebbe essere e incarnare l’ideale di un villaggio cristiano conforme all’opzione Benedetto.

La sorte della religione è strettamente legata a quella della famiglia e, quella della famiglia, a quella della comunità. Il focolare dev’essere come un monastero, interamente rivolto verso Dio. Le famiglie cristiane amano credere di mettere Dio al primo posto, quando in realtà questo è molto raro. I genitori posso considerarsi come l’abate o la badessa del loro piccolo monastero e creare una vita di famiglia che incoraggi ogni membro a conoscere e servire Dio prima di ogni cosa[3].

Valorizzare la famiglia significa anche, secondo l’autore, recuperare la priorità alla parrocchia e ciò comporta ritirare i figli da un corso di sport che organizza delle partite all’ora della messa. Ancora più importante è che i bambini devono vedere i loro genitori a fare la stessa cosa. I monasteri mantengono lontano dalle pareti ciò che può nuocere alla loro ragione d’essere. Secondo Dreher, nelle scelte quotidiane delle famiglie cristiane non si deve aver paura di far sapere agli altri i fondamenti del proprio credo: non si deve aver vergogna di mostrare efficacemente la propria diversità che deriva dall’adesione al cristianesimo. Tutto ciò non è snobismo; semplicemente far prendere coscienza ai bambini che in questa famiglia, che ci sono certe cose che non si fanno e che è molto positivo così. Per questo occorre fare in modo di assicurarsi che i propri figli abbiano un buon gruppo di amici, che condividono gli stessi valori morali. Occorre, allora, vivere in prossimità dei membri della comunità, per fare in modo di creare legami con coloro che sono in sintonia di pensiero e, così, creare una protezione nei confronti del mondo liquido.

La Chiesa è allo stesso tempo un’arca e una sorgente, e dobbiamo tener conto di queste due realtà. Dio ci ha donato l’arca della Chiesa per aiutarci a prevenire nell’annegamento delle onde furiose della tempesta, ma ci ha donato anche la sorgente della Chiesa perché ci siamo immersi in un annegamento simbolico, al fine di rinascere a vita nuova, nutriti dal torrente della sua grazia[4].

Se non si cambia strada c’è il rischio di far scomparire i vestigi della fede cristiana, della sua civiltà. Per rendere testimonianza, i cristiani dell’era post-cristiana dovranno semplicemente essere la Chiesa, con tutta l’intensità e la creatività possibile. Per questo, occorre riproporre la liturgia, perché ci ricorda che il cristianesimo non è una filosofia, ma un modo di vita che ingloba tutto… La liturgia non si accontenta di trasmettere un’informazione a proposito di Dio: essa forma la nostra immaginazione e il nostro cuore. L’analisi di Dreher non è nuova. Richiama, infatti, alla memoria le analisi che negli anni Ottanta del secolo scorso  lo studioso inglese MacIntyre aveva proposto quando parlava di un mondo che si stava definendo senza tener conto del percorso morale Occidentale al punto da condurre l’autore a parlare di: dopo le virtù: “L’occidente ha abbandonato la ragione e la tradizione delle virtù, consegnandosi al relativismo che sta dilagando nel mondo di oggi” In una società post-virtuosa gli individui detengono la massima libertà di pensiero e d’azione, e la società stessa diventa un assembramento di estranei, ciascuno che persegue i propri interessi sottoposto a vincoli minimi.  Si raggiunge questa situazione quando si abbandonano le norme morali oggettive, quando si rifiuta qualsiasi narrazione religiosa e culturale, quando si rifiuta la memoria del passato. Dreher suggerisce ai lettori la vita ordinata della regola di san Benedetto per resistere al disordine del mondo moderno. Dreher ci tiene a precisare che nell’opzione benedetto non stiamo cercando di annullare sette secoli di storia, come se un’operazione simile fosse possibile. Né stiamo tentando di salvare l’Occidente. Stiamo solamente provando a costruire uno stile di vita cristiano che si erga come un’isola di santità e di stabilità in mezzo all’alta marea della modernità liquida. Occorre che i cristiani interiorizzino cosa davvero significhi porsi in posizione di minoranza. Cominciare a pensare in questi termini è davvero decisivo. “Se non lo faremo, continueremo ad operare in base a regole del gioco che hanno pochissimo a che fare con la partita che si sta effettivamente giocando”.

 Nelle parole di Dreher si percepisce la visione del mondo in toni fortemente negativi e pessimistici, un mondo dal quale ci si deve solo proteggere. Las post cristianità non è vista come possibilità per ripensare qualcosa di nuova anche in termini di fede, ma come minaccia.

 



[1] DREHER, R. Comment être chrétien dans un monde qui ne l’est plus. Le Pari Bénédictin. Paris : Artège, 2017.

[2]Ivi, p. 86.

[3] Ivi, p. 184.

[4] Ivi, p. 344.