Paolo Cugini
Mi
ricordo come se fosse oggi la telefonata che ricevetti alle 23 di un giorno
della settimana del febbraio del 1998 da don Tiziano Ghirelli, che allora era
il segretario del Vescovo Paolo Gibertini. “Il vescovo Paolo ti aspetta domani
alle 10. Mi raccomando, sii puntuale”. Passai tutta la notte a pensare il
motivo di quella richiesta fatta a quell’ora. Senza dubbio, avevo combinato
qualcosa (ogni tanto mi succede) che non era stata gradita nei piani alti.
Arrivai piuttosto teso all’incontro con il Vescovo e, con mio grande stupore,
non si trattava di un rimprovero nei miei confronti (stranissimo!), ma di una
proposta. “Carissimo don Paolo, abbiamo bisogno di te in Brasile. Un nostro
prete sta ritornando e tu sei un di quelli che ha dato la disponibilità per le
missioni diocesane”. Mi ricordo benissimo che, quella del Vescovo Paolo non fu
una domanda, una richiesta per una mia possibile disponibilità, ma una
proposta. Il Vescovo Paolo mi stava chiedendo di andare come fidei donum
nelle nostre missioni in Brasile. Non credevo alle mie orecchie: era veramente
una proposta meravigliosa e ancora più bella perché assolutamente inaspettata.
Mi disse che il mandato era per dieci anni (che poi diventarono quindici) e che
era necessario un corso di preparazione della durata di due mesi, che si
svolgeva ogni anno a Verona. Uscì da quell’incontro, che avrebbe trasformato
totalmente la mia vita, con il cuore travolto dall’emozione e la mente
stracolma di pensieri. Dieci anni, pensai, sono una vita.
I
primi anni di missione sono stati veramente duri. Ero entrato in un mondo
nuovo, a me totalmente sconosciuto. Non capivo la lingua, i modi di dire e di
fare ma, soprattutto, non riuscivo a capire come funzionasse il cammino di
Chiesa nel quale ero stato inviato. Non capivo come facessero don Piero e don
Antonio - due preti reggiani da anni in missione in Ipirà della Diocesi di Ruy
Barbosa con la quale la diocesi di Reggio collaborava da diversi anni - ad
accompagnare, assieme ad un gruppo di suore, una parrocchia costituita da circa
110 comunità. Quelle che in Brasile chiamano comunità, corrispondono sia per
numero di abitanti che per estensione, ad una nostra parrocchia. Piero, Antonio
e le suore, oltre a visitare regolarmente le comunità, che avevano la
possibilità della celebrazione eucaristica tre volte all’anno, svolgevano un grandissimo
lavoro di formazione dei laici e delle laiche. Avevano costruito un centro di
formazione e tutti i martedì realizzavano dei momenti formativi per mettere in
grado i laici e le laiche di accompagnare le comunità nei vari servizi
pastorali. Piero e Antonio, come del resto gli altri missionari, erano riusciti
a liberarsi del modello di prete occidentale, per mettersi a servizio di un
nuovo cammino di Chiesa, che esigeva un modello differente di prete. Non più il
parroco come unico responsabile della parrocchia, ma i laici e le laiche in
grado di celebrare la Parola alla domenica, di celebrare i funerali e tanti
altri servizi nella comunità. La Chiesa, dunque, arrivava e continua ad
arrivare in ogni singola comunità attraverso i laici e le laiche, grazie al
lavoro formativo dei presbiteri e delle suore. Piero e Antonio erano divenuti
capaci di accompagnare una parrocchia vasta come la diocesi di Reggio e
Guastalla, composta da circa 110 parrocchie, con l’aiuto di un gruppo di suore.
La grande rivoluzione pastorale è stata quella di mettersi al servizio di un
nuovo modello di Chiesa.
Appena
prete ero stato nominato curato e coordinatore della pastorale giovanile nella
zona Pastorale di Castelnovo Sotto. A quel tempo, cioè circa trent’anni fa,
c’era ancora un prete per ogni parrocchia. Don Danilo a Castelnovo, don Rino a
Cogruzzo, don Eugenio a san Savino e io amministratore parrocchiale a Meletole.
Eccetto il sottoscritto, questi preti sono già tutti nella casa del Padre e non
c’è stato il ricambio. In questo cammino di Chiesa la comunità s’identificava
con il parroco. Tutto passava dalle sue mani, ogni aspetto della comunità faceva
riferimento a lui. Questo modo di essere nella parrocchia aveva stimolato un
tipo di spiritualità specifico, quella del prete come “uomo mangiato” (padre
Antonio Chevrier), totalmente dedicato alle sue pecorelle, delle quali non solo
conosceva i nomi, ma anche tutte le vicissitudini. Del resto, quando rimani per
tutta la vita in una parrocchia con un esiguo numero di abitanti, questa
relazione di prossimità diventa possibile. Erano state queste le intenzioni del
Concilio di Trento e cioè che la parrocchia doveva avere un’estensione e un
numero di abitanti tale, che permettesse al parroco di visitarla speso. E così
è stato.
Poi
tutto è cambiato. Il numero dei giovani che entrano in seminario è cominciato a
calare drasticamente al punto da arrivare ad affittare all’Università il
prestigioso seminario di Reggio Emilia. Mi ricordo, una volta tornato
dolorosamente dal Brasile, di una conferenza per i preti in cui don Moretto
condivise una riflessione che trovai molto interessante (ogni tanto anche lui
ne dice una buona): “In questo cambiamento così repentino ci siamo dimenticati
di formare i laici per aiutarli a comprendere e accompagnare il cambiamento in
atto”. In uno dei miei ultimi incontro con il Cardinale di Bologna Matteo
Zuppi, che stimo tantissimo per la sua umanità e per la sua capacità
straordinaria di vedere lontano, di percepire i segni dei tempi, mi disse a
questo riguardo: “La CEI non ha mai trattato il tema delle Unità Pastorali in
uno dei suoi incontri. Sono i parroci che lo stanno affrontando”.
Nella
prossima puntata proverò a spiegare come mai l’esperienza dei missionari fidei
donum può essere utile al nuovo modello di parrocchia che si sta strutturando
in Occidente.
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