sabato 7 ottobre 2023

IN MISSIONE PER IMPARARE

 




 

Paolo Cugini

 

Mi ricordo come se fosse oggi la telefonata che ricevetti alle 23 di un giorno della settimana del febbraio del 1998 da don Tiziano Ghirelli, che allora era il segretario del Vescovo Paolo Gibertini. “Il vescovo Paolo ti aspetta domani alle 10. Mi raccomando, sii puntuale”. Passai tutta la notte a pensare il motivo di quella richiesta fatta a quell’ora. Senza dubbio, avevo combinato qualcosa (ogni tanto mi succede) che non era stata gradita nei piani alti. Arrivai piuttosto teso all’incontro con il Vescovo e, con mio grande stupore, non si trattava di un rimprovero nei miei confronti (stranissimo!), ma di una proposta. “Carissimo don Paolo, abbiamo bisogno di te in Brasile. Un nostro prete sta ritornando e tu sei un di quelli che ha dato la disponibilità per le missioni diocesane”. Mi ricordo benissimo che, quella del Vescovo Paolo non fu una domanda, una richiesta per una mia possibile disponibilità, ma una proposta. Il Vescovo Paolo mi stava chiedendo di andare come fidei donum nelle nostre missioni in Brasile. Non credevo alle mie orecchie: era veramente una proposta meravigliosa e ancora più bella perché assolutamente inaspettata. Mi disse che il mandato era per dieci anni (che poi diventarono quindici) e che era necessario un corso di preparazione della durata di due mesi, che si svolgeva ogni anno a Verona. Uscì da quell’incontro, che avrebbe trasformato totalmente la mia vita, con il cuore travolto dall’emozione e la mente stracolma di pensieri. Dieci anni, pensai, sono una vita.



I primi anni di missione sono stati veramente duri. Ero entrato in un mondo nuovo, a me totalmente sconosciuto. Non capivo la lingua, i modi di dire e di fare ma, soprattutto, non riuscivo a capire come funzionasse il cammino di Chiesa nel quale ero stato inviato. Non capivo come facessero don Piero e don Antonio - due preti reggiani da anni in missione in Ipirà della Diocesi di Ruy Barbosa con la quale la diocesi di Reggio collaborava da diversi anni - ad accompagnare, assieme ad un gruppo di suore, una parrocchia costituita da circa 110 comunità. Quelle che in Brasile chiamano comunità, corrispondono sia per numero di abitanti che per estensione, ad una nostra parrocchia. Piero, Antonio e le suore, oltre a visitare regolarmente le comunità, che avevano la possibilità della celebrazione eucaristica tre volte all’anno, svolgevano un grandissimo lavoro di formazione dei laici e delle laiche. Avevano costruito un centro di formazione e tutti i martedì realizzavano dei momenti formativi per mettere in grado i laici e le laiche di accompagnare le comunità nei vari servizi pastorali. Piero e Antonio, come del resto gli altri missionari, erano riusciti a liberarsi del modello di prete occidentale, per mettersi a servizio di un nuovo cammino di Chiesa, che esigeva un modello differente di prete. Non più il parroco come unico responsabile della parrocchia, ma i laici e le laiche in grado di celebrare la Parola alla domenica, di celebrare i funerali e tanti altri servizi nella comunità. La Chiesa, dunque, arrivava e continua ad arrivare in ogni singola comunità attraverso i laici e le laiche, grazie al lavoro formativo dei presbiteri e delle suore. Piero e Antonio erano divenuti capaci di accompagnare una parrocchia vasta come la diocesi di Reggio e Guastalla, composta da circa 110 parrocchie, con l’aiuto di un gruppo di suore. La grande rivoluzione pastorale è stata quella di mettersi al servizio di un nuovo modello di Chiesa.



Appena prete ero stato nominato curato e coordinatore della pastorale giovanile nella zona Pastorale di Castelnovo Sotto. A quel tempo, cioè circa trent’anni fa, c’era ancora un prete per ogni parrocchia. Don Danilo a Castelnovo, don Rino a Cogruzzo, don Eugenio a san Savino e io amministratore parrocchiale a Meletole. Eccetto il sottoscritto, questi preti sono già tutti nella casa del Padre e non c’è stato il ricambio. In questo cammino di Chiesa la comunità s’identificava con il parroco. Tutto passava dalle sue mani, ogni aspetto della comunità faceva riferimento a lui. Questo modo di essere nella parrocchia aveva stimolato un tipo di spiritualità specifico, quella del prete come “uomo mangiato” (padre Antonio Chevrier), totalmente dedicato alle sue pecorelle, delle quali non solo conosceva i nomi, ma anche tutte le vicissitudini. Del resto, quando rimani per tutta la vita in una parrocchia con un esiguo numero di abitanti, questa relazione di prossimità diventa possibile. Erano state queste le intenzioni del Concilio di Trento e cioè che la parrocchia doveva avere un’estensione e un numero di abitanti tale, che permettesse al parroco di visitarla speso. E così è stato.

Poi tutto è cambiato. Il numero dei giovani che entrano in seminario è cominciato a calare drasticamente al punto da arrivare ad affittare all’Università il prestigioso seminario di Reggio Emilia. Mi ricordo, una volta tornato dolorosamente dal Brasile, di una conferenza per i preti in cui don Moretto condivise una riflessione che trovai molto interessante (ogni tanto anche lui ne dice una buona): “In questo cambiamento così repentino ci siamo dimenticati di formare i laici per aiutarli a comprendere e accompagnare il cambiamento in atto”. In uno dei miei ultimi incontro con il Cardinale di Bologna Matteo Zuppi, che stimo tantissimo per la sua umanità e per la sua capacità straordinaria di vedere lontano, di percepire i segni dei tempi, mi disse a questo riguardo: “La CEI non ha mai trattato il tema delle Unità Pastorali in uno dei suoi incontri. Sono i parroci che lo stanno affrontando”.

Nella prossima puntata proverò a spiegare come mai l’esperienza dei missionari fidei donum può essere utile al nuovo modello di parrocchia che si sta strutturando in Occidente.

 

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