sabato 30 giugno 2018

TAPPA A MIGUEL CALMON



la piazza della città decorata per la festa di san Giovanni


Sono stato parroco di Miguel Calmon dal gennaio del 2000 a febbraio 2005. Dopo l'esperienza di un anno in Ipirà, per apprendere la lingua e capire un pò come funziona la Chiesa in Brasile, il Vescovo mi chiese di assumere la parrocchia di Miguel Calmon. Da anni la parrocchia era abbandonata. Appena arrivato, assieme alla visita nelle 60 comunità della zona rurale e alle 11 della città, iniziai un lavoro di formazione permanente dei laici.


al mio arrivo a Miguel Calmon, gli operatori pastorali mi hanno accolto nel salone parrocchiale per un momento di
fraternità e testimonianze

Avevo diviso la parrocchia in 8 regioni, oltre alle comunità della città. La mia settimana tipica era così: partivo (quasi sempre in bicicletta, soprattutto a partire dal 2002) al lunedì per visitare le comunità di una regione e tornavo al venerdì pomeriggio. Al venerdì sera studio biblico per i fedeli delle comunità della città. Una volta al mese un giorno di formazione teologica per i laici. 


Giovedì pomeriggio incontro con i laici di sette comunità di una
delle otto regioni della parrocchia. Bellissime le testimonianze condivise
con il ricordo del lavoro svolto 


Assieme a Gianluca Guidetti, un giovane di regina pace che fin dal 2000 venne per aiutarmi, abbiamo deciso di abbandonare la casa parrocchiale, per vivere nel quartiere più povero della città. Da questo osservatorio parrocchiale abbiamo realizzato molti progetti sociali e culturali che, ancora oggi, vanno avanti.

Una strada del quartiere dove abbiamo vissuto 


La cappella del quartiere Populares 

In questi giorni in cui sto visitando Miguel Calmon, molte sono state le testimonianze di affetto, nonostante siano trascorsi 13 anni dalla mia uscita.

Serata con gli amici nella casa di Sheila, una delle collaboratrici più attive della mia epoca


Anche a Miguel Calmon, venerdì sera 29 giugno, mi è stato conferito il titolo di cittadino miguelcalmonense. 
Tra le motivazioni di questo titolo la percezione di un modo di essere chiesa in mezzo alla gente e, in modo particolare, tra i poveri, seguendo l'esempio di Gesù. 

Festa per la consegna del titolo di cittadino di Miguel Calmon


martedì 26 giugno 2018

VISITA A TAPIRAMUTA'

la strada dove ho abitato per cinque anni




Dopo il periodo trascorso in Amazzonia con l'équipe diocesana, sto continuando il viaggio nelle tre parrocchie che ho servito per tanti anni.

Sara e Bira, che ora abitano ad Aracaju, hanno fatto 800 km per venire all'incontro

In questi giorni sono a Tapiramutà. L'accolgienza è stata degna di un re. Domenica ho visitato alcune comunità ma, come m'immaginavo, i giovani che hanno collaborato con me una decina di anni fa, sono tutti emigrati in cerca di lavoro e di studio.

La casa in cui abitavo

alcune vie della città di Tapiramutà






Domenica sera messa nella chiesa principale. Il nuovo parroco, don Carlo Fontinelle, ha ristrutturato la Chiesa e anche molte cappelle delle comunità della città. La gente gli vuole molto bene.

Lunedì sera nell'auditorium della città che nel 2012 hanno dedicato al sottoscritto, ho ricevuto la cittadinanza tapiramutenze e presentato il mio libro che ho scritto per l'occasione. Un bagno di affetto e amicizia veramente stupendo

Consegna della targa di cittadino di Tapiramutà





domenica 24 giugno 2018

LA DISTANZA




Tra Vangelo e cristianesimo

Paolo Cugini

Sono nati così, poveri piccoli! Sono nati in quel contesto in cui bisognava alzarsi, salutare educatamente, rispettare l’ordine delle cose. C’erano i grandi e i piccoli, i maestri e i discepoli, i preti e i laici. Ordini di grandezze diversi (ma non siamo tutti figli e figlie di Dio?). Ordini e grandezze che bisognava rispettare. Era l’epoca in cui il rispetto dell’ordine e la grandezza si pensava che fossero posti tutti quanti nella distanza, nel mantenere le dovute distanze. Nessuno a quell’epoca sospettava di nulla, sospettava che, in realtà, il rispetto poteva voler dire altre cose, altre misure, altre qualità. Si pensava che bastasse mantenere le distanze, le dovute distanze, e tutto era perfettamente in ordine, al suo posto. Perché era questo, in definitiva, l’importante: che tutto rimanesse sempre al suo posto. Perché, a quell’epoca c’era un posto per tutto e tutti sapevano il posto di tutti. L’importante era non far confusione, non scambiare di posto, non fare cose che potessero turbare l’ordine delle cose, creare disordine. Educare significava insegnare fin da piccoli il delicato sistema dei posti e delle dovute distanze, vale a dire, l’ordine delle cose. Nessuno si era mai posto il problema dell’origine di tanto ordine e distanza: c’era e basta. Soprattutto, però – e qui viene il bello – nessuno si era mai chiesto chi fosse stato ad imporre quest’ordine fatto di gradi diversi e di distanze. Nessuno, quindi si era mai chiesto: ma questo ordine – che è in realtà un grande disordine, perché non tiene conto della realtà, che genera diversità, che alimenta la molteplicità delle cose, che dice prima di tutto la sua molteplicità – chi lo ha voluto? Da dove viene? A che cosa serve?

Si era sempre fatto così e la buona educazione faceva di tutto perché tutto rimanesse sempre allo stesso posto e, soprattutto, alla giusta distanza. Abituare la gente a pensare che la realtà sia piatta, significava indurre nelle giovani menti un pensiero fisso: si è sempre fatto così, che vuole dire che non si può fare diversamente, che occorre imparare a riprodurre in modo costante nel tempo l’ordine delle cose, con le loro distanze. Si trattava – è questo il grande gioco, la più grande sovversione mai elaborata nella storia dell’umanità – di bloccare il presente, di tenerlo fermo, di non permettere che da questo punto così importante del flusso della storia, potesse uscire la molteplicità, potesse cioè esprimersi la realtà così come si manifesta, vale a dire come diversità, come creatività. Come fare per bloccare il presente? In che modo far credere – perché questa è l’educazione, per lo meno quella che deve difendere degli interessi di parte, quella che deve difendere una casta, quella casta che nelle distanze occupa il gradino più alto, quello a cui tutti devono rispetto e riverenza: spacciare per vero ciò che in realtà è falso – che tutto è fermo, che tutto è sempre immobile, che la realtà è fissa e che le cose si devono fare sempre allo stesso modo e che le distanze sono sempre uguali? Basta spostare il presente nel futuro, basta educare a progettare continuamente e spostare il presente in avanti che il gioco è fatto, che nessuno potrà percepire la dinamicità del presente, la pluralità della realtà, soprattutto questo: nessuno potrà cogliere la verità della realtà. Educare le persone a identificare la realtà con l’unicità: è stato questo il grande meccanismo messo in atto nel mondo Occidentale per nascondere il presente e, con esso, non permettere di cogliere la realtà come manifestazione di pluralità.

Sono diversi i prodotti culturali di questa grande manipolazione della realtà. Primo fra tutti la logica della pensione. Sacrificare il presente per vivere nel futuro; sacrificare la vitalità della giovinezza per poter vivere in pace l’ultima fase della vita. Forse è perché non ci fermiamo a riflettere, che questa impressionante aberrazione ci sembra normale, reale: ci sembra giusta. Del resto, si è sempre fatto così. Si dice che sia una delle migliori conquiste del mondo Occidentale, di questa cultura che si ritiene la più elevata di tutte. Ma se gratti un po’, carissimo amico, se poni un po’ di attenzione, carissima amica, ti renderai conto che questa cultura così elevata è, in realtà, estremamente brutale. Quanti giovani, infatti, inseriti in questa logica della pensione, diventano vecchi senza accorgersene? O meglio, forse se ne accorgono, forse vorrebbero fermare il meccanismo maledetto nel quale si sono ficcati, forse capiscono che la vita non può essere quella che stanno vivendo, fatte di ore fisse, di settimane sempre uguali, di orari rigidi, ma non riescono a saltarne fuori, perché gli viene detto che è il migliore dei sistemi possibili. E ad un certo punto ci credono. Ad un certo punto della vita non puoi che crederci, che fartene una ragione. E’ il sacrificio richiesto per il beneficio di pochi. C’è tutto un sistema educazionale che lavoro per riprodurre questo sacrificio per non farlo sentire tale, anzi per spacciarlo come il senso della vita. E allora arrivi alla fine delle vita, dove hai tempo di guardarti indietro, dove ti viene dato il tempo per guardarti indietro, perché a quell’età non sei più pericoloso, e ti disperi perché capirai che hai sprecato la tua vita dentro un ingranaggio che non ti ha dato spazio, un meccanismo che ti ha privato di tutto, soprattutto della vita. Ma ormai è tardi, la frittata è fatta, la vita è stata sacrificata. E la domanda emerge immediatamente: per cosa?

Accanto a questa grande aberrazione, ce n’è una seconda della stessa grandezza, ma che cammina per un’altra direzione: è l’idea d’identità. Se la realtà non è colta nella sua dinamicità e pluralità, nelle diversità di possibilità che può offrire per l’esistenza, allora, per il fatto che viene bloccata, s è fatto di tutto per far passare l’idea che c’è un’unica possibilità di vita. Tutta l’adolescenza e la giovinezza vengono preparate per educare le giovani anime a non perdersi, a non perdere tempo, a rimanere concentrate sul proprio futuro – e il presente? E la realtà che passa per quell’unico punto che è il presente? – per riuscire a costruire la propria vita modellata su di un’unica identità. E’ questa la parola magica: l’identità, che la s’identifica immediatamente con un’altra molto sofisticata: dignità. Sarai degno solamente se sarai fedele alla tua unica identità. Perché c’è un’identità da vivere che corrisponde esattamente al posto che occuperai nella società, che rientra in quell’ordine di grandezze di cui parlavamo poco sopra, ordine di grandezze che dicono di distanze da rispettare. Perché è questo rivela il subdolo meccanismo dell’identità unica, che non puoi essere nient’altro che ciò che diventi. Nell’identità l’essere si deve identificare con il desiderio e, se ciò non avviene, si fa di tutto per farcelo stare. Ci sono dei delicati sistemi messi in atto per fare in modo che nell’identità unica il desiderio coincida esattamene con l’essere. La depressione nasce da questo scompenso, dalla non piena identificazione tra essere e desiderio, per cui qualcuno ad un certo punto, inizia a desiderare qualcosa che è rimasto fuori dall’identità assunta. Basterebbe porsi sul punto del presente in cui scorre come un fiume la realtà nella sua dinamicità, vitalità e pluralità per accorgersi che quelli che noi chiamiamo scompensi esistenziali non sono altro che costruzioni culturali che, nella realtà, quella vera, quella che passa per il presente della vita, non esistono.

E nessuno sembrava importarsi che la vita stava diventando noiosa, che con tutto quell’ordine aumentava giorno dopo giorno la voglia di disordinare, di mettere un po’ di scompiglio per vedere cosa succedeva. Perché è questo il punto, carissimo mio: più imprimi degli ordini e più provochi i disordini. Perché non siamo tutti uguali. Ci sono gli ordinati, che fanno tutte le cose a puntino, che pensano e ci credono che vivere consista proprio nel fare tutto a modo, nel rispettare tutte le regole e le dottrine. E poi ci sono altri che, ad un certo punto si stufano; ci sono altri ancora che si stufano subito, perché pensano che il bello della vita non sia nell’ordine meticoloso, ma sia nascosto al di là dell’ordine, che non vuole dire immediatamente il disordine – anche se a volte sembra così – e se è nascosto lo si deve cercare per poterlo trovare. E lo puoi trovare solo se impari a vivere nel presente, a ripulire la tavola della vita da tutto ciò che vita non è, da tutte quelle logiche che incatenano il presente, da tutte quelle dinamiche che ti spostano continuamente verso il futuro.

La cosa strana, anzi addirittura sorprendente, è che ad un certo punto, proprio questa educazione alla distanza, tutto questo controllo del presente, tutto quell’ordine imposto, l’hanno chiamato educazione cristiana.  Addirittura! E poi, lo hanno fatto e sostenuto senza nessun ritegno, senza nessun tipo di vergogna, senza nessun tipo di pudore, senza nessun sospetto di un abuso, di una idiosincrasia: no, tutto normale. Ad un certo punto è divenuto normale ciò che normale non era, vale a dire che il Vangelo fosse qualcosa di ordinato per gente per bene, corretta, che rispetta la logica delle distanze. Ad un certo punto hanno fatto credere, quei furboni, che la moderazione era un valore evangelico, mentre la ribellione un disvalore. Che grandi furfanti! E’ chiaro che dentro il sistema che avevano strutturato sembrava proprio così, sembrava che le cose stessero proprio in quel modo. E da fuori, da quello che si vedeva, sembrava proprio che quella religione nata dal Vangelo chiamata cristianesimo, fosse roba per gente moderata, che stimolasse la tranquillità, che aiutasse le persone a vivere in pace, serene, senza problemi. Sembrava, addirittura – ed è questa la massima furberia – che il sistema di distanze fosse qualcosa di religioso, addirittura di sacro. Che birboni! E così, anche il cristianesimo era entrato nell’ordine delle distanze. C’era il prete da una parte e il popolo dall’altra. C’era il prete in un presbiterio che nei secoli è divenuto sempre più distante, che diceva le sue cose e là in basso, molto distanti, i fedeli che, per la maggior parte dei casi si trattava di donne fedeli. Anche loro, racchiuse nella loro distanza, facevano le loro cose: ognuno nel proprio mondo distante, pur essendo materialmente vicini. Sono trascorsi secoli e secoli in queste distanze assurde e nessuno o perlomeno così sembra, nessuno si chiedeva che senso avesse tutta questa distanza, tutta questa separazione. Non solo nessuno si chiedeva che senso avesse, ma soprattutto, nessuno si chiedeva perché pur essendo vicini bisognava vivere come se fossimo distanti.

Eppure Lui, il Signore – in tutti i sensi -, Lui Gesù, il figlio di Giuseppe e di Maria, quando inizia l’attività pubblica la prima cosa che fa è proprio quella di ridurre le distanze. Lui, quello che il popolo identificava come il Messia atteso e annunciato dai profeti, quando inizia l’attività pubblica, rompe tutte le distanze, le accorcia in modo impressionante. E’ un Maestro, un Rabbi, ma è così diverso dagli altri maestri per il modo di fare, per il modo di porsi, per il modo di stare al mondo, che la gente del popolo rimane subito entusiasta. Erano abituati con i farisei, i sadducei, con i dottori della legge, così pomposamente lontani dalla gente, così distanti da sembrare irraggiungibili. Si erano abituati alle leggi, ai precetti, all’osservanza esterna di regole e norme che i farisei applicavano, ritenendo tutto ciò religioso, più religioso, che lasciava sbigottita la grande libertà di movimento di Gesù. Il popolo lentamente si era abituato alla distanza, alla riverenza nei confronti dei signori del culto. E invece Gesù, pur essendo un Maestro e, per certi aspetti, uno di loro, pur essendo uno di loro ma, senza dubbio, diverso da loro, era così diverso da sembrare uno del popolo. Gesù si lasciava toccare. Perché Lui non poneva distanze, non parlava dall’alto al basso, non si faceva più importante degli altri, ma si lasciava toccare, e lui stesso toccava, baciava, accarezzava. E Gesù camminava per le strade, attorniato dalla gente e insegnava che Dio è un Padre con un cuore di Madre. E camminava per le strade con i sui discepoli e le sue discepole: camminava con loro, in mezzo a loro. Era bello vederlo giocare con i bambini! Era bello vedere Gesù il Figlio di Dio, camminare per le strade con vestiti come quelli della gente. Perché è chiarissimo che se vuoi mantenere le distanze, se vuoi far sapere agli altri che appartieni ad una casta, alla casta sacerdotale, che fai parte di qualcosa di diverso, che nel rapporto delle distanze appartieni a coloro che deve essere riverito; se ci tieni a questo tipo di linguaggio, allora caro mio, vestiti pure, metti i tuoi vestiti sacri, sgargianti e lussuosi; fai sentire tutto il peso della simbologia sacrale: fai capire a tutti chi sei, o meglio, chi pensi di essere. Eppure Gesù, cioè colui che dicono che sia all’origine di quella religione chiamata cristianesimo, tutta quanta ben strutturata nel sistema delle distanze, tutta quanta organizzata nelle sue celebrazioni sacrali, con l’arredo e il vestiario sacrale, ebbene Lui, che dovrebbe essere il fondatore di tutta questa roba, vestiva come tutti noi, camminava in mezzo al popolo e con il popolo: sembrava uno di noi, senza alcun tipo di distanze.

Non è un caso, allora, se lo troviamo costantemente in polemica con i farisei e i sadducei; non è un caso se proprio Gesù, il Maestro, il Figlio di Dio, che camminava in mezzo alla strada con i suoi discepoli e le sue discepole, vestito normalmente come tutti, mangiando assieme a loro, fosse costantemente in rotta con coloro, i dottori della legge, che insegnavano dall’alto al basso, e vestivano le vesti sacre fatte apposta per loro, per far capire chi erano e, soprattutto, a che distanza dovevano rimanere gli altri, cioè la plebe. Gesù se la prendeva con il loro modo d’insegnare, obbligando il popolo a portare il peso di precetti assurdi, che loro stessi non toccavano nemmeno con un dito. Gesù li rimproverava perché con il tempo avevano sostituito la Parola di Dio, che è amore e giustizia, con le tradizioni umane, corrotte e meschine. Gesù, infine, li rimproverava per le distanze assurde che avevano posto tra loro e il popolo. E dall’altra parte c’era Dio, il Dio della Bibbia, il Dio desideroso d’incontrarsi con l’uomo e la donna, il Dio la cui storia è un continuo processo di avvicinamento verso l’uomo, la donna, la terra. Sino ad arrivare a Gesù, suo Figlio, la massima espressione dell’annichilamento di tutte le distanze tra Dio è l’umanità. Gesù: uno di noi, il Dio con noi.
E allora, viene da pensare che dove c’è distanza, il Dio di Gesù Cristo fatica ad entrarci; dove c’è volontà di porre distanze, di segnare una differenza di quantità, Gesù, il Figlio di Dio che è venuto per eleminare ogni distanza e, quindi ogni ingiustizia, non trova spazio. Al contrario, però, dove c’è volontà di uguaglianza, dove le persone vivono accogliendosi per quello che sono, vale a dire figli e figlie di Dio, allora senza dubbio lì c’è il Signore della storia. Dove c’è un pezzo di umanità in qualsiasi posto del mondo, in cui le persone vivono come fratelli e sorelle, condividendo ciò che hanno, accogliendo chiunque senza distinzioni di razza, sesso o di qualsiasi altra cosa, allora, carissima amica, lì senza dubbio il Signore Gesù è con noi e in mezzo a noi.

martedì 19 giugno 2018

UNA TAPPA DI PASSAGGIO: SANTAREM



La cattedrale di Santarém


Domenica 17 giugno. Mentre ritornavamo a Manaus ci siamo fermati due giorni a Santarem, una città di 200 mila abitanti, a metà strada tra Manaus e Belém.

All'aeroporto hanno controllato un tipo sospetto

 Ne abbiamo approfittato per fare il punto della situazione, confrontandoci su quanto abbiamo visto in questi giorni e provando ad abbozzare qualche indicazione per la nostra diocesi di Reggio Emilia. Nel pomeriggio, debutto del Brasile alla coppa del Mondo in Russia: le strade erano completamente deserte. Qualcuno della comitiva reggiana ha assistito alla partita in un luogo pubblico che la trasmetteva per tutti.

Tutti a fare il tifo per il Brasile!

Quando gioca il Brasile non si scherza


Lunedì 18.  Prima di partire, visita al vescovo della diocesi di Santarem, l’italiano Flavio Giovenale, divenuto vescovo all’età di 43 anni. Oltre ad illustrare la struttura e il cammino della diocesi di Santarem, composta di 22 parrocchie, su di un territorio di 172.000 Kmq con una popolazione di 450.000 abitanti, ci ha offerto qualche consiglio per la scelta della diocesi da servire in Amazzonia. 
Foto di gruppo con il vescovo Flavio

Una chiesa di Santarém

Secondo lui, il principale criterio da seguire consiste nel scegliere tra le diocesi bisognose, la più bisognosa. Occorre, inoltre, Verificare realisticamente se si hanno le forze guardando le persone che sono disponibili a partire. Ciò significa che, se tra i preti che hanno dato la disponibilità c’è per esempio, qualcuno che ha paura dell’acqua, è meglio consigliarlo di stare a casa.

Due passi in compagnia prima di ripartire per Manaus


domenica 17 giugno 2018

DOCUMENTO PREPARATORIO PER IL SINODO SULL’AMAZZONIA (Sintesi)




Paolo Cugini

Venerdì 8 giugno 2018 il Vaticano ha emanato il documento preparatorio per il sinodo sull’Amazzonia dal titolo: “Amazonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale”. Sin dall’introduzione c’è la presa di coscienza che nella foresta amazzonica, di vitale importanza per il pianeta, si è scatenata una profonda crisi causata da una prolungata ingerenza umana, in cui predomina una «cultura dello scarto» (LS 16) e una mentalità estrattivista. Oltre a ciò, viene sottolineata la diversità non solo di bioma ma anche di culture e tradizioni religiose, che spesso vengono calpestate e che occorre apprendere a tenere in considerazione. Come solitamente vengono strutturati i documenti della Chiesa Latinoamericana, anche questo segue il metodo del: vedere, giudicare e agire.
I.                   VEDERE

1.      Il territorio. Il bacino amazzonico rappresenta una delle più grandi riserve di biodiversità. Si tratta di più di sette milioni e mezzo di chilometri quadrati, con nove Paesi che si spartiscono questo grande bioma. Per questo motivo si deve parlare di diversi tipi di Amazzonie il cui denominatore unico è l’acqua e, in modo particolare, il rio delle Amazzoni.

2.      Varietà socio-culturale. l’Amazzonia è una regione in cui vivono e convivono popoli e culture diverse, con differenti stili di vita. Per una questione di sopravvivenza la popolazione ha appreso ad addensarsi sulle rive dei fiumi, dedicandosi soprattutto alla pesca. A causa delle colonizzazione molti popoli dovettero fuggire all’interno per poter sopravvivere. Questi popoli vigilano sui fiumi e hanno cura della terra, nello stesso modo in cui la terra ha cura di loro. Sono i custodi della foresta e delle sue risorse. Gli interessi economici delle grandi multinazionali hanno devastato negli anni ampi territori, contaminando con agrotossici fiumi e laghi. Altro fattore di preoccupazione sociale è il grande traffico di droga. Anche le città si caratterizzano per le disuguaglianze sociali. La povertà che si è prodotta lungo la storia ha ingenerato rapporti di sottomissione, di violenza politica e istituzionale, aumento del consumo di alcool e di droghe. Il 70-80% della popolazione amazzonica risiede in città. Molti di questi indigeni non hanno documenti o sono irregolari, rifugiati, abitanti delle rive dei fiumi o appartengono ad altre categorie di persone vulnerabili. Di conseguenza cresce in tutta l’Amazzonia un atteggiamento xenofobo e di criminalizzazione verso i migranti e i profughi. La crescita smisurata delle attività di disboscamento ed estrattive ha impoverito la regione danneggiando la ricchezza ecologica.

3.      Identità dei popoli indigeni. Nei nove Paesi che compongono la regione panamazzonica si registra la presenza di circa tre milioni di indigeni, che rappresentano quasi 390 popoli e nazionalità differenti. Inoltre esistono nel territorio, secondo dati delle istituzioni specializzate della Chiesa (per esempio il Consiglio Indigeno Missionario del Brasile) e altre, fra i 110 e i 130 Popoli Indigeni in Isolamento Volontario (PIAV) o “popoli liberi”. In aggiunta, negli ultimi tempi, sta facendo la sua comparsa una nuova categoria costituita dagli indigeni che vivono nel tessuto urbano, alcuni dei quali restano riconoscibili mentre altri in quel contesto tendono a dissolversi e per questo sono chiamati “invisibili”.

4.      Memoria storica ecclesiale. L’inizio della memoria storica della presenza della Chiesa in Amazzonia si può situare nello scenario dell’occupazione coloniale della Spagna e del Portogallo. L’incorporazione dell’immenso territorio amazzonico nella società coloniale e il suo successivo passaggio di proprietà agli Stati nazionali è un lungo processo durato più di quattro secoli. Ciò che spaventa è che fino a oggi, dopo 500 anni dalla conquista, dopo all’incirca 400 anni di missione ed evangelizzazione organizzata e dopo 200 anni dall’emancipazione dei Paesi che compongono la Panamazzonia, le tendenze di sfruttamento continuano a svilupparsi sul territorio e tra i suoi abitanti, vittime oggi di un neocolonialismo feroce, «mascherato da progresso».  Le culture precolombiane hanno offerto al cristianesimo iberico che accompagnava i conquistatori molteplici ponti e possibili elementi di contatto, «come l’apertura all’azione di Dio, il senso della gratitudine per i frutti della terra, il carattere sacro della vita umana e la valorizzazione della famiglia, il senso di solidarietà e di corresponsabilità nel lavoro comune, l’importanza del culto, il credere in una vita ultraterrena e tanti altri valori».

5.      Giustizia e diritti dei popoli. La cultura imperante del consumo e dello scarto trasforma il pianeta in una grande discarica. La minaccia contro i territori amazzonici «viene anche dalla perversione di certe politiche che promuovono la “conservazione” della natura senza tenere conto dell’essere umano e, in concreto, di voi fratelli (e sorelle) amazzonici che la abitate. La situazione del diritto al territorio dei popoli indigeni in Panamazzonia ruota intorno a una problematica costante, quella della mancata regolarizzazione delle terre e del mancato riconoscimento della loro proprietà ancestrale e collettiva. Proteggere i popoli indigeni e i loro territori è un’esigenza etica fondamentale e un impegno fondamentale per i diritti umani. Per la Chiesa ciò si trasforma in un imperativo morale coerente con la visione di ecologia integrale di Laudato Si.

6.      Spiritualità e saggezza. Per i popoli indigeni dell’Amazzonia, il “buon vivere” esiste quando si vive in comunione con gli altri, con il mondo, con gli esseri circostanti e con il Creatore. I popoli indigeni, infatti, vivono all’interno della casa che Dio stesso ha creato e ha dato loro in dono: la Terra. Le loro diverse spiritualità e credenze li portano a vivere una comunione con la terra, l’acqua, gli alberi, gli animali, con il giorno e con la notte. I vecchi saggi, chiamati indistintamente – fra l’altro – payés, mestres, wayanga o chamanes , hanno a cuore l’armonia delle persone tra loro e con il cosmo. Tutti costoro «sono memoria viva della missione che Dio ha affidato a tutti noi: avere cura della Casa Comune» (Fr. PM). Gli indigeni amazzonici cristiani comprendono la proposta del “buon vivere” come vita piena nel segno della collaborazione all’edificazione del Regno di Dio. Questo buon vivere potrà essere raggiunto solo quando si realizzerà il progetto comunitario in difesa della vita, del mondo e di tutti gli esseri viventi.

II. DISCERNERE. VERSO UNA CONVERSIONE PASTORALE ED ECOLOGICA
1.      Annunciare il Vangelo di Gesù in Amazzonia: dimensione biblico-teologico. Ogni realtà creata esiste per la vita e tutto quello che conduce alla morte si oppone alla volontà divina. In secondo luogo, Dio stabilisce un rapporto di comunione con l’essere umano «creato a sua immagine e somiglianza» (Gen 1,26), al quale affida la salvaguardia della creazione (cf. Gen 1,28; 2,15). Allo stesso tempo, i racconti biblici testimoniano che nella creazione ferita è piantato il germoglio della promessa e il seme della speranza, perché Dio non abbandona l’opera delle sue mani. La provvidenza del Padre e la bontà della creazione raggiungono il loro culmine nel mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio, che si fa vicino e stringe in un abbraccio tutte le situazioni umane, ma soprattutto quelle dei più poveri. La Pasqua porta a compimento il progetto di una “nuova creazione” (cf. Ef 2,15; 4,24), rivelando che Cristo è la Parola creatrice di Dio (cf. Gv 1,1-18) e che «tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui» (Col 1,16). La tensione fra il “già” e il “non ancora” coinvolge la famiglia umana e il mondo intero: «L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio.

2.      Annunciare il Vangelo di Gesù in Amazzonia: dimensione sociale. L’opera evangelizzatrice di ricevere e trasmettere l’amore di Dio comincia con il desiderio, la ricerca e il prendersi cura degli altri (cf. EG 178). Pertanto, l’evangelizzazione implica l’impegno in favore dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, per migliorare la vita comunitaria e così «rendere presente nel mondo il Regno di Dio» (EG 176), promovendo nel e per tutto il mondo (cf. Mc 16,15) non una «carità à la carte » (EG 180), ma un vero sviluppo integrale, cioè per tutte le persone e per tutta la persona. Già nelle storie bibliche della creazione emerge l’idea che l’esistenza umana si caratterizza per tre relazioni fondamentali strettamente connesse: la relazione con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra. Per questo l’opera dell’evangelizzazione ci invita a lavorare contro le disuguaglianze sociali e la mancanza di solidarietà mediante la promozione della carità e della giustizia. Questa dimensione sociale – e in ultima analisi cosmica – della missione evangelizzatrice è particolarmente rilevante nel territorio amazzonico, nel quale l’interconnessione fra vita umana, ecosistemi e vita spirituale è stata e continua a essere chiara per la maggior parte dei suoi abitanti.

3.      Annunciare il Vangelo di Gesù in Amazzonia: dimensione ecologica «Il Regno che viene anticipato e cresce tra di noi riguarda tutto» (EG 181), ricordandoci che «tutto nel mondo è intimamente connesso» (LS 16) e che pertanto «il principio del discernimento» dell’evangelizzazione è collegato a un processo integrale di sviluppo umano (cf. EG 181). Questo processo si caratterizza per un paradigma relazionale denominato ecologia integrale, che articola fra loro i vincoli fondamentali che rendono possibile un vero sviluppo. Il primo grado di articolazione per un autentico progresso è il vincolo intrinseco fra l’elemento sociale e l’elemento ambientale. Riconoscere il territorio amazzonico come bacino, al di là delle frontiere tra i Paesi, aiuta ad avere uno sguardo integrale sulla regione, essenziale per la promozione di uno sviluppo e di una ecologia integrali. Pertanto, il processo di evangelizzazione della Chiesa in Amazzonia non può prescindere dalla promozione e dalla cura del territorio (natura) e dei suoi popoli (culture). Per questo, ha bisogno di stabilire ponti che possano articolare i saperi ancestrali con le conoscenze contemporanee (cf. LS 143-146), particolarmente quelle che riguardano l’utilizzo sostenibile del territorio e uno sviluppo coerente con i sistemi di valori e con le culture dei popoli che abitano questi luoghi, da riconoscere come loro autentici custodi, e in definitiva come loro proprietari. L’ecologia integrale c’invita ad una conversione integrale. Questa conversione non può essere solo personale, ma deve tradursi. in comportamenti sociali.

4.      Annunciare il Vangelo di Gesù nell’Amazzonia: dimensione sacramentale. Uno sguardo ecclesiale contemplativo e una pratica sacramentale coerente sono le chiavi per l’evangelizzazione dell’Amazzonia. Nell’Eucaristia la comunità celebra un amore cosmico, in cui gli esseri umani, accanto al Figlio di Dio incarnato e a tutta la creazione, rendono grazie a Dio per la vita nuova in Cristo resuscitato (cf. LS 236). In questo modo, l’Eucaristia costituisce la comunità, una comunità pellegrina festiva che diventa «fonte di luce e di motivazione per le nostre preoccupazioni per l’ambiente, e ci orienta ad essere custodi di tutto il creato».

5.      Annunciare il Vangelo di Gesù nell’Amazzonia: dimensione ecclesiale-missionaria. In questo ascolto reciproco tra il Papa (e le autorità ecclesiali) e gli abitanti del popolo amazzonico si alimenta e si rafforza il sensus fidei del Popolo e cresce il suo essere ecclesiale: «Abbiamo bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più che sentire». L’Assemblea Speciale per la Regione Panamazzonica ha bisogno di un grande esercizio di ascolto reciproco, specialmente di un ascolto tra il Popolo fedele e le autorità magisteriali della Chiesa. Una delle cose principali da ascoltare è il gemito «di migliaia di comunità private dell’Eucaristia domenicale per lunghi periodi».

III. AGIRE. NUOVI CAMMINI PER UNA CHIESA DAL VOLTO AMAZZONICO

1.       Chiesa dal volto amazzonico. «Essere Chiesa è essere Popolo di Dio», incarnato «nei popoli della terra» e nelle loro culture (EG 115). L’universalità o cattolicità della Chiesa si trova dunque arricchita mediante «la bellezza di questo volto pluriforme» (NMI 40) delle diverse manifestazioni delle Chiese particolari e delle loro culture. La Chiesa è chiamata ad approfondire la sua identità mettendosi in relazione con le realtà dei territori in cui vive e ad accrescere la propria spiritualità ponendosi in ascolto della saggezza dei popoli che la compongono. Così, rivolgendo l’attenzione alla realtà locale e alla diversità delle microstrutture concrete della regione, la Chiesa si rafforza costituendosi come un’alternativa di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza e alla logica uniformizzante incentivata da tanti mezzi di comunicazione, così come a un modello economico che non è solito rispettare i popoli amazzonici e i loro territori.

2.      Dimensione profetica. Bisogna superare la miopia, la frettolosità e le soluzioni di corto raggio. È necessario mantenere una prospettiva globale e andare oltre gli interessi propri o particolari, per poter condividere ed essere responsabili di un progetto comune e globale. I popoli amazzonici, nella loro concezione dialogica della vita sociale, sono mossi dallo Spirito Santo. Per questo Papa Francesco ha affermato che «è necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro» e dalle loro culture, e che il compito della nuova evangelizzazione richiede di «prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche [siamo chiamati] ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (EG 198). Di conseguenza, i loro insegnamenti potrebbero indicare la direzione delle priorità per i nuovi cammini della Chiesa in Amazzonia.

3.      Ministeri dal volto amazzonico. I nuovi cammini per la pastorale dell’Amazzonia esigono di «rilanciare l’opera delle Chiesa» (DAp 11) nel territorio e di approfondire il «processo di inculturazione» (EG 126), che domanda alla Chiesa amazzonica di avanzare proposte «coraggiose», fatte con «audacia» e «senza paura», come ci chiede Papa Francesco. Il profilo profetico della Chiesa si mostra oggi attraverso il suo profilo ministeriale partecipativo, capace di rendere i popoli indigeni e le comunità amazzoniche i «principali interlocutori» (LS 146) all’interno di tutte le questioni pastorali e socio-ambientali del territorio. E’ urgente valutare e ripensare i ministeri che oggi sono necessari per rispondere agli obiettivi di «una Chiesa con un volto amazzonico e una Chiesa con un volto indigeno» (Fr. PM). Una priorità è quella di precisare i contenuti, i metodi e gli atteggiamenti di una pastorale inculturata, capace di rispondere alle grandi sfide del territorio. Un’altra priorità è quella di proporre nuovi ministeri e servizi per i diversi agenti pastorali, che rispondano ai compiti e alle responsabilità della comunità. In questa linea, occorre individuare quale tipo di ministero ufficiale possa essere conferito alla donna, tenendo conto del ruolo centrale che le donne rivestono oggi nella Chiesa amazzonica. È altresì necessario sostenere il clero indigeno e nativo del territorio, valorizzandone l’identità culturale e i valori propri. Infine, bisogna progettare nuovi cammini affinché il Popolo di Dio possa avere un accesso migliore e frequente all’Eucaristia, centro della vita cristiana (cf. DAp 251).

4.      Nuovi cammini. C’è bisogno di una spiritualità di comunione fra i missionari autoctoni e quelli che vengono da fuori, per imparare insieme ad accompagnare le persone, ascoltando le loro storie, partecipando ai loro progetti di vita, condividendo la loro spiritualità e facendo proprie le loro lotte. Una spiritualità con lo stile di Gesù: semplice, umano, dialogante, samaritano, che permetta di celebrare la vita, la liturgia, l’Eucaristia, le feste, sempre rispettando i ritmi propri di ogni popolo. Incoraggiare lo sviluppo di una Chiesa dal volto amazzonico implica, per i missionari, la capacità di scoprire i semi e i frutti del Verbo già presenti nella concezione del mondo dei popoli della regione. Per fare questo è necessario assicurare una presenza stabile e conoscere la lingua autoctona, la cultura e l’esperienza spirituale di quei popoli. Soltanto così la Chiesa potrà rendere presente tra di essi la vita di Cristo.




sabato 16 giugno 2018

ITAITUBA: LA PRELATURA SUL FIUME TAPAJOS

Eccoci qua





Paolo Cugini

Mercoledì 13 giugno. Siamo giunti nella prelatura di Itaituba alla sera dopo un viaggio veramente pesante. In Aereo da Manaus a Santarem dove ci è venuto a prendere un consacrato carmelita per fare circa 400 Km su strade sterrate allucinanti, intervallate da pezzi di asfalto. Giunti alla prelatura ci ha accolti il Vescovo mons Wilmar Santin visibilmente stanco, anche lui proveniente da un viaggio all’interno della prelatura: 450 km per realizzare alcune cresime. Cena e poi a letto.

Il vescovo Wilmar Santin: è sempre sorridente e trasmette un'energia incredibile

Giovedì 14 giugno. In città tutti i giorni, eccetto il sabato, alle 6,45 ci sono le lodi e mesa con la comunità, alla quale ci siamo uniti anche noi. Subito dopo la colazione partenza su due macchine per visitare le comunità di una delle due parrocchie della città, vale a dire Nostra Signora del Buon Rimedio. La periferia della città di Itaituba, che conta con circa cento mila abitanti, è molto vasta. In molti dei quartieri le strade non sono ancora asfaltate. Mentre viaggiavamo suor Celina ci ha raccontato la situazione pastorale delle varie comunità incontrate. Oltre alla sede della parrocchia Nostra Signora del Buon Rimedio, ci sono 28 comunità. Da quasi due anni la parrocchia non ha un parroco. Era l’unica parrocchia ad avere un parroco diocesano. 

In macchina per la visita alle comunità della città
Don Gabriele Carlotti, il vescovo Mons Wilmar e suor Celina

Le suore accompagnano la formazione e la coordinazione del lavoro pastorale delle comunità nella città, visitando anche le famiglie. E’ una città in continua espansione e, di conseguenza, continuamente si assiste al fenomeno già incontrato dell’invasione di terra da parte delle famiglie che vengono da fuori per abitare in città. Le famiglie che desiderano offrire un’educazione migliore ai figli sono obbligate a spostarsi in città poiché nelle comunità rurali al massimo ci sono le scuole elementari. Lo stesso discorso vale per la salute. Chi vive nelle comunità della campagna o lungo il fiume in caso di necessità deve far ricorso all’ospedale che trova in città. Non osiamo immaginare il trasporto in ambulanza in simili strade. Ci siamo fermati dinanzi ad una cappella in legno e abbiamo visitato una zona in cui la comunità ha comprato un terreno con l’idea di costruire la nuova cappella. Tutto è fatto con i mezzi della comunità che si organizza, oltre che la decima, con dei momenti di festa e altre iniziative per raccogliere fondi. A detta di suor Celina, è in questi momenti in cui le persone si uniscono per costruire qualcosa insieme, che cresce il senso di appartenenza alla comunità. Mentre visitavamo la periferia della città, siamo rimasti impressionati dal numero enorme di chiese evangeliche e neo-pentecostali: ce ne sono davvero tantissime. La maggior parte dei quartieri che abbiamo visitato sono in condizioni di grande povertà.

strada in un quartiere della città

Una chiesetta di una delle tante comunità dei quartieri della città


Nel pomeriggio lunga chiacchierata con Mons Wilmar Santin di 65 anni, vescovo della Prelatura di Itaituba dal 2011, che ci ha fatto il quadro completo della situazione della prelatura.

La chiacchierata con il vescovo


I Municipi di Itaituba sono Ruropolis, Trairao, Novo Progresso, Jacarèacanga. Oltre a questi c’è una punta del municipio di Altamira che è pastoralmente servita dalla prelatura: Castelo de Sonhos e Cachoeira da Serra. Il municipio di Altamira è molto lungo ed era troppo per una prelatura sola, quindi l’hanno divisa. Di questi due ultimi municipi non si sa quanto siano estesi, comunque la prelatura ha un territorio grande quanto lo Stato del Paranà.



Nella prelatura ci sono i cercatori d’oro perché è una zona ricca di oro. Ciò comporta tutta una situazione sociale piuttosto grave. Il governo sta favorendo il garimpo, vale a dire l’estrazione dell’oro. Molti sono anche gli stranieri che arrivano, soprattutto canadesi.

Cercatori d'oro


Altri settori significativi sul piano economico sono l’industria del legno e la produzione di NIOBIO (Columbio): è usato per i computer. Brasile e Canada sono i maggiori produttori. Questo provoca grande contaminazione di mercurio. I composti del Columbio sono molto tossici e danneggiano in modo irrecuperabile l’organismo. Questo vale anche per il mercurio.

Idroelettrica: esiste un grande progetto nell’area, nella Bacia del Tapajòs sono progettate 43 centrali idroelettrica.

Sul territorio della prelatura ci sono attualmente 8 parrocchie: due in Itaituba e una in ogni municipio e poi Castelo de Sonhos. Le due parrocchie della città di quasi centomila abitanti possono contare con un solo presbitero.
Esistono anche due aree pastorali che funzionano come parrocchie, anche se la documentazione (certificati di battesimo, matrimoni, ecc.) rimane nella chiesa centrale. C’erano due preti oblati, che sono andati via ed erano coloro che si occupavano di queste due aree. Adesso chi aiuta è suor Creuza che si occupa di queste due zone pastorali con 28 comunità attive e altre 15 sono inattive. Ci sono comunità sul fiume a alcune all’interno.

Nella prelatura esiste un’area indigena chiamata san Francesco: è una missione attiva di circa 100 anni, una delle missioni più antiche in Brasile che lavora con i popoli indigeni ed è gestita dai francescani, che sono arrivati nel 1910. Quest’immensa area indigena è composta da circa 130 villaggi di indios. Ci sono anche i carmeliti scalzi che stanno aiutando.
“Oggi attendiamo 5 villaggi – ci racconta il vescovo -  che non avevano ricevuto servizio pastorale dalla Chiesa sino ad oggi. Altri villaggi si, con i Francescani. Le ultime sono state visitate da un prete circa due anni fa. Questi villaggi non sono organizzati e non hanno tradizioni. Gli indigeni parlano portoghese Nei villaggi indigeni c’è la visita del padre ogni tre mesi”.

In Ruropolis ci sono tre preti stranieri verbiti. Tutti i preti presenti in diocesi sono religiosi: Verbiti, Oblati, carmelitani, Cavanis (il loro carisma è l’educazione e stanno fondando una facoltà cattolica e stanno aprendo un asilo), Francescani.
Pastorali Sociali attive nella prelatura

·         CPT (pastorale della terra) si è costituita con il nuovo Vescovo.
·         Pastorale dei bambini è presente da molto tempo, anche se non sempre è strutturata. Il vescovo precedente aveva investito molto nella formazione degli agenti della pastorale del bambino.
·         Pastorale del migrante: ci sono molti migranti provenienti dal Mato Grosso
·         Pastorale carceraria
·         Pastorale delle persone anziane, che è articolata nelle due parrocchie della città di Itaituba
·         Pastorale della sobrietà per persone con dipendenza chimica
·         Pastorale di AIDS
·         Pastorale indigenista: è il quarto anno che s’incontrano per uno scambio di opinione e formazione
·         Pastorale di Giustizia e Pace
·         Radio Comunitaria: ci sono cinque soci di cui tre legati alla Chiesa

Le distanze sono enormi, oltre a ciò le strade sono sterrate e, quelle asfaltate sono piene di buche. Questo dato è importante per caprie le difficoltà che incontrano gli operatori pastorali nel loro servizio.

Nella prelatura è presente l' ECC (Incontro degli Sposi con Cristo): è iniziato nel 2014 nella città di Itaituba. L’ECC è una proposta pastorale rivolta direttamente alle coppie di sposi per aiutarli a riscoprire la loro vocazione matrimoniale e il loro inserimento nella vita della comunità cristiana. Nel 2011 era presente in Novo Progresso e in Castello de sonhos. In città sono al quarto incontro della prima tappa (il cammino ne prevede tre). L’ECC ha aiutato le coppie ad assumere l’impegno del servizio nelle comunità.

Pastorale della decima: funziona nelle parrocchie e riesce a mantenere il lavoro pastorale. Stanno lavorando per aiutare le persone ad avere uno spirito della decima per crescere nell’appartenenza alla comunità.

Catechesi: quando è arrivato il vescovo era solo catechesi tradizionale. Oggi si cerca di fare un lavoro di catechesi d’iniziazione cristiana, conforme alle indicazioni della CNBB (documento 97 del 2011). Nel 2013-14 la prelatura ha realizzato un direttorio di catechesi da tenere in comune per tutte le parrocchie. Anche alcuni manuali di altre diocesi sono stati assunti dalla Prelatura. L’obiettivo è lavorare in comunione e insieme. Altro passo importante è stata la conoscenza di Padre Abimar, teologo assessore della CNBB di catechesi, che ha realizzato incontri nella prelatura per i parroci, le suore e alcuni laici. I risultati di questo lavoro di catechesi si stanno notando. Nel 2016 c’è stato un congresso regionale sulla catechesi e hanno partecipato 21 laici della prelatura. Questo lavoro sta aiutando a togliere le comunità dalla dipendenza del prete. Altro momento importante nel cammino di ristrutturazione della catechesi è stato il Corso di catechetica: quattro settimane. Hanno partecipato tre persone. Serve per formare coordinatori diocesani. Un grande problema è la perseveranza in questi cammini formativi.

Altro punto importante della prelatura è la Formazione:
·         C’è un centro di formazione diocesano che è utilizzato per gli incontri che durano alcuni giorni.
·         Centro di Pastorale dove è attivo un corso di teologia per laici che dura una settimana per mese per due anni. Qui funziona anche le segreterie delle pastorali sociali.
·         è stato realizzato il primo seminario di Catechesi nel 2018

Il centro di formazione


Assemblea: Avviene ogni 4 anni. Le persone hanno chiesto di regionalizzare la formazione. Le priorità che l’assemblea ha indicato sono:
1.      Formazione
2.      Difesa della vita: è stato fatto poco. Sono apparse alcune nuove pastorali sociali.
3.      Pastorale vocazione: è iniziata ma non si è sviluppata bene

Assemblea del 2017, priorità:
1.      Giovani
2.      Formazione
3.      Famiglia
4.      Pastorale Vocazionale

Situazione del seminario: Non ci sono preti diocesani, ma tutti religiosi. Attualmente c’è un seminarista che sta facendo l’esperienza pastorale e sta passando in tutte le parrocchie della prelatura. Ce ne sono altri tre che terminano gli studi di filosofia a Santarem. Gli studi teologici vengono fatti a Belem. Prima c’era un seminario a Belém, ma l’hanno chiuso perché non c’erano più seminaristi. Attualmente stanno cercando di inviare i seminaristi per Belo Horizonte dai gesuiti, una delle migliori facoltà teologiche del Brasile. Qui c’è una comunità di formazione a tutti i livelli e il vescovo è molto soddisfatto. Non ci sono vocazioni, perché secondo il vescovo non è stato fatto un buon lavoro. Infatti, ogni congregazione pensa per sé e non stimola le vocazioni diocesane.

Ci sono due congregazioni femminili: Carmelitane della divina provvidenza (4); L’altra: Missionarie di Santa Teresa di Gesù Bambino (3). Queste due congregazioni sono venute per amicizia con il Vescovo. Nella parrocchia di Jacareacanga c’è la congregazione delle passioniste (3). Poi ce ne sono 3 dell’Immacolata Concezione che attuano nella missione San Francesco con i popoli indigeni.
Una delle difficoltà è l’avvicendamento del clero religioso. In una parrocchia in sei anni hanno cambiato cinque parroci. E’ faticoso portare avanti un piano pastorale. Secondo il vescovo questo è uno dei problemi principali. Si fa fatica a lavorare insieme perché ogni congregazione sembra andare per conto proprio.

Altro problema. Il vescovo anteriore non aveva un piano pastorale fatto insieme. Ogni parrocchia e area pastorale aveva una dipendenza totale con i preti. Ogni parrocchia era un’isola. Il nuovo vescovo ha iniziato la sua attività realizzando incontri con i preti per favorire la comunione del presbiterio: quattro incontri per anno. Due incontri sono di fraternità. I presbiteri hanno suggerito che gli incontri vengano fatti ogni volta in parrocchie diverse. L’idea è riuscire ad avere una linea pastorale comune e di assumere insieme la prelatura. Il vescovo ha consegnato una chiave della sua casa ad ogni prete della diocesi.

Proposta per Reggio Emilia: Assumere la parrocchia in città nostra Signora del buon Rimedio e una mano per la parte liturgica e la parte più sacramentale nelle comunità. E’ una parrocchia che è già stata affidata a Diocesani e così potrebbe avere un modello diocesano.


Esterno ed interno della chiesa della parrocchia di Nostra Signora del Buon Rimedio che il Vescovo vorrebbe affidare
alla diocesi di Reggio EMilia

Venerdì 15 giugno. Giornata trascorsa visitando le comunità della zona rurale. Tra andata e ritorno abbiamo trascorso 150 km di strada sterrata. Per lavorare pastoralmente in questi contesti ci vogliono delle schiene di acciaio. Mentre andavamo abbiamo notato che lo stile di Chiesa è lo stesso di quello che abbiamo accompagnato per anni nello Stato della Bahia, vale a dire, parrocchie costituite di Comunità Ecclesiali di Base con il laici che assumono i servizi pastorali delle comunità. Senza il loro contributo le comunità sarebbero sparite e la fede del popolo non avrebbe la possibilità di essere alimentata. Se ciò è vero in generale, lo è ancora di più in questo contesto in cui da anni non c’è un presbitero che accompagni il cammino. Dopo circa 50 Km abbiamo fatto sosta nella casa della leader della comunità Santa Teresina, che ci ha rifocillati con caffè, frutta e biscotti.
 E’ sempre bello essere accolti da un sorriso. Abbiamo continuato il cammino per giungere ad una comunità di circa 1500 persone, posta sul fiume Tapajos. Comunità ben strutturata in cui funzionano diversi servizi pastorali: la catechesi, la pastorale dei bambini, della decima e la celebrazione domenicale. “L’ultima messa nella comunità – ci dice suor Creuza che ci ha accompagnato nel viaggio e che accompagna queste comunità – è stata celebrata nel dicembre dello scorso anno e non ci sono previsioni di un’altra. Attualmente c’è un solo prete in città con quasi 100 mila abitanti e, di conseguenza, non riesce ad accompagnare anche le comunità della campagna”.

Cappella della comunità di San Giovanni Battista

Mentre suor Creuza parlava, pensavo alla fatica che facciamo in Italia per spostare l’orario di una messa o, addirittura per toglierne una. Qui il problema non si pone: il prete non c’è. E’ vero che sono contesti diversi, come del resto sempre ci viene rinfacciato a noi preti missionari, come se fosse una colpa essere stati inviati in missione dal nostro vescovo e dalla nostra diocesi di origine, ma la Chiesa è la stessa. Forse l’importanza di una diocesi come Reggio Emilia di avere un piede nelle missioni, serve anche per questo: aiutarci a guardare i problemi tenendo conto punti di vista diversi, sguardi di Chiesa che sono altro rispetto al punto di vista unico. La Chiesa proprio perché è cattolica è universale, costituita da tutti i popoli di tante culture diverse; quando la comunità si chiude in sé stessa e pensa a se stessa tenendo conto del suo unico punto di vista, s’impoverisce.
 Nonostante questa mancanza di preti, è bello vedere che la comunità continua a vivere. Appena arrivati abbiamo notato il clima di festa attorno alla cappella di san Giovanni Battista. “Ci stiamo preparando per la festa del patrono – ci dice la leader della comunità -. E poi per l’occasione ci sarà il matrimonio di 12 coppie!”.


Abbiamo poi ripreso il viaggio per dirigerci nella comunità di Filadelfia e Moreira. Quest’ultima ci ha colpito particolarmente: una comunità immersa nella natura. C’erano piante enormi di manga, banana e altri tipi di frutta oltre a piante di fiori. A 20 metri dalla cappella un gruppetto di bambini schiamazzavano allegri mentre facevano il bagno nel fiume. Nelle comunità della campagna il tempo sembra fermarsi. Le famiglie che vivono qui hanno un pezzetto di terra in cui possono piantare ciò che serve per vivere. Le grandi piogge, caratteristica di tutta l’Amazzonia, mantengono una vegetazione ricchissima e con colori impressionanti. Nel ritorno ci siamo fermati alla comunità di Santa Teresina, nella quale abbiamo trovato il pranzo pronto.



Alla sera messa nelle comunità. La suora che articola la pastorale nella città, ha approfittato della presenza di preti che sanno il portoghese per collocarci a celebrare messa in alcune comunità della città. Io ho celebrato la messa nella comunità di san Sebastiano. Come sempre la liturgia era tutta preparata in ogni sua parte, dai laici della comunità. Alla fine hanno fatto di tutto per trattenermi implorandomi di ritornare.

Il vescovo alla sera non c’era. E’, infatti, partito nel pomeriggio per celebrare le cresime in una comunità che dista 650 Km di strade allucinanti! In questa comunità rimarrà sino a giovedì e ne approfitta per stare con la gente e con il prete della parrocchia. Quando siamo arrivati mercoledì sera era appena giunto da un altro viaggio faticosissimo. Lui però, è sempre sorridente e con la battuta pronta: un uomo veramente straordinario e con una fede impressionante. Incontrare persone così motiva il ministero e rafforza il desiderio della missione.
La cattedrale della Prelatura di Itaituba


Domani rientro a Manaus. E qui che condivideremo le nostre considerazioni delle visite realizzate, da consegnare la Vescovo Massimo

 
Don Umberto e don Gabriele a fare la spesa