sabato 27 giugno 2015

L'IDENTITÀ DEL PRESBITERO NELL'UNITA' PASTORALE



SPUNTI DI RIFLESSIONE

Paolo Cugini

Introduzione
La nuova prospettiva ecclesiale che si apre dinanzi a noi con l’esperienza delle Unità Pastorali, cambia il modo di vivere e comprendere il ministero presbiterale. E’ questo, forse, uno dei dati di fatto sui quali non si riflette ancora abbastanza. C’è in gioco la struttura spirituale del presbitero, il suo modo di sentirsi parte della chiesa e di esprimere questa appartenenza.  Da una lunghissima stagione, perlomeno in Occidente, che ha visto l’identificazione della parrocchia con il sacerdote, si passa ad una impostazione nuova, nella quale entrambi i soggetti in causa devono reinventare il proprio ruolo. La figura del presbitero, in questo nuovo modello ecclesiale che è l’Unità Pastorale, dev’essere ripensata. Il presbitero non può, infatti, pensare di vivere il ministero nel modo con il quale lo viveva nella parrocchia. Siamo dinanzi ad un passaggio epocale che dev’essere colto e sul quale è importante abbozzare delle riflessioni. Il presbitero è chiamato a compiere una serie di passaggi significativi e, dentro questi passaggi, dev’essere accompagnato.

Momento di passaggio
Da un servizio pastorale incentrato sul presbitero, che nella parrocchia è il punto di riferimento di ogni attività, si passa ad una presenza sempre più mediata da laici, che assumono responsabilità effettive nella comunità. Il presbitero dovrà essere in questo nuovo contesto ecclesiale, sempre di più una persona capace d’intessere relazioni, di essere ponte tra le persone che interagiscono nelle varie comunità dell’unità pastorale. Se nel contesto parrocchiale il presbitero era l’unica autorità, nell’unità pastorale il presbitero dovrà condividere la leadership con figure di laici qualificati e creare relazioni di stima con loro e tra di loro. Anche se nell’unità pastorale presumibilmente ci saranno più di una figura presbiterale, ciò non toglie che il presbitero non potrà più garantire come un tempo la presenza totale nella parrocchia. Possono sembrare osservazioni banali, ma nel nostro contesto ecclesiali sono fondamentali. Le persone della comunità parrocchiale, infatti, da secoli sono state abituate a rapportarsi con un’unica figura di presbitero e a delegare a questa figura tutta la vita spirituale, liturgica e pastorale della comunità. Questa unicità di presenza ha prodotto spesso anche il culto della personalità, soprattutto quando il presbitero era dotato di una personalità forte. Culto della personalità alimentato sia da una teologia del presbitero che insisteva in modo eccessivo sul potere conferito al presbitero da parte della chiesa, che lo rendeva ontologicamente differente in virtù del sacramento dell’ordine; sia anche da una spiritualità che vedeva nel presbitero un uomo distaccato dal popolo, tutto dedito al Signore, nei digiuni e nella preghiera.

  Uno dei grandi problemi che i presbiteri dovranno affrontare consisterà nell’accompagnare le persone delle varie comunità parrocchiali presenti nell’unità pastorale, ad abituarsi a non avere la presenza fisica del sacerdote 24 ore al giorno. Senza dubbio, sarà proprio questo uno dei grandi motivi delle lamentele. Se il presbitero non vorrà scoppiare in poco tempo, dovrà vincere la tentazione di voler rispondere a tutte le richieste dei laici, come faceva un tempo e lo faceva perché era proprio questa una delle caratteristiche della spiritualità e della mistica del parroco: farsi mangiare. Il prete come cibo donato alle persone della comunità: erano queste le parole della spiritualità di Chevrier, che si assimilava nei seminari e che orientava la spiritualità del presbitero. Il prete come uomo mangiato, consumato per il suo popolo. Il presbitero come figura eroica, che viveva il ministero in una donazione totale ed esclusiva per quella porzione di popolo che incontrava nella parrocchia a lui affidata per tutta la vita. Per questo la parrocchia era fortemente segnata dalla figura del presbitero che lo serviva, dalla sua personalità e spiritualità, nel bene e nel male. Non a caso il patrono dei parroci è il santo curato d’Ars, che racchiude in sé tutte le caratteristiche richieste per stimolare la santità presbiterale, vale a dire la dedizione totale per le anime (relativamente poche) a lui affidate, nella preghiera, nel digiuno, nella disponibilità esclusiva per la vita sacramentale. Oggi, nella prospettiva dell’Unità Pastorale, sarà necessario trovare una nuova figura di santità che ispiri le nuove generazioni di presbiteri. Sarà, infatti, impensabile – anche se ci saranno ancora molte persone nelle parrocchie ad esigerlo – pretendere dai sacerdoti lo stesso tipo di sacramentalizzazione, e lo stesso rapporto di esclusività con le persone delle comunità. Nell’ecclesiologia sottesa alle Unità Pastorali il presbitero, più che essere punto di riferimento unico per il cammino spirituale delle persone presenti nella comunità, dovrà divenire lo stimolatore dei carismi. Più che essere al centro della vita della comunità, dovrà essere sempre di più ai margini, favorendo e stimolando il laicato locale. Nell’unità pastorale formata da diverse comunità, il presbitero non potrà più essere al centro e riferimento di ogni singolo settore della parrocchia. Sarà perciò come forzato a proporre dei percorsi formativi che mettano in grado il laicato locale ad assumere in modo responsabile i diversi ministeri e servizi. La nuova situazione pastorale che si viene a delineare stimola una nuova spiritualità presbiterale, meno incentrata sulla santità intesa come sforzo individuale, e più attenta alla comunione e alle situazioni che la rendono possibile, vale a dire, la capacità d’ascolto, l’attenzione alle relazioni.

Da un modello all’altro
 E’ inutile oggi fare della dietrologia: importante è capire che d’ora innanzi è un altro tipo di presbitero che dovrà essere pensato per il nuovo aspetto della comunità incontrata nell’unità pastorale. Questo, senza dubbio, sarà uno dei problemi maggiori in questa prima fase di cambiamento per i presbiteri formati nella spiritualità sopra descritta. Occorrerà molta pazienza e una grande capacità di mettersi in ascolto del cambiamento in atto, assieme ad una buona dose di umiltà per convivere con la sofferenza interiore, che un tale cambiamento può provocare nell’anima di colui che è chiamato a cambiare impostazione. Ogni impostazione pastorale, infatti, ha dietro di sé una propria visione ecclesiologica e, di conseguenza, una specifica spiritualità. Il presbitero ha sempre vissuto nella parrocchia il compito dell’evangelizzazione come proprio compito specifico: per questo raramente delegava agli altri. Solamente a partire dal Concilio Vaticano II – stiamo parlando di appena 50 anni fa! – la sensibilità verso l’impegno dei laici si è fatta strada nella vita della chiesa con tantissime fatiche e incomprensioni presenti ancora oggi. Qual è il ruolo del sacerdote nell’agglomerato di parrocchie che costituiscono l’unità pastorale, ognuna delle quali molto spesso viene da una lunga tradizione? Certamente viene meno la mistica sponsale che vedeva il parroco sposo della sposa (la parrocchia). Questa mistica alimentava poi tutta una serie di atteggiamenti e di scelte che identificavano il parroco come figura di riferimento fondamentale all’interno della comunità. La presenza costante del parroco nella parrocchia contribuiva a creare legami molto profondi. Nella parrocchia tutto è sempre ruotato attorno al parroco. E’ lui che fa le benedizioni alle case, gli incontri con i fidanzati, i funerali e tutti i sacramenti. E’ sempre il parroco che nella parrocchia si occupa delle minime cose, come l’apertura e la chiusura dei locali, la formazione degli educatori e gli incontri con le famiglie. Tante cose, tutte utili, ma che avevano il limite d’identificare la parrocchia con il parroco. Nella nuova impostazione delle unità pastorali sarà impossibile mantenere lo stesso sistema pastorale. Sarà dunque necessario un cambiamento d’impostazione, di modo d’intendere l’evangelizzazione che avrà delle conseguenze sia sulla spiritualità che sulla teologia dei sacramenti. Per facilitare la riflessione provo a pormi alcune domande:
·         In una prospettiva di Unità Pastorale come dovranno essere effettuate le confessioni? Come faranno due sacerdoti su di un’Unità Pastorale di 15/20 mila abitanti con 4/5 parrocchie come si realizzeranno le confessioni dei bambini? Sarà ancora possibile realizzarle come si è sempre fatto o sarà necessario prendere sul serio le celebrazioni penitenziali con assoluzione comunitaria? La mente va anche a tutti quegli adulti abituati ad una confessione prima della messa: come accompagnare questi adulti ad una relazione diversa con il sacramento della riconciliazione?

·         Come pensare e vivere nella nuova impostazione pastorale l’Eucarestia? E’ giusto tirare il collo a due preti (è solo un esempio) che devono alla domenica celebrare 6/7 messe in 5/6 comunità differenti? Come ripensare un calendario domenicale che tenga conto la centralità dell’Eucarestia e, allo stesso tempo, la possibilità del presbitero di vivere l’Eucarestia non solo come momento celebrativo, ma anche come momento di comunione con i fedeli e di relazione con loro? E’ veramente poco evangelico assistere alle corse forsennate dei presbiteri che passano le domeniche a correre tra una chiesa e l’altra senza avere un minuto da trascorrere con le persone presenti all’Eucarestia. A volte questo correre è il sintomo di una duplice difficoltà: da una parte dei presbiteri che fanno fatica a ricollocarsi alla domenica in un modo diverso nelle comunità; dall’altro dei fedeli laici che fanno fatica a staccarsi dalla “propria” messa fatta sempre nello stesso orario e nello stesso luogo.

Cambiamento come un dono

Tutte queste problematiche evidenziate, che mostrano la necessità di cambiare prospettiva e impostazione pastorale, non sono solo nell’ordine del negativo, ma vanno lette come segno dei tempi, come opportunità che il Signore offre alla nostra Chiesa per crescere. Il Signore ci vuole aiutare a crescere nella comunione, nella corresponsabilità, nel pensare ed attuare insieme l’evangelizzazione del territorio. Sarà questa la grande fatica che ci aspetta. Da una parte, i laici sono stati abituati nelle nostre parrocchie, a delegare tutto al prete; dall’altra i sacerdoti sono da sempre abituati a centralizzare tutto, sin nelle minime cose. Questo sistema pastorale ha prodotto da un lato l’infantilismo pastorale dei laici e, dall’altra, il maschilismo paternalista del clero. Avvicinare questi due mondi molto distanti tra loro è forse uno dei dono che il Signore ci sta ponendo accanto in questa nuova situazione. Paradossalmente, la nuova situazione pastorale che il Signore ci presenta dinanzi può aiutare i presbiteri a vivere il proprio ministero in un modo più umano, più a livello della gente e meno da star, da padroni della comunità. Quando, infatti, un presbitero non ha più una singola comunità da accompagnare, ma diverse, non potrà più far dipendere il cammino della comunità dalla sua presenza, ma dovrà apprendere a valorizzare i carismi e a mettere in grado le persone della comunità ad assumersi le proprie responsabilità. Detto in altri termini: le comunità all’interno di una Unità Pastorale, soprattutto se si tratta di un’unità estesa sia geograficamente che di numero di abitanti, dovranno funzionare – pastoralmente parlando – senza la presenza costante del presbitero. Ciò comporta, da una parte, l’attivazione di percorsi formativi permanenti, che permetta ai laici le condizioni per assumere il servizio nella comunità nel quale viene inviato, dall’altra meno presbiteri tutto fare e onnipresenti, e più presbiteri strumenti di comunione, lievito invisibile nelle comunità. Forse è all’interno di questa impostazione pastorale che potrà maturare nell’anima del presbitero quello stile di libertà che caratterizzava lo stile di Gesù, che non spadroneggiava sul gregge o sui discepoli e discepole che formava lungo il cammino, ma li lasciava maturare ognuno con i suoi tempi. Pensiamo al cammino di Pietro o di Tommaso, ma anche di Paolo e della Maddalena. C’è ancora veramente molto su cui riflettere in questa nuova impostazione pastorale. 

venerdì 12 giugno 2015

LE COSE STRANE DELL'EVANGELIZZAZIONE IN PARROCCHIA





TRATTENERE INTRATTENENDO

Paolo Cugini

L’essenza della fede
E’ interessante ogni tanto fermarsi e pensare a che cosa facciamo nelle parrocchie per annunciare il Vangelo. Ci sono delle attività che ormai vengono date per scontate, che vanno avanti per inerzia e, di conseguenza, non le si mette in discussione perché, si dice, si è sempre fatto così, oppure, altra risposta degna di attenzione, è che si fa così perché è bello! E allora, se dinanzi all’estetica non è possibile avanzare, proviamo, almeno a farlo con la riflessione, interrogandoci su ciò che è davvero essenziale per l’evangelizzazione, su ciò che non può assolutamente essere messo da parte per annunziare Gesù al mondo e, di conseguenza, su ciò che è possibile e, in alcuni casi, doveroso lasciare, abbandonare. Una simile riflessione veniva fatta nei dibattiti sulla missione, quando s’inventò l’immagine del nocciolo e del rivestimento, per capire appunto ciò che era essenziale per l’annuncio del Vangelo in missione e ciò che era secondario, anche e soprattutto in funzione dell’inculturazione. Il grande dilemma era capire – dilemma ancora presente all’interno del dibattito della Teologia della Liberazione – se l’impalcatura filosofica utilizzata per elaborare i dogmi cristologici e trinitari presenti nel Credo Niceno Costantinopolitano, fanno parte dell’essenza della fede oppure è possibile descrivere il contenuto profondo su Dio in modo diverso, utilizzando immagini e concetti mutuati da altre culture? Mentre lasciamo ai posteri l’ardua sentenza, mi sembra importante capire dove stiamo andando in questo nuovo contesto culturale, che sta modificando giorno dopo giorno non solo i contenuti dell’esistenza quotidiana, ma anche il modo di rapportarsi a Dio.  Senza dubbio, chi ha alle spalle un passato missionario riesce a ragionare in termini più sereni e distesi, per il semplice fatto che ha un ventaglio di esperienze pastorali ed ecclesiali maggiore e soprattutto, di diverse modalità, che gli permette di cogliere con più facilità l’essenziale del discorso sull’evangelizzazione e, così,  capire meglio e in modo più rapido, che cosa sia possibile lasciare perdere quando ci apprestiamo ad abbozzare un progetto pastorale e che cosa sia invece fondamentale per procedere sul terreno dell’evangelizzazione.

Intratteniamo per trattenere
 E’ questo che si vede abbondare nelle nostre parrocchie. Abbiamo moltiplicato le proposte d’ intrattenimento per riuscire a trattenere quella gente che, quando gli viene presentato ciò che la Chiesa ha di specifico, vale a dire: Messa, Liturgia, Parola di Dio, Carità, ecc., scappa via. Come se l’obiettivo di Gesù fosse, appunto, quello di agglomerare persone, di riunire moltitudini, di correre dietro ai numeri. Nei vangeli, infatti – anche in quelli apocrifi – non si riporta mai un dibattito sulla quantità dei partecipanti alle predicazioni di Gesù. E’ il narratore che interviene a specificare che c’era una gran folla; niente, però, di questo tipo di preoccupazioni si trova tra le indicazioni che Gesù ha dato ai sui discepoli e discepole. Eppure, se ci pensiamo bene, è esattamente questa una delle grandi preoccupazioni dell’evangelizzazione oggi: i numeri. Contano davvero tanto. Ci fa male constatare la chiesa vuota o le sedie vuote agli incontri formativi che organizziamo. Anche perché in tanti decenni, bisogna proprio dire che di sale ne abbiamo costruite e anche belle grandi, spaziose, con tante vetrate. Vederle, allora, vuote fa proprio una gran pena. Anche perché quando ci apprestiamo a costruire delle strutture orientiamo tutta la pastorale per riempirli quei benedetti spazi. Constatare, allora, che in questo mondo sempre più secolarizzato, liquido sempre più laico e anticlericale, delle nostre strutture parrocchiali alla gente non interessa molto frequentarle, fa terribilmente male. Vuole dire, infatti – se si ha il coraggio di tentare una lettura serena dei dati – che occorre cambiare strategia, provare ad andare ad evangelizzare là dove la gente si trova, negli ambienti nei quali la gente vive o dove la gente si trova. Pensare la parrocchia in un modo nuovo (o antico?) e cioè non con l’ansia di riempire degli spazi, ma con la serenità i un annuncio che nasce da un cammino di conversione, dalla testimonianza del Risorto, che è entrato e cambiato delle vite, che pongono da quel momento relazioni nuove dentro la storia degli uomini e delle donne, comporta la serenità di trovarsi a pregare con le persone che amano il Signore e che per questo hanno fatto delle scelte.

Il coraggio di scegliere
 Liberarsi dall’affanno degli spazi e delle strutture significa recuperare la serenità della vita, la pace che è dono dello Spirito Santo, la gioia del condividere un cammino, nella consapevolezza che è un percorso esigente come è esigente la proposta del Signore. Mi sembra questo un passaggio importante del messaggio cristiano che spesso e volentieri nelle parrocchie dimentichiamo, vale a dire che la sequela, essendo la proposta del Signore Risorto, che ha sconfitto la morte con una vita di amore fatta di totale donazione disinteressata e gratuita, esige delle scelte. Quante volte nelle parrocchie svendiamo i sacramenti elaborando percorsi di catechesi capaci d’incastrarsi con i mille impegni che i bambini hanno! Facciamo fatica ad elaborare una proposta formativa per i genitori, proposta che tenga presente del nostro specifico che deriva dal Vangelo, che ha dei contenuti che contrastano con la logica del mondo. Vangelo che c’insegna il servizio e la solidarietà, al contrario dell’egoismo e della cura dei propri interessi. Vangelo che insegna ad aver cura del creato e che al centro dei discorsi e dei progetti ci sono le persone e non le cose. Vangelo che insegna la semplicità della vita, l’attenzione ai più piccoli, la vita di comunità e la cura della vita interiore. Quando ci fermiamo per pensare a tutto ciò che il Signore ci ha donato con la sua venuta, all’abbondanza di vita piena della quale ci fa partecipi, rimaniamo perplessi delle tante difficoltà che incontriamo nella vita pastorale quotidiana a valorizzare tutto ciò con proposte chiare, senza scendere a facili compromessi per correre dietro ai numeri. Se dei genitori ascoltando le nostre proposte ponessero delle difficoltà perché il percorso formativo dei sacramenti non s’incastra bene con gli allenamenti e le altre mille attività dei figli, che problemi avremmo a chiedere loro di fare delle scelte, di scegliere il meglio per i propri figli? Se è vero che la cultura postmoderna nella quale viviamo sta relativizzando i valori, perché dobbiamo adeguarci a questa liquefazione? Forse uno dei compiti attuali della chiesa consiste proprio nell’aiutare le persone a cogliere il valore delle cose, a mettere ordine sulle priorità della vita e, quindi, ad aiutarle a scegliere. Probabilmente, per poter avere questa forza propositiva nella società, dovremmo smettere d’inventarci i servizi d’intrattenimento e concentrarci a recuperare quello che ci è stato donato.